Nel film Avatar-La via dell’Acqua James Cameron va oltre il semplice parallelismo con la spiritualità dei popoli nativi, facendo un vero e proprio studio antropologico con le popolazioni indigene del Pianeta Terra.
Quando un uomo si allontana dalla natura il suo cuore diventa duro
Una frase che potrebbe essere uscita benissimo dal secondo capitolo di Avatar – La via dell’Acqua, ma che invece è attribuita ad un proverbio tipico dei Lakota, nativi americani delle pianure. La natura e la connessione con tutto il creato nei popoli nativi del pianeta Terra sono concetti molto radicali che rappresentano le fondamenta della spiritualità di questi meravigliosi popoli e sono anche il cardine dell’immaginario di James Cameron. Sì perché in Avatar, nonostante l’apparenza (per alcuni) di avere una trama didascalica e fin troppo lineare, e anche in questo secondo atteso capitolo si possono scovare dei parallelismi molto importanti con la spiritualità dei popoli nativi della Terra.
Ricordiamo che il Popolo di Pandora, vive in simbiosi con la natura ed è in grado di percepire ed entrare in contatto con ogni forma animale e vegetale: questo assioma è il significato profondo da cui la storia si sviluppa, un concetto che va alla ricerca del vero scopo dell’essere umano, forse, un semplice “custode” della terra e non un usurpatore.
James Cameron da sempre ha voluto lanciare dei messaggi molto forti con le sue pellicole
Con il progetto Avatar vuole ricordare al mondo intero quanto sia importante rispettare e ascoltare nel profondo il mondo della natura, con un focus non secondario sul ruolo della famiglia e dei figli, anche perché siamo tutti figli della terra. La connessione tra i Na’vi e la terra è l’archetipo spirituale in questa saga, che è riuscito a mettere in forma qualcosa che probabilmente avevamo solo letto nelle grandi leggende della mitologia antica. La presenza di una divinità Madre nella quale un popolo si riconosce in pieno rispetto e adorazione è probabilmente un messaggio universale, più di quanto si possa credere. Non si tratta di un sogno, ma di una realtà posta su un piano superiore che sta richiamando i suoi figli, una realtà che vuole ricordare a tutti i popoli della terra che la connessione con il mondo della natura non è soltanto un qualcosa che si trova sui racconti dei grandi anziani delle popolazioni indigene.
È il topos che parla attraverso la mente dei creativi, di coloro che ascoltano la madre terra e in questo parla attraverso il cinema, annunciando qualcosa che prima o poi dovrà avvenire. Per tornare all’ultimo concetto che anima la storia di James Cameron, la connessione e la condivisione di informazioni tra la varie creature è senza dubbio una delle acquisizioni della moderna fisica quantistica che considera questo reticolo quale sistema di interconnessione tra il Macrocosmo e il Microcosmo.
Il centro della rete divina di Pandora è un antico albero, enorme e nodoso, che rappresenta l’epicentro dei Na’vi, un’estensione della loro linfa vitale, un luogo di rigenerazione e conoscenza. Questo “Albero delle Anime” si trova al centro del più potente campo magnetico di Pandora, il “Vortice dei Flussi” e che ritroviamo anche nel secondo capitolo, ma stavolta sott’acqua. Ovviamente questo concetto esaspera e rimodella tutto quello che sta dietro alla spiritualità dei popoli nativi, ma con un focus principale: noi siamo destinati a tornare alle origini e più devastiamo la terra in cui viviamo e più quella terra ci darà dei segnali forti di non condivisione. I segnali in realtà li stiamo ricevendo da diversi anni, ma sembra che il nostro modus operandi sia piuttosto lento e deficitario, tuttavia è grazie a pellicole come Avatar, che scuotono sicuramente la maggior parte delle persone, che si potrà fare un ulteriore riflessione. Ma il nuovo film di Avatar quanto esplora la spiritualità e il mondo della natura e quanto si protrae in avanti su questo focus? Cerchiamo di analizzare le tematiche principali di Avatar – La Via dell’Acqua.
ALLERTA SPOILER
In questo approfondimento parleremo ampiamente del film citando scene e personaggi, quindi per coloro che non hanno visto ancora Avatar – La Via dell’Acqua rimandiamo la lettura a post visione.
La famiglia Sully e il ruolo dei figli
In questo secondo capitolo il focus è spostato diversi anni dopo la reincarnazione del corpo di Jake Sully in un Avatar, azione che ha portato alla creazione di una famiglia molto numerosa e anche mista. Jake e Neytiri difatti sono genitori di ben cinque figli, di cui tre naturali, Neteyam (Jamie Flatters), Lo’ak (Britain Dalton) e Tuk (Trinity Jo-Li Bliss) e due adottati, Spider (Jack Champion), un terrestre rimasto sulla luna perché troppo piccolo per il criosonno, e Kiri (Sigourney Weaver), nata in circostanze misteriose dal corpo da Avatar della fu dottoressa Grace Augustine. I tre figli naturali tuttavia sono dei “mezzosangue” in quanto il padre Jake non è un Avatar puro e il simbolo di questo incrocio è proprio nelle mani: i figli di Jake a differenza degli altri Avatar possiedono cinque dita anziché quattro. Il concetto di famiglia “mista” è un pensiero molto all’avanguardia in questo secondo capitolo, più e più volte viene fatto notare la differenza dei figli di Sully in relazione agli altri Na’vi, tuttavia non è così tanto inventato difatti da sempre è un punto fondamentale dei nativi in genere.
Piccola digressione sulla “nuova casa” della famiglia di Sully e dei suoi fratelli e sorelle. Dopo l’abbattimento dell’Albero Casa nel primo capitolo la comunità dei Na’vi aveva bisogno di un nuovo rifugio che li tenesse al sicuro da ulteriori attacchi terrestri. Il loro nuovo luogo è sito nelle montagne hallelujah, ma per la prima volta vediamo le nuove tende e rifugi degli stessi Na’vi. La similitudine con i più classici tepee è totale, forma circolare con la parte alta che si va a chiudere a cono, ancora un’ottima ricerca da parte dello staff di Cameron nel rappresentare dei Na’vi che si spostano e migrano in un altro luogo.
Addirittura in antichità i figli venivano allattati non solo dalla madre naturale, ma anche dalle altre madri della tribu, e le stesse famiglie adottavano figli di altri tribu al fine di creare un’armonia interna nella stessa comunità. Wotitakuye, che significa “parentela” (in lingua Lakota) è uno dei valori più importanti provenienti dalla famiglia allargata (tiyospaye), esso infatti comprende le idee di vivere in armonia, appartenenza, relazioni, come la vera ricchezza e l’importanza della fiducia negli altri. Per i nativi delle pianure (e anche per i Sully in Avatar) la famiglia è la misura della loro ricchezza perché essa sosterrà nel bene e nel male ogni componente. Per un Lakota (o un nativo delle pianure), si appartiene a una tiyospaye in vari modi dalla nascita, o tramite il matrimonio o l’adozione e la propria famiglia si estende anche fuori della propria tribù e in tutta la nazione Lakota.
Ogni volta che ci si trova in viaggio da qualche parte, ci si può aspettare di essere accolto e sostenuto come se foste nella vostra famiglia immediata, proprio come accade in Avatar – La via dell’Acqua. La famiglia dei Sully, per evitare di nuovo lo scontro acerrimo con i terrestri, decide di cercare accoglienza nella tribu del mare e nonostante una freddezza iniziale lo stesso capo-clan decide di aprire le “porte” del villaggio alla nuova famiglia insegnando loro gli usi e costumi. Questo grande parallelismo e ricerca storica di James Cameron non fa altro che avvallare ancor di più la tesi che in Avatar tutto ciò che viene mostrato è semplicemente uno specchio di quello che è accaduto nel nostro pianeta e che a causa di moltissimi eventi è stato dimenticato: la famiglia e l’appartenenza tra i clan, le adozioni e l’insegnamento dei vari usi e costumi ne sono l’esempio maggiore.
La tribu del mare e le balene
Il nuovo popolo che ci viene presentato all’interno di Avatar – La via dell’Acqua, sin dal trailer, si era ipotizzato che fosse una similitudine con i nativi Māori del nostro pianeta.
Intuizione mai più giusta.
James Cameron ha voluto ampliare il mondo di Pandora facendoci scoprire che oltre le foreste c’è molto altro ancora (e chissà se in futuro potremo mai vedere i popoli dei deserti, dei ghiacci o delle montagne). Sembra che l’idea alla base della sceneggiatura del progetto Avatar sia quasi riportare su un altro pianeta i puri della Terra, quei popoli che ancora vivono a contatto con la natura come appunto i Māori per quanto riguarda il mondo acquatico. Gli stessi costumi, le capigliature, i tatuaggi vistosi anche in viso e la più celebre Haka, grido di battaglia reso famoso dagli All Blacks, sono tutti elementi presenti nelle tribù dell’acqua di Pandora chiamate Metkayina.
La popolazione Māori fu scoperta più di duecento anni fa da James Cook quando salpò per esplorare l’Oceano Pacifico sulla Endeavour. Il primo incontro di Cook con i Māori della Nuova Zelanda, in realtà fu uno scontro, perso (…) dai nativi che affrontavano i fucili per la prima volta, cosa che non ha però impedito loro di preservare le proprie tradizioni: difatti ancora oggi, a differenza degli Stati Uniti dove le memorie si stanno perdendo, nel paese ci sono scuole di lingua e cultura māori per tramandare alle nuove generazioni un retaggio antichissimo, che arriva proprio dal mare.
Tuttavia è curioso, soprattutto rispetto al film di James Cameron, il rapporto di questo popoli con i pesci e le balene. Nelle prima pagine di Kahu e la balena, di Witi Ihimaera, primo autore māori a pubblicare libri tradotti in tutto il mondo, si legge infatti di Kahutia Te Rangi, l’antenato della tribù di Whangara che arrivò dal mare sul dorso di una grande balena fino all’odierna Isola del Nord dove popolò quella terra (ed ecco il rapporto tra i Metkayina e i tulkun). Da subito Witi Ihimaera, studioso delle tradizioni di questa cultura, vuole mettere in luce il legame saldissimo tra il popolo māori e l’acqua, che si manifesta nuovamente quando tutta la comunità si impegna a salvare le balene che vanno a spiaggiarsi sulla loro costa, o ancora quando la nonna della piccola Kahu (la protagonista del libro) rispetta l’usanza di seppellire il cordone ombelicale della bambina nel terreno del marae, la Casa della Comunità, così che sia sempre legata a quel luogo e alla sua gente.
Il mare, l’acqua e la condivisione del dolore e della vita con il popolo delle balene è sempre stato un focus principale per la spiritualità dei Māori, messaggio che ritroviamo in todo su Avatar – La via dell’Acqua dove ogni componente della tribù Metkayina è collegato con una balena (tulkun). La delicatezza di come vengono affrontate tematiche di questo tipo, riprendendo concetti già esistenti di popolazioni indigene del pianeta Terra è un qualcosa di unico (a discapito di tutti coloro che pensano che la trama sia “lineare” e semplice) una ricerca continua antropologica ed etnologica che scava nel profondo della storia di popoli antichi, come in questo caso i Māori.
L’acqua connette tutte le cose e la reincarnazione
Il concetto di acqua in questa pellicola è un qualcosa di molto ancestrale. L’abbiamo ascoltato nei primi trailer e la visione del film ha confermato che l’elemento acqua è un qualcosa che va oltre la classica “sostanza naturale”. In acqua i figli di Jake imparano a respirare in un certo modo seguiti dai figli del capo-clan dei Metkayina. I giovani Na’vi imparano a rallentare i propri battiti del cuore (sarà utile questo insegnamento per Jake) per avere maggiore resistenza, tornando quasi alla forma primordiale nella quale l’uomo ha vissuto per nove mesi in acqua. Sì perché in acqua non ci sono solo moltissime forme di vita, ma c’è la memoria dello spirito madre di Pandora, c’è la stessa Eywa ed è proprio la capacità di ascolto di Kiri (la figlia adottata dei Sully) che riesce ad incanalare quel battito del cuore.
Il ricordo che attraverso l’acqua viene esemplificato nei poteri di Kiri è una delle ipotesi, affascinanti, ma mai totalmente certificate che riguardano gli studi di Luc Montagnie Premio Nobel per la medicina. Secondo Montaigne l’acqua agisce come un recettore, essendo in grado di ricevere le frequenze d’onda e di memorizzarle (memoria), ma anche come trasmettitore, inviando le frequenze delle onde memorizzate come informazione. Se uniamo questi studi alla spiritualità universale rappresentata dallo spirito di Eywa, ecco che il messaggio di Cameron con questo film va oltre la semplice didascalica idea di un “Pocahontas con i personaggi vestiti di blu”. La lotta al clima, i nostri oceani totalmente devastati da isole di rifiuti, la caccia alle balene (degli animali molto più intelligenti dell’uomo stesso) sono dei temi che arrivano immediatamente, conosciamo la politica dello stesso Cameron nel voler lanciare messaggi di un certo tipo ed è forse grazie ad Avatar che si potrà smuovere l’animo e il cuore perché Pandora è un pianeta perfetto che viene devastato dall’uomo bianco proprio come il pianeta Terra è stato un luogo perfetto, abitato da popolazioni che condividevano i frutti della natura senza mai eccedere in nulla, ma che purtroppo la tecnologia e il progresso hanno portato alla catastrofe. L’acqua ricorda e dall’acqua possiamo, forse, riprendere in mano il nostro cammino su questo pianeta così malato.
Infine un altro punto fondamentale di questo secondo film è sicuramente la morte.
La morte di un Avatar non è mai fine a sé stessa, nella morte di un Avatar c’è il concetto di reincarnazione nel quale Eywa abbraccia il corpo per poi consegnare lo spirito alla stessa Pandora. Il concetto di reincarnazione in queste due pellicole è stato inserito in vari passaggi, dalla stessa vita di Jake Sully che decide di “far morire” il corpo terrestre per trasmigrare in quello di un Avatar. Della figlia Kiri nata in circostanze misteriose dal corpo da Avatar della fu dottoressa Grace Augustine e ancora nella morte del figlio maggiore Neteyam. La Reincarnazione o Trasmigrazione, è il passaggio dell’anima di un individuo, dopo la sua morte, da un corpo a un altro o da una forma di esistenza a un’altra; “trasmigrazione”, “metempsicosi”, “reincarnazione” o “rinascita” dell’anima in un corpo nuovo (specialmente un corpo umano) sono pressoché la stessa cosa.
La reincarnazione è sempre stata considerata una verità della vita da molte civiltà antiche e innumerevoli culture spirituali, in tutto il mondo, credono ancora oggi nella reincarnazione: dagli aborigeni Australiani agli sciamani della Siberia e della Mongolia, dagli stregoni Africani alle tribù dei Nativi Americani (nella lingua della tribù Lakota la reincarnazione viene chiamata kini).
Numerosi popoli nativi americani insegnano che ogni essere umano ha due Anime: una si occupa delle attività nel mondo fisico, l’altra agisce durante il sonno e nei sogni, viaggiando per relazionarsi direttamente con gli Spiriti e con altre Anime umane (un po’ come quando i Na’vi si mettono in connessione con Eywa viaggiando su un altro piano). Quando questa ritorna, utilizza i sogni per comunicare i contenuti dei propri viaggi all’Anima rimasta nel corpo. Nella cultura degli Uroni e degli Irochesi, ad esempio, è fondamentale agire i sogni nella realtà ordinaria e nella scena di Jake e Neytiri che ritrovano Neteyam si può di nuovo fare un parallelismo molto similare a quello della spiritualità indiana. Infine l’ultima riflessione, o provocazione, è il significato dei “punti” luminosi nel corpo dei Na’vi, per molti potrebbero essere semplicemente dei segni rituali, ma in questo secondo capitolo acquisiscono più “importanza”. In un certo modo prendono vita e luce come delle vere e proprie costellazioni e considerando che niente è dato al caso in Avatar potrebbe essere un piccolo rimando al concetto di Costellazione Rituale.
Nell’idea di Costellazioni rituali possono emergere memorie di vite precedenti, eppure non è necessario credere alla reincarnazione per parteciparvi e trarne beneficio. Con le Costellazioni rituali la rappresentazione sistemica si avvale di ulteriori elementi come la musica, il canto sciamanico, l’ascolto profondo del corpo, la preghiera, la danza, i riti di passaggio, il contatto con gli Antenati remoti, l’uso consapevole della voce e del respiro: ricordate le preghiere in cerchio sotto l’Albero delle Anime? Si tratta di un lavoro di profonda sacralità, in cui ciascun partecipante viene aiutato passo per passo e coi suoi tempi ad aprirsi e prendere coscienza del proprio pieno potenziale umano sui piani fisico, emozionale, mentale, animico e spirituale e forse questo simbolismo è stato preso in considerazione per “disegnare” il corpo dei nostri Avatar e unire sia la parte di spiritualità più classica dei nativi e indigeni della Terra che quella più sperimentale delle Costellazioni Rituali.
Inserire comunque il concetto di reincarnazione, che è comune ad ogni religione e spiritualità, è una via per abbracciare ogni spettatore di qualsiasi etnia e credo, quasi un modo di James Cameron di farci avvicinare al battito di Eywa, per dirlo con le parole del film:
se il battito di Eywa si allineerà al vostro, sarà davvero difficile restare indifferenti