“Verità, bellezza, libertà e amore”. Ma anche: “Una vita vissuta nella paura è una vita vissuta a metà”. La prima frase è il motto al cuore di Moulin Rouge!, la seconda quello del primo film di Baz Luhrmann, Ballroom, diventato anche quello della sua casa di produzione: Bazmark. Il regista australiano vive di assoluti e così il suo cinema: non ci sono mezze misure, o si ama o si odia. E molto probabilmente è proprio ciò che gli fa più piacere: suscitare forti emozioni, positive o negative non importa. L’essenziale è stupire e abbagliare.

Che siano i lustrini dei costumi della prima ballerina del locale notturno più famoso di Parigi, o le luci di New York in Il Grande Gatsby, la poetica di Luhrmann sta qui: nel trovare l’oscurità dietro la facciata scintillante. Non fa eccezione la sua ultima fatica, presentata in anteprima mondiale al Festival di Cannes 2022. Cominciamo quindi la recensione di Elvis consapevoli che anche questo film, nelle sale italiane dal 22 giugno, non potrà che dividere. Lo diciamo subito: noi prendiamo il pacchetto completo. Perché Luhrmann ci avrà anche fatto aspettare quasi dieci anni per una nuova pellicola, ma ha portato sul grande schermo l’ennesimo “spettacolo spettacolare”.

Elvis come un supereroe

Durante i nove anni passati tra Il Grande Gatsby ed Elvis Baz Luhrmann non è rimasto con le mani in mano: ha portato in teatro la sua versione dell’opera di Puccini La bohème, trasformato Moulin Rouge! in un musical per il palcoscenico, girato spot per case di  moda e sopratutto realizzato la serie The Get Down, purtroppo prematuramente cancellata da Netflix dopo la seconda stagione. In The Get Down il regista esplora l’origine della musica hip hop nella New York degli anni ‘70. Si parte dalla dance ballata nelle discoteche per arrivare alla rivoluzione fatta da Grandmaster Flash, tra coloro che hanno inventato tutto un nuovo modo di far girare i dischi: passaggio fondamentale, che ha portato a una vera e propria rivoluzione culturale. Tecnologia, graffiti, fumetti, lotta sociale e di classe: la musica hip hop contiene tutto questo. E la serie di Luhrmann la codifica in immagini: split screen, sequenze animate, dita che scorrono sui vinili come un atleta in pista. Per capire al meglio il lavoro fatto dal regista in Elvis bisogna aver seguito anche quello in The Get Down.

Figlio del proprietario di un piccolo cinema di provincia in Australia, Luhrmann è cresciuto con il mito delle immagini.

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Proprio come Nick Carraway in Il Grande Gatsby, ha osservato da lontano le luci e le star di Hollywood, desiderando di farne parte e allo stesso tempo rimanendone sempre fuori. O comunque in grado di vederle con uno sguardo esterno. Ecco perché tutto il suo cinema parla del grande mistero che si sprigiona su un palco: da dove viene quell’energia che brilla sotto i riflettori? Cercando la risposta a questo interrogativo, Baz Luhrmann trova inevitabilmente anche l’ombra. Un’ombra che può raccontare interi periodi storici, perché riflette il sentimento delle persone che li hanno vissuti nel quotidiano, distanti dal privilegio di fama e celebrità.

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Così ha approcciato anche il personaggio Elvis: icona di musica e di stile, qui elevato a simbolo di un’intera nazione. Luhrmann ha trasformato Elvis Presley nell’incarnazione del sogno americano: bellissimo, seducente, di successo e allo stesso tempo pedina del più feroce capitalismo (e del razzismo, a cui si accenna nel film: Elvis ebbe successo anche perché primo bianco a cantare la “musica dei neri”). In una delle scene più interessanti del film vediamo un giovanissimo Elvis scelto dalla musica quale suo messia. Unico bianco in una chiesa in cui si sta cantando un coro gospel, il potere della musica gli entra nel corpo, quasi come un superpotere. Al collo ha una saetta, simbolo del suo eroe preferito dei fumetti, Captain Marvel (che diventerà poi Shazam). Elvis supereroe della musica: un’intuizione geniale di Luhrmann, che rende attuale un biopic su un cantante morto 45 anni fa, catapultandolo nell’industria cinematografica di oggi, in cui le nuove icone sono proprio i supereroi.

L’eterno conflitto tra arte e marketing

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In ogni storia di supereroi che si rispetti deve esserci un villain. Nel film di Luhrmann è il Colonnello Tom Parker, manager di Elvis. Questo film ha un primato: far interpretare a Tom Hanks forse il suo primo ruolo davvero sgradevole, o quanto meno per nulla rassicurante. Parker – che in realtà non era né colonnello, né americano (era olandese), né si chiamava davvero Tom Parker – è la grande eminenza grigia responsabile del mito di Elvis Presley. Giostraio sempre alla ricerca di un nuovo fenomeno da mostrare in fiera, rimane colpito da questo ragazzo in grado di concentrare su di sé, come un magnete, l’attenzione della gente. In particolare quella femminile: in un’altra scena del film già iconica Elvis si esibisce. Se gli uomini inizialmente lo prendono in giro per i suoi capelli lunghi, il trucco intorno agli occhi e il completo rosa, le donne sono come possedute: la musica proibita (Elvis cantava rhythm and blues, genere inventato dai neri, in quel periodo osteggiato dai bianchi), l’aspetto insolito, le movenze oscene (per allora), che gli hanno fatto guadagnare il soprannome di “Elvis the Pelvis”. Luhrmann presenta queste spettatrici in preda a una sensazione mai provata, sconosciuta: come uno sciamano, è Elvis libera il loro desiderio sessuale.

Elvis come simbolo di libertà, ribellione, unicità che non spaventa ma conquista: tutti ne vogliono un pezzo, tutti non possono restare indifferenti.

Compresi i puritani al potere: oggi fa sorridere, ma all’epoca il modo di ballare del cantante e i suoi vestiti fecero scandalo. Totalmente opposto a questa prorompente forza vitale c’è lui, il Colonnello Parker, a cui non interessa la musica, ma quanti soldi sia in grado di fare. Grazie alla contrapposizione tra questi due personaggi non vediamo dipanarsi di fronte ai nostri occhi soltanto una relazione complicata, ma una metafora della società contemporanea e dell’industria cinematografica. Se Elvis è naturalmente fuori dagli schemi e dotato di talento, preoccupato soltanto della sua arte, Parker è invece più reazionario e conformista, ma con delle intuizioni notevoli: tra i primi a capire l’importanza della televisione e del merchandising (lo vediamo vendere sia spallette con scritto “amo Elvis” sia quelle con “odio Elvis”, così si vende a tutti). È sempre lui a concepire la formula dei concerti a Las Vegas, con contratti milionari per esibizioni lunghe anni.

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Spremuto tra spettacoli continui, apparizioni in film di scarsa qualità e un vuoto incolmabile (quello della madre morta quando aveva 23 anni) Elvis si trova di fronte a un bivio: trasformare il suo talento in un prodotto seriale in cambio di soldi sicuri, o seguire la propria ispirazione per amore dell’arte. Un conflitto oggi più che mai attuale, con i social che hanno reso possibile a chiunque di trasformare se stesso e la propria vita in un brand. Allo stesso modo c’è una riflessione sull’industria cinematografica, che crea icone per poi trasformarle in pupazzi di gomma tutti uguali.

Austin Butler: è nata una stella

Se Tom Hanks è una garanzia, a stupire davvero è Austin Butler, scelto da Luhrmann per interpretare Elvis. L’attore, che suona davvero la chitarra (finalmente qualcuno che sa dove mettere davvero le dita), ha assorbito calata e movimenti del cantante in modo quasi impressionante. In certi momenti sembra di vedere e ascoltare il vero Elvis. La grandezza della sua interpretazione non sta però nell’aver assimilato perfettamente movenze ed espressività dell’originale: in due ore e mezza di film vediamo la tragedia in tre atti di un uomo che non è riuscito a reggere il peso dell’icona che ha creato a colpi di pelvi e accordi. Austin Butler è prima un’esplosione di vitalità e poi un abisso di disperazione. Come il vero Elvis, che a quarant’anni si sentiva già finito, era pieno di alcol e droghe e si chiedeva se sarebbe stato ricordato.

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Dopo una prima mezz’ora davvero esplosiva, con un montaggio frenetico e movimenti di macchina volanti, il film diventa sempre più malinconico e stanco, proprio come il suo protagonista. Ancora una volta Baz Luhrmann ha messo in scena il suo spettacolo spettacolare: esagerato, kitsch, “lager than life”. Ancora una volta ha fuso voci e generi musicali (nella colonna sonora ci sono anche i Måneskin, a cui ha affidato la cover di If I can dream). In questa mescolanza di generi, epoche e influenze culturali, lo stile inconfondibile di Baz Luhrmann lotta contro il tempo, il vero nemico di Elvis nel film e del regista nella vita reale. Con la sua abbondanza barocca, le immagini carichissime di dettagli (come sempre costumi e scenografie sono del premio Oscar Catherine Martin, moglie del regista), Baz Luhrmann combatte l’horror vacui, la paura di essere dimenticati e di non aver vissuto davvero. E ancora una volta ha realizzato ciò che gli riesce meglio: un grande show. Da godere sullo schermo più grande possibile.

Elvis è in sala dal 22 giugno.

85
Elvis
Recensione di Valentina Ariete

Come scritto nella recensione di Elvis, Baz Luhrmann trasforma il re del rock nel simbolo del sogno americano, raccontando gli USA in tre decenni differenti. Per farlo mette in piedi un grande spettacolo, in cui la vita dell'uomo e dell'icona sono raccontati come in un musical. Austin Butler è da Oscar nella sua versione di Elvis e Tom Hanks, nel ruolo del manager del cantante, il Colonnello Tom Parker, inquieta in uno dei suoi primi ruoli disturbanti.

ME GUSTA
  • Lo stile inconfondibile e polarizzante di Baz Luhrmann.
  • L'interpretazione da Oscar di Austin Butler.
  • Tom Hanks in uno dei suoi primi ruoli disturbanti.
  • La colonna sonora che mescola stili, generi ed epoche.
  • La cura maniacale dei costumi e scenografie di Catherine Martin.
FAIL
  • Baz Luhrmann divide: se non amate lo stile sovrabbondante, questo film non fa per voi.
  • La lunghezza del film potrebbe scoraggiare gli spettatori impazienti.