In occasione del ritorno al cinema di Halloween – La notte delle streghe di John Carpenter, che sarà disponibile in sala il 15, 16 e 17 Ottobre, proprio qualche giorno prima dell’uscita del nuovissimo capitolo Halloween di David Gordon Green, ripercorriamo le orme di uno dei più grandi maestri del cinema di finzione.
Era il 25 Ottobre 1978 quando per la prima volta in sala veniva distribuito Halloween – La Notte delle Streghe, pellicola di un ancora non particolarmente famoso John Carpenter, costata solamente 300mila dollari e girata in 20 giorni.
La prima sala da accogliere il volto mascherato di Michael Myers fu un piccolo cinema del Missouri. Il mito di Myers, che poi sarebbe diventato uno dei grandi mostri sacri del cinema anni ’70 e ’80 insieme a Leatherface, Freddy Krueger e Jason, non poteva certo essere relegato ad una piccola distribuzione.
Halloween – La Notte delle Streghe venne successivamente distribuito in tutto il mondo incassando oltre 70 milioni di dollari e diventando un cult intramontabile.
A distanza di quarant’anni Michael ritorna al cinema più assetato di sangue e vendetta che mai. Questa volta alla regia troveremo David Gordon Green, ma a differenza dei sette seguiti, dei quali tre originali e quattro apocrifi, quest’ultimo Halloween, che vede il ritorno anche di Jamie Lee Curtis – che nel 1978 debuttava al cinema proprio con il personaggio di Laurie Strode – viene riconosciuto dallo stesso Carpenter, produttore della pellicola, come seguito ufficiale del suo La Notte delle Streghe.
Nel 1978 John Carpenter era solo al suo terzo film ma non troppo lontano dal diventare l’icona cinematografica che è adesso, considerato tra i grandi mostri sacri del cinema moderno e contemporaneo di genere.
Assieme a Halloween – La Notte delle Streghe, Carpenter non solo regala un nuovo “uomo nero” di cui avere paura, ma riscrivere completamente il genere horror, inaugurando letteralmente lo slasher movie che, negli anni a seguire, troverà la sua era più fertile.
Regista, compositore, sceneggiatore, maestro, negli anni Carpenter è stato definito in molti modi e il suo cinema è stato fonte d’ispirazione per tanti registi, sebbene – parliamoci chiaro – nessuno sia mai riuscito davvero a raccogliere il seme della grande eredità che questo grande artista, in oltre quarant’anni di carriera, si è lasciato alle sue spalle.
Eppure, sono in tanti quelli che hanno reso omaggio, in differenti pellicole, a questo regista, come Guillermo Del Toro, Quentin Tarantino e Robert Rodriguez.
Nato nel Kentucky il 16 gennaio 1948, John Carpenter è uno dei registi americani che meglio ha seguito la lezione dei grandi maestri del cinema degli anni ’40 e gli anni ’60, come Orson Welles, Alfred Hitchcock e Howard Hawks; ma Carpenter nei suoi film non ci ha solo restituito l’immaginario, il mondo, la maestri della regia dei suoi idoli, ha saputo prendere quelle regole come base per poterne scriverne di nuove, creando un suo stile, un suo immaginario visivo da cui attingere.
Inoltre, come detto prima, Carpenter si è sempre contraddistinto per una certa natura poliedrica, che gli ha permesso di occuparsi a 360° del lavoro sulle sue creature, curandone la scrittura, la regia e anche le musiche.
Non a caso il regista esordì nel 1970 con un cortometraggio di cui ne curò il soggetto, sceneggiatura, musica e montaggio, ovvero The resurrection of Broncho Billy di James Rokos, film che vinse l’Oscar come miglior cortometraggio iniziando a far conoscere al pubblico John Carpenter.
E fin da subito ci rendiamo conto che sarà proprio il cinema di genere, in particolare modo thriller e horror, ad essere il cavallo di battaglia di Carpenter.
Eppure il suo debutto alla regia su grande schermo Carpenter l’ha fatto con un film di fantascienza, ovvero Dark Star (1974), una sorta di versione nello spazio – come lo ha definito lo stesso regista – dell’opera Aspettando Godot, ma che omaggia il cinema di Stanley Kubrick e il suo 2001: Odissea nello Spazio. Ad affiancare Carpenter ci sarà un personaggio che poi, con lo spazio assieme a Ridley Scott, creerà un altro grande cult del cinema, Dan O’Bannon, appunto sceneggiatore di Alien.
Assieme a Dark Star, Carpenter inizia a definire quelle che saranno le regole del suo cinema, un cinema non impegnato ma che non per questo deve far spegnere il cervello allo spettatore.
La missione – se così barbaramente vogliamo definirla – di John Carpenter era quello che il cinema potesse essere una forma di intrattenimento per lo spettatore senza costringerlo davvero a spegnere il cervello.
Raccontare storie fantastiche che potessero divertire, spaventare ed emozionare, senza tratta tematiche complesse o particolarmente profonde, ma non per questo becere o sciatte. In questo modo la critica sociale, spesso mossa nei suoi film, era ancora più efficace.
Dark Star, in realtà, nasce – come è successo a tanti registi – come lavoro di fine anno del corso di studi in Accademia. Inizialmente l’Università voleva proibire a Carpenter di distribuire il suo lavoro, ma dopo una causa vinta quasi senza nessun intoppo, il regista ha potuto lanciare il suo primo cortometraggio su grande schermo.
Successivo a Dark Star è Distretto 13 – Le brigate della morte dove, in termini produttivi e pratici, Carpenter fa quasi una prova su strada di quello che potrebbero essere le tempistiche per il suo primo grande film. Infatti, Distretto 13, costato solo 100.000 dollari, vieni girato in soli 20 giorni guadagnando oltre 20milioni di dollari.
John Carpenter – e non a casa l’ultimo Halloween è stato prodotto dal Re Mida della nuova produzione a “costo zero” e dai grandi incassi, Jason Blum – è tra i primi a comprendere l’importanza dello stretto necessario per ammortizzare i costi di produzione di un film.
Minima spesa per massima resa: le sue prime pellicole rappresentano proprio questo.
Lo stesso Distretto 13, pur non godendo della fama di molti suoi successi capolavori – cinque dei quali li andremo a vedere a breve – è comunque riuscito a diventare uno dei migliori film di genere anni ’70. Inoltre con Distretto 13 Carpenter da vita a uno degli elementi caratterizzanti del suo cinema: l’anti-eroe.
Come sappiamo la cinematografia di Carpenter è densa e ricca di pellicole e contributi. Analizzare ad una ad una ogni pellicola – sfida interessante però – sarebbe complesso, ma possiamo vedere insieme quali sono – secondo il modestissimo parere della sottoscritta che sicuramente non metterà d’accordo tutti quanti – le cinque pellicole più significative per la filmografia e per lo stile di questo grande regista.
Halloween: la creazione di un mito
1978
Su Halloween abbiamo già accennato qualcosa prima. Sicuramente il merito più grande di questa pellicola è quello di aver dato ufficialmente vita al genere slasher movie, andato poi molto in voga negli anni successivi.
Michael Myers è un personaggio tanto affascinante quanto spaventoso. Nell’arco de La Notte delle Streghe, così come anche nei film a seguire, non vediamo mai davvero il volto di Michael, se non da bambino, quando nella notte di Halloween il mostro si rivela nelle sembianze più dolci che possa prendere: appunto quelle di un bambino.
I meriti di Halloween sono molteplici, a cominciare dall’aver creato un nuovo mito e mostro sacro, appunto Michael, proseguendo con l’aver dato “natale” alla carriera di una giovanissima Jamie Lee Curtis che, nel film, interpreta la sorella più piccola di Michael, Laurie, l’ultima da uccidere per completare definitivamente la sua vendetta.
Halloween conserva dentro di sé diversi elementi di richiamo Hitchockiano, come per esempio la costruzione della suspense, l’uso della colonna sonora – in questo caso altro elemento cult, sempre composta dallo stesso Carpenter.
La stessa Curtis altri non è che la figlia dell’attrice Janet Leigh, protagonista di Psyco. La colonna sonora, nella sua unicità, prende nella sua struttura qualcosa dall’uso della colonna sonora di Profondo Rosso di Argento e qualcosa anche da Mario Bava – altro grande maestro dell’horror – nel rendere ancora più inquietanti e terrificanti i piani sequenze di cui si compone il film, che già da soli basterebbero per farlo diventare una pellicola da manuale.
Al suo intero il film nasconde anche degli easter egg molto particolari. Ad esempio la famigerata maschera di Michael altro non è che una maschera del Capitano Kirk di Star Trek verniciata di bianco. Nei vari film poi la maschera ha assunto diversi cambiamenti.
Nel nuovo Halloween dovremmo rivedere la riproduzione della maschera ufficiale del primo film.
1997: Fuga da New York: l’anti-eroe e Kurt Russell
1981
Parlando di capisaldi doveroso è parlare di uno dei più grandi cult di Carpenter – che ha tentato di replicare nel 1996 senza lo stesso successo – ovvero 1997: Fuga da New York.
Qui non solo nasce uno dei rapporti più forti del cinema tra regista e attore feticcio, ma anche l’affermazione di una delle caratteristiche principali del cinema del regista: l’anti-eroe.
1997: Fuga da New York è, quasi, sicuramente il film di Carpenter più commerciale e “mainstream”, ma anche il suo grande film di rottura con un certo linguaggio hollywoodiano in voga in quel periodo. Assieme a questa pellicola, Carpenter da inizio a uno tipo di cinema e, soprattutto, si cimenta in uno dei generi che meglio si sposano con la sua figura, ovvero il western post-apocalittico.
Andando oltre la fotografia, la scenografia e anche la colonna sonora, con le quali si respira la magia del puro cinema di Carpenter – quello che ci fa sempre gli occhi un po’ lucidi pensando ai blockbuster di adesso – con 1997: Fuga da New York, il regista perfeziona la sua figura dell’anti-eroe, che avevamo già visto nel suo secondo film, Distretto 13.
Carpenter trasforma Russell in una sorta di novello Clint Eastwood in stile Leone; Snake (Jena Plissken) è un personaggio dal passato non chiaro. Un personaggio cinico e silenzioso, che si ritrova ad affrontare determinate situazioni controvoglia, con poca convinzione, pur uscendone sempre a testa alta. Un personaggio figlio di un’ambientazione quasi steampunk, iconica in ogni suo piccolo dettaglio.
Inizia a definirsi anche meglio l’idea di cinema d’intrattenimento ma con una sfumatura critica sociale piuttosto definita. Il film, infatti, prende largamente ispirazione dal mood, dagli stati d’animo di un’America devastata dallo scandalo del Watergate o dalle tensioni del passato portate dalla Guerra Fredda. Un’America incapace a sperare ancora nel sogno americano.
La Cosa: il cinema della provocazione
1982
Come dicevamo prima, thriller e horror sono tra i generi capisaldi della cinematografia di Carpenter e, nel genere horror, sicuramente tra le prime pellicole che possono venire in mente che hanno segnato una generazione per questo genere, c’è The Thing – La Cosa.
La Cosa non porta in scena solo un horror, ma riprende anche il genere fantascientifico che avevamo già visto agli esordi di questo regista. Il film viene liberamente tratto dal racconto del 1938 di J.W. Campbell, Who Goes There? che, tra l’altro, era stato già portato al cinema da uno dei maestri di Carpenter, ovvero Howard Hawks con La cosa da un altro mondo nel 1951.
John Carpenter con questo film da un nuovo senso all’effetto speciale, portando sicuramente al cinema un mostro terrificante e disgustoso che ha terrorizzato non poco sul grande schermo.
Nel film vediamo l’amore per la creazione manuale della creatura, quando i mostri non erano delle semplici riproduzioni digitali, ma era fatti di vera e propria sostanza, con una fattura in bilico tra il posticcio e il realistico, che serviva a conferirgli quel mood grottesco e intenso.
Il film nasce come una vera e propria provocazione con lo scopo si, di spaventare, ma di far riflettere sulla natura della scienza come aberrazione.
Carpenter oltre che sul mostro gioca sullo stereotipo, su ciò che non si conosce, muovendosi ulteriormente su di un livello sociale e politico: i complotti e segreti di stato, gli x-flies e l’area 51.
Il cinema di Carpenter si definisce ancora di più con questa pellicola, mostrando un regista sempre più propenso dalla parte del diverso e che, invece, fa cascare in un vero e proprio inferno l’essere umano presuntuoso, carico di pregiudizi. Un film angosciante e claustrofobico.
Grosso Guaio A Chinatown: l’incompresa contaminazione di genere
1986
Di questo film in questi giorni se ne parla tantissimo (non per i giusti motivi). A quanto pare uno dei più grandi film di Carpenter potrebbe tornare al cinema sotto una nuova visione che vedrà Dawayne Johnson (The Rock) nei panni del protagonista. Vi lascio un momento di silenzio per assimilare questa notizia…
John Carpenter ritorna a lavorare con Kurt Russell dando vita a un nuovo grade ed iconico personaggio, quello di Jack Burton. Grosso Guaio a Chinatown, assieme al già citato 1997: Fuga da New York, è stato uno dei film più mainstream del regista.
Al tempo stesso, a differenza del predecessore, la pellicola all’epoca non ebbe lo stesso successo sperato. Eppure gli ingredienti c’erano davvero tutti. O forse, il problema era proprio questo.
Carpenter, da visionario quale era, nel suo rocambolesco omaggio al cinema d’arti marziali, ma che ha come protagonista un occidentale, “conia” il termine whitewashing prima ancora che questo entrasse nell’uso comune del linguaggio cinematografico.
In realtà, Grosso Guaio a Chinatown è molto più di un film divertente e in chiave parodistica. Anche qui Carpenter mette in atto alcune delle sue più alte conoscenze come regista, confezionando un vero e proprio film d’autore, mescolando alcuni elementi humor con delle trovate a livello di messa in scena molto audaci. Una pellicola pop, divertente, in perfetto stile anni ’80 ma con una regia curata e precisa.
Un po’ come nell’eclatante caso di 2001: Odissea Nello Spazio, il film di Carpenter aveva anticipato troppo un cinema dalla forte contaminazione di genere, di non facile lettura per un pubblico ancora “acerbo”. La pellicola, infatti, ebbe una seconda vita decisamente più felice e duratura nella programmazione televisiva e in home video.
Il seme della follia: la fine dell’eccellenza
1994
Lo so, lo so, potrebbe sembrare un po’ azzardato definire Il Seme della Follia come ultimo film veramente eccellente di John Carpenter, ma sicuramente questo ambizioso horror che prende la sua più grande ispirazione da uno dei grandi maestri dell’angoscia, H.P. Lovecraft, è stato l’inizio di quella che è stata l’ultima fase veramente interessante – come regista, attenzione – di John Carpenter.
Potremmo definire Il Seme della Follia come una lenta ed agonizzante discesa negli abissi della mente umana. Un viaggio singolare, che può cambiare di spettatore in spettatore, e che esercita una pressione psicologica angosciante e quasi delirante.
Carpenter riesce a portare su grande schermo un vero e proprio trattato sulla parte più oscura della mente umana. Un film ricco di spunti e riflessioni non solo sulla struttura drammaturgia del film, ma anche quella visiva.
Interessante è soprattutto la visione di John Carpenter della follia come un vero e proprio virus che si diffonde, senza lasciare superstiti. Dal singolo alla comunità in quella che è una vera e propria epidemia senza via di scampo. Follia mascherata da quella che si intende generalmente come pazzia, ma che ovviamente Carpenter associa a una critica nei confronti della società – critica assolutamente sempreverde – ben più minuziosa e complessa, che indaga su alcuni comportamenti dell’essere umano; su quanto sia facile attuare un vero e proprio lavaggio del cervello sui più deboli; su come l’ignoranza possa creare dei veri e propri mostri.
Carpenter riesce a fondere perfettamente la realtà con la finzione, a tal punto da far chiedere allo spettatore quanto di vero o meno ci sia nelle vicende raccontate, in quello che è un piccolo capolavoro metacinematografico.