Probabilmente non esiste una tecnologia che abbia contraddistinto l’inizio del 2023 più di ChatGPT, la rivoluzionaria intelligenza artificiale conversazionale che, secondo sempre più voci, potrebbe molto presto mettere in crisi l’attuale business model dei motori di ricerca (e non solo).
ChatGPT è un potente modello di intelligenza artificiale basato su reti neurali, addestrato per generare testo in modo autonomo. Con qualche limite (il dataset si ferma al 2021), può rispondere a domande, fornire informazioni, completare frasi e addirittura generare interi articoli in autonomia.
Da un paio di mesi non si parla di altro e l’avvento di strumenti come ChatGPT ha già prodotto importanti conseguenze nel mondo accademico e in quello del giornalismo. Probabilmente siamo solamente agli inizi. Sta di fatto che negli Stati Uniti moltissime scuole hanno dovuto esplicitamente vietare il chatbot dopo che è stato scoperto che centinaia di studenti lo avevano utilizzato per barare. Un giornalista inglese ha scritto che grazie a ChatGPT è riuscito a scrivere in 5 minuti un articolo che normalmente gli avrebbe richiesto un’intera giornata e che si sarebbe fatto pagare centinaia di sterline. Gli editori, che non sono scemi, non sono rimasti a guardare: CNET, che è un’importante sito americano dedicato alla tecnologia, ha già iniziato ad utilizzare (con qualche problema) un’IA simile a ChatGPT per produrre decine di articoli con ottimizzazione SEO dedicati alla finanza. Articoli che può produrre a costo pressoché zero e poi monetizzare stringendo accordi commerciali con le aziende che vendono carte di credito o altri servizi finanziari. C’è anche chi ha iniziato a usarlo per scrivere ebook da vendere su Amazon, anche se pare con risultati, per il momento, molto modesti.
Il grosso dell’attenzione, comunque, è rivolta su quello che potrebbe essere l’impatto di strumenti come ChatGPT sul business dei motori di ricerca. Bill Gates ad esempio sostiene che ChatGPT, che nel frattempo è stato integrato all’interno di Bing, potrebbe seriamente rubare importanti quote di mercato a Google, che oggi sostanzialmente non ha veri rivali.
Ma da dove spunta fuori ChatGPT? Come è possibile che uno strumento del genere sia saltato fuori apparentemente all’improvviso, provocando effetti così importanti, vasti e destinati a perdurare nel tempo (la famosa disruption, per usare il gergo in voga nei primi anni della Silicon Valley)?
Da dove spunta fuori OpenAI, la lista dei fondatori
Tutto parte da una startup fondata sette anni fa, a dicembre del 2015, a San Francisco, negli Stati Uniti. L’iniziativa nasce da un gruppo eterogeno di investitori: Elon Musk, Sam Altman, oggi a capo dell’organizzazione, Reid Hoffman, co-fondatore di LinkedIn, Peter Thiel, co-fondatore di PayPal, Greg Brockman e diversi altri veterani della Silicon Valley e aziende di primo piano, tra cui Amazon Web Services. Collettivamente hanno donato 1 miliardo di dollari.
Quando è nata OpenAI non era un’azienda, ma un’organizzazione non-profit
OpenAI non nasce come azienda, ma come organizzazione non-profit orientata allo sviluppo e allo studio di intelligenze artificiali amichevoli, in grado di aiutare l’umanità a raggiungere i suoi obiettivi. Uno dei capisaldi dell’organizzazione, ad esempio, prevedeva che tutti i brevetti depositati fossero resi aperti, in modo da consentirne l’utilizzo e lo studio al mondo degli accademici e dei ricercatori (da cui il nome OpenAI).
Nei suoi primi anni OpenAI sforna già diversi prodotti di successo: nel 2016 lancia Gym, una piattaforma progettata per aiutare i ricercatori a sviluppare e comparare sistemi di apprendimento per rinforzo, e Universe, una serie di strumenti per addestrare e valutare le intelligenze artificiali attraverso giochi, siti web e altri test. Tra le altre cose troviamo anche Debate Game, un sistema basato sull’intelligenza artificiale in grado di partecipare e vincere i dibattiti, sostenendo una tesi e argomentandola. Più recentemente, nel 2021, OpenAI ha presentato anche DALL-E, un’IA generativa in grado di creare immagini (talvolta con risultati impressionanti) partendo da un semplice input testuale e di cui si è parlato moltissimo nell’arco degli ultimi due anni.
Ovviamente c’entra anche Elon Musk, che però se ne è chiamato fuori anni fa
La lista dei fondatori include un nome che probabilmente spicca su tutti gli altri. OpenAI è stata co-fondata anche da Elon Musk, l’istrionico imprenditore che aveva già co-fondato anche PayPal, Tesla e SpaceX, e che oggi è l’attuale proprietario e CEO di Twitter.
In realtà la partecipazione di Musk all’interno di OpenAI ha avuto una vita relativamente breve: l’imprenditore ha lasciato ogni ruolo nella non-profit già a febbraio del 2018. All’epoca Tesla stava accelerando lo sviluppo del sistema di guida semi-autonoma Autopilot; un post pubblicato sul blog dell’organizzazione, spiega che l’imprenditore ha preferito dimettersi dai suoi incarichi in OpenAI per evitare potenziali conflitti d’interesse.
Questa versione è stata ritrattata dallo stesso Elon Musk, che già nel 2019 aveva dichiarato di aver abbondonato per una divergenza di visioni con il resto del team. Negli anni successivi Musk ha continuano a “punzecchiare” e criticare l’operato di OpenAI, che nel frattempo ha rinunciato alla struttura di non-profit per diventare un’azienda.
OpenAI was created as an open source (which is why I named it “Open” AI), non-profit company to serve as a counterweight to Google, but now it has become a closed source, maximum-profit company effectively controlled by Microsoft.
Not what I intended at all.
— Elon Musk (@elonmusk) February 17, 2023
Dal 2019 non è più una non-profit e nel 2023 ha stretto un accordo da 10 miliardi di dollari con Microsoft
Nel 2019 OpenAI rinuncia alla struttura di non-profit, diventando a tutti gli effetti un’azienda. In una lettera inviata ai sostenitori, il Presidente dell’organizzazione, Sam Altman, ha spiegato che la precedente struttura legale aveva impedito ad OpenAI di crescere ai ritmi sperati dai fondatori, ponendo soprattutto degli importanti limiti alle modalità di raccolta dei finanziamenti.
A febbraio del 2023, OpenAI, libera dalla sua struttura di nonprofit, ha stretto una partnership pluriannale con Microsoft. Costo totale? 10 miliardi di dollari (curiosamente: meno di un quinto di quanto ha speso per acquistare il publisher di Call of Duty e Candycrush Saga). Grazie a questo vantaggioso accordo, Microsoft potrà integrare la tecnologia alla base di ChatGPT all’interno di una pluralità di prodotti del suo ecosistema, tra cui il motore di ricerca Bing, Skype e Office.
Vogliamo aumentare la nostra capacità di raccogliere finanziamenti, e continuare a lavorare a quella che è la nostra missione. Nessuna delle strutture legali previste dal nostro ordinamento era in grado di offrirci il giusto equilibrio tra le nostre esigenze e ciò che ci siamo prefissi di raggiungere. La nostra soluzione è stata creare una nuova struttura chiamata OpenAI LP, un ibrido tra for-profit e nonprofit — cioè quello che abbiamo liberamente definito una capped-profit company
si legge nell’annuncio che nel 2019 ha accompagnato il passaggio da modello nonprofit a struttura aziendale.
OpenAI ha abbandonato le nobili intenzioni con cui era nata?
Ma le spiegazioni di Altman non lasciano convinti proprio tutti. Già il mese successivo la rivista di settore Nonprofit Quarterly esce con un articolo firmato da Martin Levine e dall’eloquente titolo “A Terrifying Nonprofit to For-Profit Transition: Open AI Not So Open Anymore“. Il giudizio è netto: «Hanno presto imparato che i loro fondatori non sono interessati a donare ad un livello tale da consentire loro di rimanere in questo gioco. Dunque, hanno scelto di puntare su una nuova fonte di finanziamento, nella speranza di attirare più investitori e preservare comunque la loro missione originaria. In realtà, compiere un passo così importante senza predisporre alcuna forma di garanzie per preservare la missione e i principi originari dell’organizzazione è di per sé una mossa altamente opinabile e ci domandiamo, piuttosto, se l’organizzazione abbia dovuto rinunciare al suo stato di nonprofit perché non è più stata in grado di dimostrare che il loro lavoro sarà destinato al perseguimento del bene comune, nell’accezione che il pubblico generalmente attribuisce a questo concetto».
Un anno dopo Technology Review, la rivista ufficiale del MIT, pubblica un articolo dai toni ancora più critici, sostenendo (sulla base di dozzine di interviste con altrettante fonti informate) che OpenAI abbia sempre predicato bene per razzolare male. Insomma, è sempre esistita una frattura importante tra ciò che l’organizzazione diceva di voler fare in pubblico e ciò a cui ambivano realmente i suoi fondatori. Dopotutto, scriveva Technology Review, OpenAI non è poi così “open”. «Dalla nostra indagine emerge una fotografia diversa: OpenAI è un’azienda ossessionata dagli obiettivi di mantenere una forte segretezza attorno ai suoi prodotti, proteggere la sua immagine pubblica e assicurarsi la fedeltà dei dipendenti».