Abbiamo giocato il nuovo capitolo cooperativo della serie sparatutto di MachineGames, questa volta sviluppato in tandem con Arkane Studios. Sarà riuscito quello che è a tutti gli effetti uno spin-off a reggere il confronto con i due splendidi capitoli principali?
Entrambi con origine fissata nel nome monolitico di id Software, i franchise di Wolfenstein e DOOM hanno trovato una nuova vita al vertice del genere FPS sotto l’ombrello di Bethesda Softworks.
Laddove l’incredibile operazione di reboot di DOOM rimane prerogativa del team di Mesquite fondato da Carmack, Romero e Tom Hall, Wolfenstein ha trovato da The New Order una nuova casa nel sapiente team svedese di MachineGames, che con The New Colossus ha posto il punto esclamativo su una formula di gunplay semplicemente perfetta.
Trascorsi quindi quasi due anni dalla pubblicazione dell’apprezzato secondo capitolo della saga riavviata nel 2014, Wolfenstein torna con uno spin-off ambientato circa venti anni dopo la liberazione degli Stati Uniti ad opera di B.J. Blazkowicz, ora scomparso nella terribile Neo Parigi, ancora sotto occupazione nazista.
Wolfenstein: Youngblood – lo diciamo in partenza – è prima di ogni cosa un esperimento in funzione del futuro terzo capitolo, volto ad accettare una totale integrazione dell’elemento cooperativo ed innumerevoli meccaniche ruolistiche. In questo sforzo creativo notevole a MachineGames si accompagna l’aiuto sensibile di Arkane Studios, autori di quelle due perle di Dishonored e Prey ed ora al lavoro sull’appena annunciato Deathloop.
Due sorelle, tanti nazisti da uccidere, molte armi e sangue a fiotti. Prima di iniziare, vi ricordiamo che Wolfenstein: Youngblood è disponibile dallo scorso 26 luglio su PlayStation 4, Xbox One, PC Windows e Nintendo Switch.
Come accennato sopra, Wolfenstein: Youngblood prende piede nel 1980 di una linea storica alternativa in cui i nazisti sono riusciti a vincere la seconda guerra mondiale grazie a manufatti tecnologici dall’immenso potere. Sopravvissuto allo scoppio di testate atomiche, allo scontro con il sadico Deathshead, ad una decapitazione ed infine alla liberazione degli Stati Uniti da Frau Engel, B.J. Blazkowicz vive in Texas con sua moglie Anya e le sue figlie Jessie e Zofia, addestrate durante il corso della loro vita al combattimento e all’utilizzo delle armi da fuoco.
In seguito alla scomparsa di B.J. (ormai con i capelli bianchi) in Europa per motivi ignoti, il gioco mette al centro dei riflettori proprio Jessie e Zofia, che insieme ad Abby (la figlia di Grace – ora capo dell’FBI – da The New Colossus) si dirigono verso l’oppressa Neo Parigi alla ricerca del padre.
Incontrati i membri della resistenza parigina nelle inquietanti catacombe della città, le due gemelle avviano un intreccio che pone di nuovo al centro le tecnologie retro-futuristiche dell’associazione segreta Da’at Yichud, per andare sulle battute finali a porre le premesse della struttura narrativa del terzo capitolo principale. Perché a tutti gli effetti Youngblood è una introduzione alla conclusione della trilogia, avvolto su un finale in medias res – con un nemico e boss per altro fiacco – che scopre le carte in tavola ma risulta insipido, tanto è anticlimatico e poco conclusivo.
D’altronde l’intera campagna si limita ad una manciata di missioni principali e scene d’intermezzo – parliamo di 6/7 ore massimo – , mentre molte parentesi del racconto vengono delegate ai molti collezionabili sparsi nei singoli livelli. Un prologo surreale e caricaturale ed un colpo di scena conclamato sembrano quasi richiamare l’attenzione del giocatore verso quella caratterizzazione tarantiniana a cui ci aveva abituato The New Colossus, ma la resa definitiva rimane in realtà orfana di una dimensione propria, purtroppo lontana anni luce dai fasti del secondo capitolo.
Tuttavia, appoggiato per elementi di importanza capitale al prossimo epilogo principale, Wolfenstein: Youngblood come mero prequel non riflette in partenza nessuna pretesa narrativa, preferendo concentrarsi su sperimentazioni ludiche che scorrono parallele al nuovo apporto di Arkane Studios.
In primis, quello che ha colpito maggiormente gli occhi del pubblico fin dall’annuncio appare senza dubbio la possibilità di affrontare l’intera esperienza in cooperativa fino a due giocatori, con una sistema drop in/drop out accessibile e semplice da approcciare. Rigorosamente non in locale, ciascuno dei due giocatori prenderà il controllo di una delle sorelle Blazkowicz, differenti in partenza solo sul piano estetico. Se al contrario si vorrà giocare in singolo si sarà accompagnati da un’intelligenza artificiale, ma in questo caso – nemmeno a dirlo – si perderà molto del nucleo ludico dell’avventura.
A questo punto entra in gioco il sistema ruolistico, che va a sostituire la timida integrazione di talenti e potenziamenti di The New Colossus in un intervento decisamente drastico per l’economia della serie.
Parlavamo poco sopra di una durata lineare dell’avventura di circa 6/7 ore; ecco, in ottica GDR il tempo di gioco in pratica raddoppia, vista la necessità di aumentare il livello del proprio personaggio attraverso obiettivi secondari per non soccombere nelle impegnative missioni principali. Si potrebbe quasi dire che – in virtù pure di un disimpegno derivato dalla presenza della cooperativa – le quest secondarie rappresentino il piatto principale dell’offerta, visto il loro numero e la loro rilevanza all’interno della progressione.
Dal trovare oggetti specifici all’uccidere particolari bersagli, dal salvare alleati al distruggere fabbriche di assemblaggio, dall’investigare (nel senso più lato del termine) al trovare vie alternative per accedere alle tre torri Brother (la parte più corposa della campagna lineare), Youngblood costringe il giocatore ad allontanarsi dall’esiguo racconto centrale per addentrarsi nelle strade di Neo Parigi; e questo non è un male, anzi.
Se la presenza di una struttura così capillare e necessaria per le secondarie è ovviamente un modo per nascondere pochezza narrativa, è anche d’altro canto una via per valorizzare i grandi miglioramenti nel level design. Il contributo di Arkane qui si fa prevalente, e Neo Parigi – grazie all’aiuto del doppio salto di default – acquista all’improvviso la stessa profondità dei meandri della Dunwall di Dishonored, ricca di interni esplorabili, collegata da una fitta rete di sotterranei e curata con tante piccole sorprese per i giocatori maggiormente entusiasti verso l’esplorazione.
Certo, al netto di una rinnovata complessità verticale ed orizzontale, il design delle singole location tende a ripetersi, con l’eccezione di qualche zona ben caratterizzata e percettibilmente differente. In ogni caso, la scelta di ambientare interamente il gioco in quattro aree separate della città francese inevitabilmente preclude l’eclettismo dell’America del secondo episodio.
Questo mette ancora più in evidenza quanto questo progetto si riveli uno spin-off non solo su un piano narrativo, ma soprattutto sul campo delle risorse impiegate.
Tornando invece alla progressione ruolistica di cui prima, nel menù di gioco troviamo sezioni dedicate al personaggio e alle armi. Dalla sezione personaggio abbiamo gli hub di abilità, aspetto e gioco. Come da nome, il primo permette di sbloccare singole abilità attive/passive o potenziamenti delle stesse (con i token ottenuti a passaggio di livello e a fine missioni), il secondo è dedicato al selezionamento delle skin di casco ed armatura (l’unico elemento inficiato da microtransazioni), il terzo dedicato alla scelta dei segnali intesa (emote che applicano bonus ad entrambe le sorelle) e all’acquisto di miglioramenti (semplici power-up consumabili).
Lo spazio occupato dalle armi è di contro più sfaccettato. Tornano ovviamente armi leggere automatiche e semi-automatiche, fucili a pompa, fucili d’assalto e ovviamente anche le armi più eccentriche, come Laserkraftwerk, Elektrokraftwerk e Dieselkfratwerk (nomen omen), queste ultime trovate nelle tre torri Brother.
Come per l’acquisto di segnali intesa, miglioramenti e skin, le armi possono essere migliorate con valuta di gioco, raccolta completando obiettivi ed esplorando le diverse mappe. Ogni componente migliorata (che ha tre varianti di potenziamento diverse) va poi a modificare le statistiche dell’arma da fuoco, ulteriormente definite da livello giocatore e maestria.
Inutile ribadire inoltre quanto il gunplay del gioco sia perfetto, in grado di fornire una percezione stupefacente del controllo dell’azione e delle sue fasi più concitate. Wolfenstein: Youngblood, come The New Colossus o DOOM, risponde perfettamente al feedback delle armi, tanto nel raffiche quanto nel suono dei meccanismi nello sparo e nella ricarica. A tutto questo si aggiunge la frenesia di scivolate, ripari (con il dorsale sinistro ci si può al solito sporgere) ed impugnatura ad arma doppia, in contrapposizione questa volta all’approccio stealth garantito dalla utilissima abilità di occultamento (forse pure troppo sbilanciata).
Interessante anche la decisione di aggiungere una di due barre di scudo ai vari nemici, ciascuna specifica per arma leggera o pesante (quasi inutile colpire un supersoldaten corazzato con una pistola, ad esempio).
Concludiamo infine con una analisi del comparto tecnico. Per Wolfenstein: Youngblood ribadiamo essenzialmente quanto già detto per The New Colossus, che avevamo tra l’altro provato come in questo caso proprio su PlayStation 4 Pro. L’illuminazione ed i particellari restano incredibili, con una nebbia volumetrica spesso diffusa che contribuisce all’impatto degli ambienti. La resa generale non fa gridare al miracolo come su PC, ma la qualità appare in ogni caso ottima ed in linea con i risultati migliori dell’engine, l’id Tech 6 (ora con tutta probabilità in pensione dopo la pubblicazione di Doom: Eternal, provvisto di una nuova versione del motore).
La fluidità, importantissima per un FPS, cerca di rimanere fissa sui 60 frame per secondo, seppur con la presenza di qualche calo specie in vista di esplosioni e momenti con parecchi elementi a schermo. Il gioco tuttavia rende possibile la virtuosa scelta tra definizione e fluidità: attivando la definizione dinamica (che ha due livelli di intensità) il frame rate rimane praticamente costante in ogni situazione.
In definitiva, Wolfenstein: Youngblood è un’esperienza divertente da giocare in cooperativa che purtroppo sacrifica lungo il percorso la ricchezza narrativa guadagnata con The New Colossus. L’esperimento GDR appare riuscito ed il level design fa grandi passi in avanti grazie ad Arkane Studios. Si poteva però fare davvero di meglio per una saga così illustre.
- Gunplay al solito incredibile
- Esperimento con elementi GDR riuscito
- Level design molto più sfaccettato rispetto al passato
- Il divertimento in cooperativa non manca
- Narrativa risicata e di una linearità disarmante
- Le missioni secondarie sono in pratica la fetta più consistente del pacchetto
- Ambientazioni di Neo Parigi molto simili tra loro
- Boss finale da rivedere in toto