L’isolamento derivante dal distanziamento sociale sta lanciando al nostro cervello degli impulsi del tutto simili a quelli della fame.

Il 26 marzo, in concomitanza con l’esplosione oltreoceano della pandemia di Covid-19, il Massachusetts Institute of Technology (MIT) ha pubblicato su bioRxiv una relazione preliminare sul come l’isolamento sia registrato dal cervello umano. I risultati riportati suggeriscono con decisione che la necessità di contatto sia in tutto e per tutto un bisogno primario.

Il documento descrive come sia stata usata la risonanza magnetica funzionale per comparare le risposte del cervello ai diversi stimoli della fame e della solitudine. In due occasioni diverse, 40 partecipanti si sono sottoposti a dieci ore di deprivazione alimentare e a 10 ore di segregazione sociale. Per assicurarsi che quest’ultima fosse genuina, ai soggetti è stata inibita qualsiasi forma di intrattenimento introspettivo.

Dalle nove del mattino alle sette di sera, i volontari sono rimasti chiusi in una stanza scarsamente decorata, senza telefoni, portatili, apparecchi digitali o libri. Solo i puzzle, erano permessi. In coda a queste dieci ore, le neuroscienziate Livia Tomova e Rebecca Saxe hanno sottoposto i 40 a una scansione delle onde cerebrali, cercando scariche di dopamina affini allo stimolo motivazionale e alla brama.

 

cervello intelligenza

 

Ai partecipanti sono state mostrate scene di interazioni umane e di cibi, così come di immagini neutrali di controllo. I dati raccolti sono stati poi processati da un software capace di riconoscere gli schemi neurali della fame, con il risultato che la macchina ha confuso più volte la deprivazione sociale con quella alimentare.

Il senso di solitudine, insomma, sarebbe da considerarsi un campanello d’allarme che il nostro fisico attiva per spingerci a soddisfare una necessità effettiva e innegabile.

Il senso di solitudine, insomma, sarebbe da considerarsi un campanello d’allarme che il nostro fisico attiva per spingerci a soddisfare una necessità effettiva e innegabile. Lanciata tre anni fa, la ricerca ha oggi una portata limitata: il gruppo sperimentale è insufficiente a garantire statistiche rilevanti, in più non è chiaro se e come i nuovi media siano in grado di appagare i nostri bisogni relazionali.

In questo triennio, infatti, le due neuroscienziate non sono state in grado di trovare finanziatori interessati a sostenere economicamente le loro indagini, un handicap destinato a risolversi presto, ora che il coronavirus sta sensibilizzando il mondo intero sulle conseguenze dell’isolamento.

 

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