I videogiochi possono essere considerati una forma d’arte? Questo il quesito a cui cercheremo di dare una risposta nel seguente articolo, analizzando i modelli estetici e i linguaggi narrativi di videogiochi che hanno avuto l’ambizione di proporre molto più che un mero intrattenimento.
Esistono molteplici definizioni del concetto di Arte. Da secoli pensatori, artisti, filosofi e critici di tutto il mondo si sono interrogati sul valore e sulle qualità di questa particolare forma dell’operato umano, non giungendo mai a fornirne una completa e corretta definizione. Ma siamo sicuri che possa esistere una definizione di arte che valga universalmente? Del resto ogni forma artistica nasce con lo scopo di raccontare una storia e di evocare particolari risposte nell’animo di chi contempla, creando un’esperienza che viene cosi plasmata di volta in volta in base alla sensibilità e alle capacità percettive ed interpretative di ciascuno.
Ognuno ha un proprio modo di vedere e di sentire una storia e si approccia ad un’opera con una serie di strumenti differenti, e con una quantità diversa di informazioni e opinioni tratte dall’esperienza generale. Ad esempio, quando un critico cinematografico vede un film ha a disposizione tutta una serie di schemi, categorie e metodi di deduzione che gli permettono di scavare a fondo in quello che è il tessuto del testo audiovisivo e di coglierne degli aspetti artistici e tecnici invisibili agli occhi di chi non ha gli strumenti adatti per farlo.
La componente soggettiva è imprescindibilmente legata alla dimensione artistica. Un’opera appartiene a chi la crea, ma soprattutto a chi la osserva, ovvero l’unico in grado di donarle innumerevoli valori, sfumature e forme sempre nuove.
L’arte può quindi essere contemplata soltanto attraverso uno sguardo interiore e personale, ma non proprio “definita” concretamente, nel senso oggettivo del termine.
L’arte è la creazione di una magia suggestiva che accoglie insieme l’oggetto e il soggetto.
Charles Baudelaire
Dopo queste seppur ovvie – ma doverose – precisazioni, capirete dunque l’estrema difficoltà che si ha nel cercare di capire cosa si possa includere e cosa no, all’interno del corpus delle produzioni artistiche. Attualmente, con la comparsa di nuovi mezzi espressivi che mettono da parte i generi normativi in favore dell’acquisizione di nuove forme e linguaggi, è diventato sempre più complesso ordinare e collocare secondo un determinato paradigma di giudizio le nuove tipologie di produzioni creative e l’operato dei suoi autori.
Se noi dovessimo pensare ad un’opera d’arte il primo pensiero andrebbe sicuramente all’arte figurativa in tutte le sue accezioni, poi alla fotografia, al cinema ecc…
Se la prima, però, è da sempre stata considerata una delle più alte forme di espressione creativa, specchio di valori storici, sociali e culturali e fonte inesauribile del senso assoluto di meraviglia, non si può dire sia stato lo stesso per le seconde.
Il cinema, ad esempio, non nasce come arte, ma lo diventa con il tempo. In origine, infatti, era considerato soltanto come una nuova e prodigiosa tecnologia creata con il solo e unico scopo di affascinare ed intrattenere le masse.
Le enormi potenzialità estetiche ed espressive insite nel mezzo cinematografico sono state scoperte e sfruttate dai registi solo in un secondo momento, cui si è arrivati attraverso un lungo ed approfondito processo di maturazione durato decenni.
E i videogiochi invece? Dove andrebbero collocati? Riusciranno a subire quel processo di emancipazione portato avanti dalla cinematografia? Ormai da anni tutti i videogiocatori, professionisti del settore, critici, sociologi e chi più ne ha più ne metta, si interrogano sulla natura, sull’identità artistica e sulla funzione sociale dei videogiochi, prendendo parte a quello che ormai sembra essere diventato un dibattito accesissimo e molto delicato al cui vertice vi è un solo un unico interrogativo: i videogiochi sono da considerare una forma d’arte?
Eppure non dovrebbe essere cosi complicato rispondere: anche il videogioco in fondo è un medium, proprio come il cinema, la letteratura, la musica, con una sua storia che ha inizio negli anni ’50 e un intenso processo di sviluppo alle spalle, solo che a differenza degli altri per svolgere il proprio compito utilizza un enorme quantità di linguaggi tra cui il principale è l’interattività. Questa non rende le storie narrate nei giochi meno edificanti, o affascinanti, o profonde di quelle raccontate in un film, a dirla tutta è proprio il contrario.
Spesso un giocatore riesce ad avvicinarsi emotivamente più alle vicende vissute dal protagonista di un gioco e ad immedesimarvisi più facilmente, rispetto ad uno spettatore.
Nell’immaginario collettivo però, i videogame vengono in larga parte ancora visti come strumenti in grado di condizionare il giocatore a livello mentale o addirittura spingerlo alla violenza e ad atti inconsulti. Ma se da una parte c’è chi estremizza, dall’altra chi minimizza l’universo videoludico considerandolo solo ed esclusivamente per la componente ludica, ignorando così del tutto la maturazione che ha avuto quest’affascinante medium negli ultimi anni e gli obiettivi ambiziosi raggiunti in termini stilistici e narrativi dagli sviluppatori.
In quest’articolo non intendiamo preoccuparci di affermare se tutti i videogiochi siano da considerarsi una forma d’arte o meno, non sarebbe propriamente corretto farlo.
Piuttosto cercheremo di illustrarvi le modalità, le scelte stilistiche ed i linguaggi che hanno contribuito a fornire al medium una valenza espressiva ed artistica, elevando la sua natura ad una forma che supera l’essenza del mero intrattenimento.
Le opere di Fumito Ueda
Potere all’immaginazione
Fumito Ueda , l’artista visionario che ha influenzato l’industria videoludica con la sua concezione stilistica e narrativa, è stato uno dei primi game designer ad intuire e sfruttare a pieno le enormi potenzialità espressive e sensoriali del medium videoludico. Le sue opere hanno un involucro ed un’essenza che si diversifica dagli altri prodotti presenti sul mercato, assumendo la forma di veri e propri viaggi contemplativi che hanno il compito di appassionare e coinvolgere il giocatore per la loro atemporalità, profondità ed unicità di contenuto.
Quando Ueda concepi il concept di ICO, nel lontano 1997, il suo suo intento era quello di creare un videogame che si diversificasse dalla massa dei giochi d’azione del momento, la cui ricerca dell’ultima tecnologia sembrava essere l’unico dato rilevante.
Cosi decise di raccontare la sua storia in modo del tutto particolare, puntando tutto sul rapporto empatico tra i due protagonisti Ico e Yorda, un bambino con le corna e una misteriosa ragazza, sulle atmosfere e sulla narrazione grafica.
La narrazione grafica è l’approccio migliore per realizzare e mostrare il racconto. Si può comunicare anche solo attraverso i gesti, i movimenti, le reazioni….
Fumito Ueda
Il sentimento profondo che lega il bambino alla ragazza, infatti, viene soltanto evocato attraverso flebili richiami, sguardi e piccoli gesti. Anche le ambientazioni vengono soltanto abbozzate, in favore della creazione di una realtà immaginaria e dai tratti essenziali, riscaldata dal chiarore pallido del sole, ma avvolta dalle terribili fauci dell’oscurità.
La grandezza di ICO risiede proprio nella sua semplicità: Ueda aveva intenzione di creare un’esperienza che fosse nuova ma accessibile a tutti. Proprio per questo scelse di rendere il gameplay non troppo elaborato e di lasciare maggior spazio all’interazione del giocatore con i personaggi e con l’ambiente.
L’estrema delicatezza con cui vengono trattati i temi e l’asciuttezza grafica donano ad ICO una potenza evocativa di straordinario fascino e regalano al giocatore la libertà di riempire tutti quei vuoti e quei silenzi con la propria immaginazione.
Il finale di ICO lascia aperti numerosi interrogativi ed interpretazioni, cosi come non sapremo mai chi è Wander il protagonista di Shadow of the Colossus, se era buono o cattivo, o quale fosse effettivamente il suo passato.
Le opere di Ueda hanno esplorato possibilità e livelli di comunicazione mai raggiunti prima da un videogame, divenendo vere e proprie favole interattive che hanno provocato nell’animo di chi le ha osservate emozioni talmente forti da essere difficili da dimenticare.
Da Journey a Limbo
Gli eterni legami e l’infinito viaggio
Oscillare tra l’infinito viaggiare e la scoperta di sè: è il percorso della vita ed il fondamento di ogni grande avventura senza tempo. Il viaggio verso l’ignoto, verso meravigliose o terribili imprese è la linfa vitale di ogni storia in grado di colpire la nostra fantasia.
La straordinaria sagoma del viaggiatore pronto a tutto pur di raggiungere la sua meta è apparsa in mille salse in videogiochi moderni e non, basti pensare al nostro Guybrush Treepwood, l’indimenticabile protagonista di Monkey Island che per diventare il più temibile pirata di tutti i tempi ne passa di tutti i colori, o alla cara Lara Croft, l’affascinante ereditiera inglese, archeologa e cacciatrice di tesori di Tomb Raider.
Chi si mostra goffo, chi estremamente coraggioso, chi pieno di inventiva, chi arguto…
tutti i più celebri viaggiatori della storia dei videogame sono cresciuti guidati solo dal nostro pad e ci hanno regalato storie indimenticabili, piene di mistero e adrenalina.
Se da un lato, però, il carisma dei personaggi e le loro rocambolesche imprese lasciano un segno indelebile nelle nostre menti, dall’altro lato il silenzio di uno sguardo, la potenza di un suono e il calore di un’immagine riescono a risvegliare particolari sensazioni ed emozioni.
Proprio come ci insegna Fumito Ueda, esistono viaggi che non hanno bisogno di parole per essere raccontati, percorsi esistenziali in grado di coinvolgere il giocatore in maniera diretta e avvolgente sin da subito.
L’elemento caratterizzante di questi titoli opportunamente denominati “emozionali” è la stimolazione dei “sensi“, che punta a colpire la sensibilità e l’occhio interiore di chi li osserva. Journey, la piccola perla sviluppata da ThatGameCompany, narra il percorso mistico di un nomade senza identità chiamato a vagare tra i colori caldi, brillanti e avvolgenti di un immenso e misterioso deserto.
La straordinaria cura riservata ai dettagli e ai giochi di luce donano alle ambientazioni un tratto decisamente onirico e ammaliante, capace di colpire l’occhio ma anche l’immaginario del giocatore.
Questo tipo di linguaggio narrativo incarna quella che viene espressamente denominata la rappresentazione del sublime, carattere distintivo della pittura romantica del 1800 che prediligeva una particolare attenzione alle sfera dei sentimenti e del rapporto ancestrale fra uomo e natura.
Il sublime consiste in quel misterioso e affascinante insieme di sensazioni che è possibile provare solo di fronte a certi grandiosi spettacoli naturali, dove perfezione, grazia ed armonia confinano con lo smarrimento della nostra mente.
Edmund Burke
Se in Journey trionfa l’incredibile calore del deserto, in Abzu si accendono le tinte perlacee e azzurre dei fondali marini. I due titoli sono portatori degli stessi valori concettuali, dello stesso linguaggio e della stessa struttura.
Ed in effetti a capo della Giant Squid, casa di sviluppo di Abzu, vi è proprio l’art director di Journey che si è riproposto di ricreare il suo personalissimo esperimento solitario ed introspettivo con le stesse modalità, ma in chiave rinnovata.
In Abzu, ritroviamo tutte le caratteristiche che ci hanno fatto innamorare del precedente titolo, ma con un equilibrio ancor più accentuato tra componente sonora e visiva. Lo stretto rapporto fra suono e colore accompagna l’esplorazione contemplativa il quieto sentire.
Nei videogame il colore viene da sempre utilizzato a scopo funzionale, per identificare elementi di gioco e per aiutare il giocatore a capire dove andare, chi attaccare, cosa prendere. Ma il colore, in realtà, può avere molte altre funzioni cosi come nella pittura, nella scultura o nel cinema. Si tratta, infatti, di uno strumento che in base al valore, alla tonalità e alla saturazione è capace di stimolare la sensibilità del giocatore e di creare cosi particolari stati d’animo.
In Limbo, puzzle-platform del 2010 sviluppato da Playdead, il colore diventa linguaggio narrativo, prende forma delle paure del protagonista e plasma ricordi e sensazioni di angoscia opprimente nel giocatore.
Le atmosfere, rese particolari e grandiose dalla scelta cromatica incentrata esclusivamente su scale di neri e grigi, dipingono l’incubo oscuro e inquietante del piccolo protagonista, un bambino che si ritrova ad attraversare un mondo privo di colore per ritrovare la sua sorellina scomparsa.
Ancora una volta ci troveremo ad interagire con una trama a tratti incomprensibile: non ci sono personaggi, nè dialoghi ed il comparto sonoro è ridotto all’osso. Proprio come suggerisce il titolo stesso, dovremo esplorare un luogo di transizione, sospeso fra sogno ed inferno, fra materiale ed immateriale.
Se si parla di videogiochi che incantano e lasciano un segno, non si può non citare infine anche Unravel, il delizioso puzzle-platformer di Coldwood Interactive.
La storia del piccolo Yarni, il dolcissimo pupazzetto di lana rossa, è una colorata e morbida metafora della vita, un percorso pieno di ostacoli e profonde emozioni, riscaldato dall’unico sentimento capace di dare luce al mondo.
Compito del piccolo protagonista sarà quello di vagare oltre il tempo e le stagioni, tra le luci cristalline dei paesaggi scandinavi per recuperare i preziosi ricordi di un album di famiglia.
Il linguaggio fotografico si unisce a quello multimediale per dare forma ad un gigantesco contenitore di incanto e calore umano, che pagina dopo pagina, compone un ingenuo e delicato inno alla vita, al coraggio e alle capacità individuali.
Dark Souls
La poetica sanguinaria di Hidetaka Miyazaki
Ciò che rende davvero spettacolari e uniche nel loro genere questo tipo di esperienze, però, oltre gli elementi già citati, è la loro continua sospensione fra l’indefinito e l’imperscrutabile. E non è un caso che ci apprestiamo a concludere il nostro intervento soffermandoci brevemente su Dark Souls, la serie videoludica portata al successo da quel genio indiscusso del presidente di From Software, Hidetaka Miyazaki.
Il fascino ancestrale e macabro di queste produzioni risiede nel suo immenso mondo narrativo celato ed inaspettato e nelle sconfinate teorie ed ipotesi sviluppate attorno ad esso. Il più grande merito di Miyazaki è stato proprio quello di aver sviluppato una nuova concezione di gioco di ruolo che attraverso la vena tipicamente hardcore e la narrazione ambientale dà forma e contenuto ad una esperienza che viene plasmata in base alle abilità, alla curiosità e alle capacità d’osservazione del singolo giocatore.
Brandelli di storie ed identità sono racchiusi nei meandri del mondo di gioco, nei dettagli, negli oggetti e nelle frasi criptiche dei personaggi. Quello di Dark Souls è un universo sorprendentemente folle, inquietante e fantastico che va scrutato a lungo e ricostruito pezzo per pezzo per far si che riveli tutti suoi misteri e suoi segreti.Difficile spiegare a parole ciò che può fornire a livello evocativo, sensoriale e ludico un’esperienza del genere, perché ogni viaggio è unico ed individuale.
La creatura di Miyazaki punisce chi è frettoloso e chi non mostra il giusto grado di interesse nel voler scoprire cosa si cela oltre ciò che è invisibile agli occhi, ma premia i giocatori più attenti e analitici, rendendoli al contempo non solo fruitori ma anche artisti di un’opera di straordinaria bellezza e brutale poesia.
L’esperienza videoludica, proprio come quella cinematografica, si è evoluta sul piano strutturale, tecnico e narrativo in modo molto ampio e profondo nel corso degli ultimi anni arrivando a toccare una complessità e una ricchezza psicologica che prima erano esclusivamente appannaggio di altri medium.
La computer grafica oggi ci permette di dare vita (non senza i dovuti limiti ovviamente) a quella che è l’infinita arte dell’immaginare, dandoci la possibilità di esplorare mondi impossibili, astratti, dove la legge della fisica non esiste.
Ma è la dimensione umana con la sua forza creatrice, le sue idee e la impronta stilistica quella che ha il potere di trasformare il mezzo videoludico in un vero e proprio linguaggio, il gioco in esperienza sensoriale.
Concludendo, del rapporto fra arte e videogiochi se ne potrebbe discutere all’infinito, ma per il momento ci limitiamo a mettere un punto su quello che speriamo possa essere l’inizio di un interessante e concreto dibattito qui sotto nei commenti.