Molti sono i film che prima di avere il via libera della produzione hanno una lunga storia di rinvii e rifiuti. Tra questi vi è Fino All’Ultimo Indizio, thriller poliziesco la cui prima stesura della sceneggiatura è del 1993 e che avrebbe dovuto essere girato da Steven Spielberg, il quale però lo rifiutò perché lo riteneva troppo cupo. Nel corso degli anni vennero contatti Clint Eastwood, Warren Beatty e Danny DeVito, ma senza successo.
Dopo 30 anni di nulla di fatto, John Lee Hancock ha deciso di dirigere lui stesso quanto sceneggiato anni prima, portando sul grande la storia di un’indagine che si fa ossessione. Nella recensione di Fino All’Ultimo Indizio seguiremo la vicenda di due detective alle presi con una difficile caccia ad uno spietato serial killer.
Dopo 30 anni di gestazione Fino All’Ultimo Indizio prende finalmente vita
Caccia al serial killer
Californi, anni ’90. Joe “Deke” Deacon è il vice sceriffo della Contea di Kern e suo malgrado viene inviato a Los Angeles per raccogliere prove forensi per un recente omicidio. Costretto a fermarsi nella città dove prestava servizio poiché le prove non sono ancora pronte, si ritrova a seguire il caso del serial killer a cui i suoi colleghi stanno dando la caccia e terrorizza Los Angeles.
L.A. è terrorizzata da un serial killer. Sulle sue tracce il sergente Jim Baxter e il vice sceriffo Joe Deacon.
A seguire il caso c’è il giovane e promettente Sergente Jim Baxter, che chiederà a Deke di accompagnarlo sulla nuova scena del crimine, sperando che la sua esperienza possa aiutarlo a catturare l’assassino. L’intuizione di Baxter è giusta, infatti il vice sceriffo noterà che il modus operandi del killer ha delle somiglianze con un caso irrisolto a cui Deke lavorava anni prima.
I due poliziotti iniziano così a collaborare in via ufficiosa al caso, ma Baxter è all’oscuro che l’ultimo caso seguito da Deke a Los Angeles gli ha quasi rovinato la carriera e che la caccia al serial killer potrebbe riaprire ferite mai del tutto guarite.
So ’90s
Come molti thriller polizieschi anche Fino All’Ultimo Indizio poggia le sue basi sulla società americana, in questo caso su quella degli anni ’90 che era caratterizzata dalla paura per i serial killer. Non c’è quindi da stupirsi che la storia si focalizzi su brutali e sull’indagine di una coppia di poliziotti che tenta di catturarlo.
John Lee Hancock porta su grande schermo un’America dove le strade delle grandi città non erano sicure, dove ogni sera spariva qualcuno e la paura regnava sovrana. Un realtà quella degli anni ’90 in cui la polizia sembrava impotente e brancolare nel proverbiale buio più che mai. Senza possibilità di riuscire a fare il proprio lavoro.
Un mestiere quello di poliziotto fatto di lunghe giornate a raccogliere testimonianze, analizzare ogni piccolo dettaglio delle scene del crimine, vedere fino alla nausea le foto degli omicidi e ascoltare testimonianze, spesso inconcludenti. Il tutto descritto i maniera vivida e reale. Durante le due ore di film lo spettatore assiste alla routine delle indagini, spesso lente, macchinose e inconcludenti.
Fino All’Ultimo Indizio ci mostra l’America degli ’90, una società dominata dalla paura e dai serial killer.
Un periodo quello degli anni ’90 dove la tecnologia non riusciva a dare il contributo sperato e in cui i serial killer riuscivano a prendersi gioco della polizia e farla sembrare un branco di incapaci. Anni sicuramente non facili da questo punto di vista per cittadini e forze dell’ordine.
L’indagine si trasforma spesso in ossessione per i poliziotti.
Fino All’Ultimo Indizio mostra come il desiderio e la smania di catturare l’assassino possano arrivare a governare la vita di chi esegue le indagini. I detective diventano così ossessionati dal caso che si dimenticano di tutto quello che gli sta intorno. Non è un caso che piano piano i colleghi e gli affetti dei due poliziotti spariscano, lasciando il posto al loro unico indiziato. Che non fa che prendersi gioco di loro.
Suspence e disillusione
Il film riesce a intrattenere e intrigare. La suspense, il sospeto e l’ossessione la fanno da padrone.
Un thriller che riesce nel suo intento di incuriosire, mettere ansia e intrigare, grazie ad un mistero da risolvere che si rivela sempre più complicato e quindi di difficile soluzione. Una storia dove di certo non manca la suspense, resa al meglio grazie ad una discreta sceneggiatura che mette in scena una vera e propria partita a scacchi.
La scrittura di Hancock poggia sul sospetto e sull’ossessione, sia dell’assassino che degli investigatori, e capace di dare vita ad una vicenda capace di catturare sin da subito l’attenzione dello spettatore. La storia è quindi tanto vintage quanto attuale, dove non mancano i richiami ai grandi film del genere, su tutti Se7en di David Fincher.
Per quanto la storia, e quindi l’indagine, proceda lentamente non è mai noiosa.
Per quanto il film proceda lentamente, come l’indagine, perché si sofferma sulle piccole cose che per quanto insignificanti sono quelle più importanti. Perché sono sempre i dettagli a fare la differenza e a farti beccare – da qui il perfetto titolo originale The Little Thing – ma spesso anche quelle più difficili da notare.
Un andamento che però risulta tutt’altro che noioso poiché lo spettatore viene coinvolto come terzo detective nel cercare di risolvere il caso e capire chi sia il serial killer che sta terrorizzando L.A.. Il tutto condito con flashback che richiamano i delitti irrisolti del passato che potrebbero contenere indizi utili. Perché alla fine i rimorsi e i sensi di colpa tornano sempre a farsi sentire.
Se la storia funziona e risulta credibile lo si deve anche ai tre protagonisti. Denzel Washington si cala perfettamente nei panni del detective veterano che si è ritirato in una tranquilla città di provincia per sfuggire ai sensi di colpa e al fallimento della sua vita privata. Rami Malek è un giovane detective ambizioso, egocentrico e con molto da impare, mentre Jared Leto riesce a dare credibilità allo stereotipo del maniaco lascivo e inquietante.
I tre attori premio Oscar riescono ad interpretare al meglio i loro personaggi, donando loro una caratterizzazione a tutto tondo. I due detective ed il sospettato sono tre persone vere, con i loro pregi e difetti che a volte si fanno sopraffare dalle emozioni.
Non delude l’interpretazione dei tre protagonisti.
È innegabile, il film non porta nulla di nuovo ai generi cui appartiene e sicuramente in alcuni momenti risulta prevedibile, ma ha il grande pregio di riuscire a tenere alta la tensione per tutto il tempo.
In conclusione della recensione di Fino All’Ultimo Indizio, il film di John Lee Hancock decide si focalizzarsi sulla psiche dei suoi protagonisti, relegando così l’indagine in secondo piano e affidandogli il ruolo di espediente narrativo a servizio dei personaggi.