Agli albori della fotografia, attorno al 1850, si utilizzava una tecnica chiamata al collodio-umido con la quale si realizzavano lastre in ferro o vetro, uniche nel loro genere: delle vere e proprie opere d’arte non replicabili.

La fotografia negli anni 2000 ha cambiato radicalmente il suo scopo: ci sono molte più fotografie sul web oggi di quante ne siano state fatte dalla nascita della fotografia fino all’inizio del nuovo millennio. Questa spettacolarizzazione degli strumenti digitali in alcuni casi ha fatto dimenticare il concetto principale di fotografia: quello di vivere l’intero processo per assaporarne il risultato.

Le tecniche manuali, l’attesa, gli odori di una camera oscura, la curiosità di vedere l’esito dello scatto non immediatamente e non attraverso uno schermo retroilluminato… sono tutte realtà nascoste nel tempo, ma non dimenticate.

Una delle tecniche fotografiche più affascinanti e antiche è quella legata al collodio-umido, meglio conosciuta con il suo nome inglese, Wet Plate Collodion.

Il collodio-umido è un processo fotografico che permette la realizzazione di immagini su un supporto in vetro, positive o generalmente negative, che venivano poi usate come “master” per poi essere stampate a contatto.

Si tratta della prima forma di negativo inteso per come lo conosciamo oggi. La prima scoperta o messa a punto di questa tecnica è attribuita all’inglese Frederick Scott Archer attorno al 1850.

 

Tintype realizzato da Stephen Brule

 

Tuttavia il suo scopritore Archer morì poco dopo, senza che avesse avuto il tempo di brevettare la sua invenzione né tantomeno assistere all’incredibile successo che questa riscontrò negli anni seguenti.

Il processo difatti fu in seguito brevettato da James Ambrose Cutting di Boston e rimase di pubblico dominio in tutto il mondo prendendo il nome di Ambrotipo dal nome di Ambrose e dal greco ambrotos, immortale.

Solo qualche anno dopo si diffuse una variante del processo detta Ferrotipo o ancora tintype con la differenza sostanziale di un supporto diverso rispetto al vetro: venivano utilizzate infatti lastre di ferro, latta o alluminio laccati.

 

 

Il processo

Il collodio è alla base del processo. È una soluzione di nitrocellulosa in alcol ed etere, che miscelato con dei sali (alogenuri a base di bromo e potassio) viene steso su una lastra di vetro o metallo. Prima dell’asciugatura, si immerge la lastra in una soluzione a base di nitrato d’argento. A questo punto, la lastra è pronta per essere esposta: i sali nel collodio hanno formato alogenuri di argento sensibili alla luce.

Si chiama collodio-umido in quanto tutta l’operazione viene fatta con la lastra umida, quindi in modo molto rapido.

La lastra viene poi inserita all’interno del banco ottico per la fotografia finale. Tutto il processo deve essere completato prima che la lastra si asciughi (si chiama collodio umido perché durante tutto il processo la lastra deve rimanere umida).

 

Banco ottico artigianale realizzato da Andrea Cittadini (collettivo Come una Volta)

 

Dopo l’esposizione si passa allo sviluppo con del solfato ferroso che fa precipitare l’argento metallico e infine al fissaggio che lava via l’argento non esposto. Le zone chiare dell’immagine finale sono infatti formate da argento metallico puro che riflette la luce, mentre il collodio rimarrà trasparente nelle zone scure, mostrando il nero della lastra o dello sfondo.

 

Lo sviluppo di un ambrotipo in camera oscura (foto ©Come Una Volta)

 

Alla fine solo tenendo in mano un ambrotipo (o ferrotipo) ci si rende conto della sua bellezza e della sua unicità: un ritratto che nasce con la luce e, senza nessun passaggio intermedio, si impressiona su una lastra di vetro comune o di ferro, risplendendo dei riflessi tipici dell’argento.

 

 

La posa

Lo stare in posa per un ritratto fotografico ha vissuto nella storia diverse fasi. Gli inizi furono molto incerti: i lunghissimi tempi di esposizione dei dagherrotipi (anche oltre i dieci minuti) non permettevano di rimanere in posa.

Ecco perché il collodio-umido è divenuto così popolare, ha drasticamente accorciato i tempi di posa, con la possibilità di realizzare quindi ritratti. Parliamo comunque di diversi secondi di esposizione e capirete che non è facile rimanere immobili con il sorriso in bocca per 15 secondi, provateci.

Il sorriso non era previsto sia per una questione etica che per una questione tecnica: era impossibile mantenerlo perfetto per i diversi secondi necessari allo scatto.

Queste difficoltà fecero sviluppare dei congegni nascosti che mantenevano la testa ferma oppure delle istruzioni per mantenere un’espressione di assoluta indifferenza. Se poi si voleva fare la foto a un bambino, bisognava tenerlo stretto e per reprimerne più possibile i movimenti spesso adirittura si arrivava ad anestetizzarlo con l’etere.

Fotografi come Antoine Claudet a Londra o Gustav Oehenne a Berlino inventarono modi di raggruppare più persone per realizzare delle pose. I gruppi di famiglia erano informali, mentre persone importanti posavano con i loro migliori vestiti appoggiandosi a colonne romane oppure a poltrone.

Questa tecnica fotografica iniziò moltissimo a preoccupare i pittori dell’epoca con la citazione di Edgar Allan Poe che riassumeva perfettamente il momento storico:

Il dagherrotipo è infinitamente più preciso di qualsiasi dipinto eseguito da mani umane.

 

Antonio Moro e Roby Rani fotografati a collodio-umido dal collettivo di Come Una Volta

 

 

La ripresa ai giorni d’oggi

Ad oggi la tecnica del collodio-umido ha acquisito una vera e propria seconda vita, grazie a tanti fotografi che vogliono mantenere vive le tecniche antiche, considerando anche la grande qualità che è possibile realizzare con lastre di questo tipo.

In Wonder Woman del 2017 la famosa foto di gruppo, finita la battaglia, è stata eseguita a collodio-umido.

Anche alcune produzioni cinematografiche si sono accorte della bellezza di questa tecnica: il team di Piccole Donne è stato fotografato su ferrotipo e addirittura all’interno di film come Wonder Woman è possibile ammirare un ambrotipo: la famosa fotografia che le viene recapitata da Bruce Wayne altro non è che una foto a collodio-umido.

 

L’ambrotipo che Bruce Wayne recapita a Diana (scena del film Wonder Woman)

 

Negli Stati Uniti d’America un lavoro molto importante è stato quello di Shane Balkowitsch che ha ritratto moltissimi nativi americani di oggi in un particolare viaggio nel tempo: sì perché il collodio-umido era la tecnica che andava per la maggiore nel grande West, i ritratti dei capi indiani storici o semplicemente dei cowboy erano realizzati proprio con questa tecnica.

 

La sessione a collodio-umido di Wilson R. Webb per il backstage di Piccole Donne

 

La manualità e l’artigianalità di questa tecnica è alla base della sua storia, chi si avvicina al collodio-umido sa che dovrà studiare costantemente senza mai fermarsi. La chimica che si utilizza il più delle volte viene preparata dagli stessi fotografi, c’è una ricerca maniacale delle ricette del collodio (sui libri storici ce ne sono a decine con diversi effetti e conseguenze).

Lo studio della luce è incredibile, è una parte fondamentale per un sistema con una sensibilità così bassa (si parla di meno di 1 ISO, quando un normale cellulare scatta con una sensibilità media di diverse centinaia o migliaia di ISO).

La cura di ogni dettaglio dalla preparazione delle lastre, la gestione della luce naturale o artificiale, i calcoli dell’esposizione e dei tempi di sviluppo richiedono da parte del fotografo un grado di preparazione molto alto ecco perché chi diventa collodista diviene un vero e proprio artigiano della fotografia.

Il collodista è un vero artigiano della fotografia.

Un ritratto realizzato con questa tecnica è un pezzo d’arte unico, che nasce dall’esperienza e anche dalla casualità del gesto che la crea. Ogni fotografia può essere perfetta, con errori, graffiata, molto contrastata o morbida e la maggior parte di queste caratteristiche sono il più delle volte imprevedibili perché sono determinate dalla temperatura, dall’umidità e dall’abilità del fotografo.

Inoltre la durata della lastra, in termini di dominante di luminosità e contrasti è accertata per ben 170 anni. Un vero e proprio tesoro senza tempo, ecco perché tecniche come questa vanno in qualche modo incentivate e non dimenticate, perché come disse Ellliott Erwitt:

la fotografia è il lavoro dell’anima.

 

 

La redazione di Lega Nerd ha potuto vivere l’esperienza del collodio-umido (qui il racconto) con il collettivo di  “Come una volta”, in una sessione pre Coronavirus.