La strada è impegnata da un continuo via e vai di motorini, l’odore di hamburger e patatine fritte si sente a distanza di decine di metri, alcuni rider sono seduti sul marciapiede, in attesa di riempire i tascapane delle loro biciclette e sfrecciare a velocità folli verso la loro prossima destinazione. Tutti gli indizi fanno pensare alla presenza di un ristorante (e non uno qualsiasi, un ristorante di gran successo!) eppure nessuna insegna o vetrina né annuncia la presenza.
Anzi, a dirla tutta, a parte un anonimo capannone nella via non c’è proprio nulla. Scene come questa sono sempre più frequenti nelle grandi città, ed è merito (o colpa) delle ghost kitchen, la nuova frontiera della ristorazione a servizio delle food delivery. In sostanza: cosa te ne fai di un vero ristorante – con sedie, tavoli e un personale accogliente – quando Deliveroo, Uber Eats & Co ti consentono di raggiungere a qualsiasi ora milioni di potenziali clienti, affamatissimi, ma assolutamente disinteressati a mettersi un cappotto e uscire di casa.
L’invasione delle ghost kitchen
I primi segnali della trasformazione della ristorazione risalgono al 2017, ma la vera spinta rivoluzionaria è arrivata con la pandemia, che, tanto per cambiare, ha cambiato le nostre abitudini anche su queste. Chiusi in casa per mesi, milioni di persone hanno scoperto per la prima volta che grazie al proprio telefono è possibile farsi portare a casa qualsiasi pietanza — non solo la pizza al taglio della via a canto.
I ristoratori non sono stati a guardare. E, se per questo, nemmeno le grandi aziende. Così da una parte ristoranti già affermati hanno scelto di aprire cucine parallele (e spesso in sedi a parte) con linee interamente dedicate alla preparazione del cibo d’asporto, dall’altra c’è chi ha portato questo concetto ad una fase ancora successiva, aprendo ristoranti completamente virtuali: esistono solo nelle applicazioni di delivery, ma non hanno una vera controparte aperta al pubblico. Le prime in gergo si chiamano dark kitchen, mentre le seconde ghost kitchen.
In alcuni casi il fenomeno delle ghost kitchen ha dato vita a dei veri e propri mega-stabilimenti della ristorazione d’asporto.
Un caso emblematico è Reef Kitchens, un colosso della ristorazione attivo dal 2019 a Miami e in numerose altre metropoli americane. Gestisce centinaia di ghost kitchen in tutta la città, spesso concentrate in enormi garage, parcheggi e capannoni. A luglio del 2022, Reef Kitchens gestiva oltre 4.500 ghost kichen, ognuna delle quali ospitata all’interno di prefabbricati mobili grandi come un container.
Insomma, ogni spazio è una distesa di camioncini, ognuno adibito alla preparazione di pietanze diverse: pizze, hamburger, sushi, messicano, indiano e via dicendo. Il risultato è una catena di montaggio estremamente efficiente in grado di sfornare migliaia di piatti ogni giorno.
Alcuni container vengono affittati a ristoranti e fast food tradizionali, che non hanno i soldi o l’interesse di aprire una seconda cucina per il food delivery in autonomia. L’accordo tra Reef Kitchens e i ristoranti prevede una formula piuttosto curiosa: i ristoranti forniscono all’azienda il loro brand e le loro ricette, ma i piatti vengono preparati dai cuochi di Reef Kitchens, che peraltro si tiene la stragrande maggioranza dei ricavi. In cambio, i ristoranti ricevono delle royalties ogni mese per la concessione del loro marchio, del menù e, ovviamente, di una fetta di clienti affezionati che non hanno idea di star ordinando da un clone del loro ristorante preferito, e non dall’originale.
Nel caso di Reef Kitchens, i ristoranti non hanno sostanzialmente nessun controllo sulla qualità dei piatti preparati ‘in appalto’, ma in compenso hanno la possibilità di accedere al mercato del delivery senza dover sobbarcarsi gli enormi costi richiesti per operare una vera e propria seconda cucina. “Ai ristoranti non costa nulla”, conferma il CEO e fondatore di Reef Kitchens. “Stringiamo una partnership con loro e in cambio ricevono una percentuale sui ricavi ogni mese”.
Reef Kitchens non è l’unica azienda ad operare in questo modo. Uno dei suoi principali rivali è CloudKitchens, azienda di Travis Kalanick, già fondatore di Uber.
Talvolta la formula delle ghost kitchen viene utilizzata dalla aziende per sperimentare il lancio di nuovi prodotti: ad esempio in alcune città italiane la catena di ristoranti messicani Calavena è disponibile esclusivamente sulle applicazioni di delivery e le pietanze vengono preparate all’interno delle cucine dei Roadhouse, sempre di proprietà del Gruppo Cremonini.
Proprio il modello delle cucine virtuali ha poi consentito allo youtuber ‘MrBeast’ di lanciare in tempi record una catena di fast food chiamata ‘MrBeast Burger‘. I ristoranti BeastBurger esistono esclusivamente nelle applicazioni di food delivery, non hanno sedi fisiche, e il modello funziona in modo simile a quello di Reef Kitchens: lo youtuber fornisce in franchise il suo brand, il packaging e le ricette delle pietanze, che verranno poi preparate in autonomia dai ristoranti che decidono di aderire al progetto. Grazie a questa formula, MrBeast Burger è presente in oltre 200 città, sparse tra Stati Uniti, Canada e Regno Unito.
Ma non tutti sono contenti…
I ristoratori aumentano i loro incassi, le piattaforme di food delivery anche e i clienti possono contare su un catalogo sempre più ampio di ristoranti e fast food. Tutti contenti? Nemmeno per idea.
Soprattutto in Europa l’invasione delle ghost e dark kitchen è stato accompagnata da forti proteste e richieste di regolamentare il fenomeno.
Il comune di Barcellona, ad esempio, ha proposto di vietarle o comunque regolamentarle fortemente. Questo perché diverse associazioni di vicinato hanno protestato duramente contro le esternalità negative normalmente associate all’apertura di una nuova ghost kitchen: rumori e via vai di persone incessanti, spesso anche a notte fonda, oltre che i continui fumi e odori di fritto e altre pietanze. Anche per questo motivo, Barcellona e altre città europee stanno valutando di consentirne l’apertura esclusivamente nelle aree commerciali ed industriali – e non nei centri città. Ad Amsterdam l’obbligo di aprire esclusivamente in periferia è già una realtà.
La tesi – peraltro piuttosto pertinente, come abbiamo visto citando il caso di Reef Kitchens – è che le ghost kitchen spesso abbiano più a che fare con un complesso industriale che con una vera e propria attività di ristorazione tradizionale.
Anche negli Stati Uniti il modello di business di Reef Kitchen e altre aziende è stato oggetto di critiche e perplessità. Ad esempio, si teme che l’azienda possa completamente spersonalizzare il business della ristorazione, rendendo meno competitivi i ristoranti tradizionali. Le enormi dimensioni delle operazioni di Reef Kitchens pongono anche degli importanti interrogativi sul fronte della sicurezza: ad esempio, l’azienda a novembre dell’anno scorso ha occupato le pagine dei quotidiani, dopo che una sua cucina era esplosa per via di un difetto di configurazione di una bombola di propano. Era già successo altre due volte.
A New York, Houston, Detroit e Chicago le autorità sono dovute intervenire in oltre 25 occasioni, multando e costringendo a chiudere alcune delle sedi di Reef Kitchens, perché sprovviste delle apposite licenze o in violazione delle leggi sulla sicurezza alimentare.
Le ghost kitchen in Italia
In Italia le ghost kitchen sono un fenomeno ancora relativamente di nicchia, ma comunque in rapida crescita. Uno dei protagonisti della scena italiana è Helbiz Kitchen, che opera da diversi anni a Milano e in Toscana ed ha recentemente avviato i lavori per aprire una nuova sede a Torino nel 2023. Il mese prossimo Helbiz Kitchen aprirà due nuovi locali nel capoluogo lombardo.
Nel frattempo, la piattaforma di food delivery Glovo ha aperto un Food Corner a Torino, cioè una cloud kitchen progettata per ospitare fino ad un massimo di 15 diversi ristoranti virtuali.
Recentemente Il Post ha ricostruito la situazione delle ghost kichen in Italia, raccogliendo la testimonianza di Roberto Bifulco, co-fondatore di Ktchn Lab, altro leader del settore assime ad Helbiz. «All’estero – ha raccontato a Il Post – spesso si parte da una de-regolamentazione totale: a New York ho visto un parcheggio completamente trasformato in sede per cucine fantasma, con impatto immaginabile nei dintorni a livello di fumi, odori e traffico».
Dell’Italia tutto si può dire, tranne che sia il paradiso del Laissez Faire. La presenza di regole estremamente stringenti sulle modalità di preparazione e somministrazione al pubblico delle pietanze ha impedito che si creasse una giungla ingestibile, riducendo di conseguenza i fastidi da parte delle associazioni di quartiere e della politica. Peraltro, sempre Il Post spiega che sia la burocrazia che il livello di tassazione del nostro Paese hanno sicuramente rallentato la crescita del fenomeno in Italia, rendendo il modello delle cloud o ghost kitchen meno redditizio che altrove.