Non solo Tripla A: nonostante, storicamente, PlayStation sia una console che punta ad esclusive (anche solo temporali, ormai) di peso, negli ultimi tempi la dimensione dei giochi indie sull’ecosistema Sony si sta facendo sentire sempre più, con titoli chiacchieratissimi (vedi Stray) che spesso vanno a infoltire la proposta ludica del pacchetto PlayStation+, che nonostante la svecchiata dell’introduzione dei tre Tier fatica a stare al passo con la conveniente (ma più “generica”) offerta del Game Pass Microsoft.
In questo fine marzo 2023 ecco arrivare (in vendita su PC e PlayStation 4 e 5, o compresa nei tier Extra e Premium del PS+) Tchia, anticipatissimo gioco doppia realizzato dal team Awaceb, con base in Canada ma con origini nella Nuova Caledonia, territorio francese situato nel Pacifico, tra l’Australia e la Nuova Zelanda: un luogo letteralmente agli antipodi dell’Europa e molto lontano anche dal Canada. Perché poniamo l’accento sull’origine degli sviluppatori? Semplicemente per via del fatto che Tchia affonda letteralmente le radici nella cultura, nel folklore, nell’immaginario e nelle atmosfere di quei luoghi, da cui è letteralmente inscindibile, anche se si tratta di un’opera di fantasia.

Tchia è realtà, ma è anche fantasia…

La storia di Tchia è ambientata in un tempo e un luogo che potrebbe essere il nostro, ma chiaramente non lo è: tutto è ispirato ai veri paesaggi della Nuova Caledonia, ma non pretende di essere una ricostruzione alla Assassin’s Creed, quanto di un compendio, una cartolina in grado di suscitare stupore, interesse e meraviglia. La vicenda vede protagonista la ragazzina che dà il titolo al gioco, le cui gesta diventeranno leggenda tanto da essere raccontate alle giovani generazioni che l’hanno succeduta. Tchia è una spensierata fanciulla che vive serenamente insieme al padre Joxu in un paradiso naturalistico solo minimamente intaccato dalla civiltà moderna; la sua pace però verrà sconvolta nel momento in cui il genitore verrà rapito dal braccio destro del governatore del luogo, dando adito a un periglioso e straordinario viaggio della ragazza in cerca del padre perduto, armata solo di una fionda, un ukulele (!) e tanto ingegno.

Tchia è un action adventure molto votato all’esplorazione, con notevoli velleità sandbox: di base, l’ispirazione a The Legend of Zelda: Breath of the Wild è tangibile, ma l’ambizione non è certo ricrearne l’epica, quanto la resa grafica e il senso di libertà esplorativa.
L’open world del gioco è piuttosto vasto ed effettivamente esplorabile in lungo e in largo, con sempre meno limitazioni o muri invisibili, e questo è uno dei più grossi pregi di questa produzione. Si è riposta davvero molta attenzione alla conformazione e alla fisica di luoghi ed oggetti, anche in virtù delle abilità esplorative della protagonista, che non solo può girovagare a piedi ma anche nuotare (a pelo d’acqua o in maniera subacquea), scivolare, arrampicarsi, planare (con una sorta di aliante di foglie) e navigare (in zattera). Inoltre, complici le leggi della fisica e una certa abilità soprannaturale di Tchia denominata “Salto dell’anima” potrete esplorare effettuare balzi incredibili, nuotare in profondità e solcare i cieli. Come? Presto detto: la skill permette di trasmigrare momentaneamente all’interno di oggetti (così non più) inanimati e animali, sfruttandone le qualità e possibilità. Un uccello vola, un pesce nuota senza bisogno di ossigeno, un cane può scavare una buca, una torcia dar fuoco a qualcosa. È tutta questione di sperimentazione e fantasia, i tipi di Awaceb da questo punto di vista si sono sbizzarriti e le combinazioni possibili sono davvero numerose. Chiaramente, i punti clou dell’avventura andranno sorpassati con un uso intelligente di questa abilità, dato che la sola fionda non è un’arma d’offesa di grande contributo; ma è nell’esplorazione che questa meccanica dà il meglio di sé. Anche perché il combat system, francamente, potrebbe dar noia ai giocatori abituati a prendere le cose di petto, invece di un approccio mordi e fuggi che, per quanto fantasioso, può indispettire o annoiare a seconda delle inclinazioni personali.

Un’ode al gesto di scoperta di ciò che ci circonda

Forse sarebbe stato meglio eliminare completamente le velleità action per renderlo un walking simulator “puro”, dato che i combattimenti quasi spezzano la “magia” esplorativa di cui altrimenti è ricco il titolo: per quanto possa sembrare strano, le sezioni in cui ci si dovrà obbligatoriamente occupare dell’eliminazione dei fantocci di stoffa denominati Maano suonerà quasi come una pratica obbligata e meno appagante di tutte le attività ancillari attorno a cui il gioco ruota.
Sì, perché se vi limitate a fare il minimo indispensabile per andare avanti nel gioco e completarlo, lo avrete fatto in una manciata di ore, peraltro poco soddisfacenti dal punto di vista della sfida e del divertimento puramente action: e sarebbe un approccio totalmente sbagliato, controproducente.
Tchia si prende la briga di voler far entrare il giocatore in uno stato mentale diverso da quello “standard” di tanti altri giochi più o meno simili, pieni di “puntini” da controllare e “X” da archiviare, tant’è vero che l’utilizzo dei punti di vantaggio alla AC è aleatorio e incompleto, così come l’uso della bussola, e in generale il gioco chiede molto al senso dell’orientamento dell’utente.

Da un lato, quindi, si stimola la scoperta, la ricerca, l’utilizzo dell’ingegno per trovare sempre qualcosa di nuovo da fare e vedere; dall’altro, il ritmo vuole essere se non rilassato, placido, abbandonato alla meraviglia del momento, a uno dei tanti momenti “riempitivi” per cui non è importante la destinazione né il mezzo, ma il viaggio e i suoi istanti memorabili.

Non è un caso che l’ukulele, strumento utilizzabile per avere bonus di varia natura, sia anche (e soprattutto) un vero strumento musicale digitale, così come la miriade di minigiochi non spezza semplicemente il ritmo o funga da diversivo ma sia parte integrante dell’esperienza. In questo, se vogliamo, potremmo trovare un parallelismo con quello che accade nella serie Yakuza, che però si pone in maniera diversa rispetto alla storia e ai combattimenti, per quanto le attività collaterali come sala giochi e karaoke siano vissute in maniera simile, ovvero rilassata e portatrice delle usanze locali.

La placidità dell’esperienza è esemplificata dalla photo mode, oramai dato per scontato in tanti videogiochi ma che qui riscopre un elemento molto significativo: oltre all’utilizzo di filtri, pose etc. c’è da considerare che Tchia dovrà letteralmente sviluppare il rullino “all’antica” e quindi i risultati degli scatti non saranno immediatamente consultabili e avranno l’effetto “buona la prima” tipico delle foto ricordo di una volta, decisamente diverso dalle istantanee digitali odierne. Dunque, il messaggio che Awaceb vuole mandarci è palesemente “prenditi il tuo tempo, riconnettiti con il tuo senso fanciullesco della meraviglia e ritrova la gioia nelle piccole cose”.
Oltre, naturalmente, all’amore viscerale per le proprie origini, che vuole condividere con un pubblico mondiale che, in gran parte, probabilmente non saprebbe neanche puntare il dito verso la Nuova Caledonia, se avesse un mappamondo davanti. Del resto, perché sognare di mondi fantasy, quando luoghi incredibili e diversissimi da quelli che conosciamo esistono a mezza giornata di volo da casa?

80
Tchia
Recensione di Marco Lucio Papaleo

Tchia, nonostante le premesse da action adventure, è tutto tranne che ordinario: se siete giocatori che badano alla sostanza e vogliono “andare subito al sodo” probabilmente il titolo Awaceb non fa per voi, perché (facendo un paragone gastronomico) la portata principale, a livello di tessitura ludica (e tecnica), non è niente di che; dovete essere in vena di gustarvi l'esperienza in toto, ogni dettaglio, ogni boccone. La fantasia disegnata sul piatto e nascosta dalla pietanza, il materiale della forchetta, la musica che passa alla radio – in maniera non casuale – i colori del locale intorno a voi.
Sebbene si ispiri (anche) agli action open (o semi-open) world, Tchia non è Assassin's Creed e neanche God of War, e non vuole esserlo; dovete approcciarvici allo stesso modo con cui vi approcciate a The Legend of Zelda: Breath of the Wild, diciamo, anche se giocato dopo BotW chiaramente il dislivello produttivo si sente. Ma si sente anche la volontà di un approccio diverso, più rilassato, che vi spinge lontano dalla trama principale non tanto per farvi perdere ore in catch quest tanto per allungare il brodo ma per regalarvi esperienze memorabili, cullati da musiche lontane, lingue sconosciute, panorami da documentario. In caso siate desiderosi di un'esperienza simile, sicuramente non mancherete di rivolgere ai realizzatori la prima parola in lingua drehu che imparerete: “Oléti”, ovvero “grazie”.

ME GUSTA
  • Grandissima cura nella realizzazione del variegatissimo e funzionale aspetto sandbox
  • Miriadi di deliziose attività pseudo-collaterali
  • Fa riscoprire il gusto della libertà e del prendersi il proprio tempo
  • Artisticamente e culturalmente ispirato
FAIL
  • Aspetto tecnico non esaltante
  • Gameplay dei combattimenti da rivedere