Fallout 76 risulta l’esempio plastico di come le esigenze di mercato spesso siano in contrasto con gli attori stessi del mercato, tanto più in un panorama quale quello videoludico. Proviamo ad analizzare cosa è successo con l’ultima opera firmata Bethesda.

In parte c’era da aspettarselo. I fan lo sospettavano fin dal momento dell’annuncio, quel raffinato equilibrio ludico di Fallout 3, in parte già venuto meno con Fallout 4, svanisce completamente in questo nuovo titolo. Un tentativo maldestro, un’occasione persa. Una vera ecatombe da parte di critica e pubblico, con una media voti Metacritic di 51/100 e uno user score che oscilla tra 2.4 e 2.7.

Ecco, com’è che siamo arrivati a questo punto? Si tratta pur sempre di Bethesda, non propriamente degli ultimi arrivati.

Si tratta degli stessi a cui dobbiamo capolavori della scorsa generazione videoludica, come il già citato Fallout 3 ma anche The Elder Scrolls V: Skyrim, che seppur vittima di un eterno ritorno resta una pietra miliare tra i GDR. Fallout 76 trasudava incertezza fin dal momento del suo annuncio, tant’è che ancor più che con ogni altro titolo la software house ha adottato una taciturna riservatezza, dove ci si sarebbe aspettati ben più materiale per spingere il titolo anche in termini di marketing.

Dalla sua uscita per PC, PlayStation 4 e Xbox One, lo scorso 14 novembre, di recensioni ne sono uscite già parecchie, per cui piuttosto che accodarmi alla già lunga sfilza di giudizi non lusinghieri, ho pensato di analizzare nel modo più lucido e distaccato possibile le cause di un’operazione evidentemente mal riuscita.

 

 

 

L’apocalisse. Per davvero.

La storia che fa da cornice a Fallout, scandita in oltre vent’anni di giochi apprezzatissimi da critica e pubblico, ci porta in un what if apocalittico, un futuro post-atomico in cui di cose bizzarre ne sono successe parecchie. È il 23 ottobre 2077 il giorno in cui la Cina ha attaccato gli Stati Uniti con armamenti nucleari. Nel mondo divampa il caos e il cielo si riempie di missili nucleari di ogni tipo di entità, trasformando il pianeta in una polveriera.

La più grande guerra dell’umanità dura poco più di 2 ore, durante le quali una devastazione senza precedenti stermina oltre il 70% del pianeta.

Un bell’incipit, no? Oggi questo potrà sembrare uno scenario abusato, soprattutto nei videogiochi, ma tra i vari meriti della serie Fallout c’è quello di essere stata una delle prime rappresentazioni videoludiche della distopia post-apocalittica nucleare. È sempre stata anche una delle migliori, in termini qualitativi, per la profondità delle storie e il fascino delle sue ambientazioni (qualora voleste approfondire la storia di Fallout vi riportiamo un nostro approfondimento sul tema di qualche anno fa).

 

 

Sulla carta anche la trama di Fallout 76 aveva tutte le carte in regola per essere una bomba (non ho resistito, scusate). Anno 2102, sono passati solo 25 anni dall’olocausto nucleare che ha piegato la società moderna, e siamo 59 anni prima degli eventi narrati nel primo Fallout. Riempire un vuoto temporale tra eventi già fermi, in qualsiasi opera d’intrattenimento, è un azzardo che può premiarti o danneggiarti fortemente.

Perché tra i fan di un franchise come questo ce ne sono necessariamente di inflippati a tal punto da poter essere considerati storici della cronologia del gioco, per cui cadere in scelte incoerenti è un attimo. Ma ovviando a questi rischi, l’occasione era senz’altro ghiotta e in questo caso, per certi aspetti, riuscita. Il cosiddetto Reclamation Day, ossia il primo giorno in cui gli esseri umani fuoriescono dai Vault tornando a mettere piede sulla vecchia terra per riprenderne il controllo è un setting incredibile in cui ambientare una storia.

 

 

L’importanza di una storia

Qui però tutte le buone intenzioni finiscono nel bidone insieme alla capacità di scrivere storie in casa Bethesda. Lo sviluppatore ha infatti optato per una narrazione silenziosa, dove è l’ambiente a raccontare una storia, oltre alle interazioni con i classici documenti da leggere e holotape da ascoltare. E sia ben chiaro, questo non è sempre un male (vi basti pensare a giochi come Dark Souls o Bloodborne), ma bisogna farlo con criterio.

Il West Virginia in cui muoviamo i nostri passi, nonostante tutto, risulta affascinante e pieno di potenziale sprecato.

Il mio personale parere è che questa sia stata semplicemente una scelta paracula per riuscire a chiudere il gioco in tempi strettissimi, della serie minima spesa massima resa. Ed è davvero un peccato, perché mancano anche i dialoghi con scelta multipla, tipici della serie, che di solito ci aiutano a sentirci parte attiva nello sviluppo degli eventi. La scelta poi sarà stata pure dettata dall’esigenza di favorire un’esplorazione capillare di ogni angolo del mondo di gioco, che questa volta – per la prima volta – è online, ma era necessario?

 

 

 

 

Non c’è una distinzione netta tra giusto e sbagliato quando si tratta di accontentare i fan o innovare un franchise.

Questo è un grande dilemma a cui non si può dare una risposta univoca, purtroppo. Non c’è una distinzione netta tra giusto e sbagliato quando si tratta di accontentare i fan di un franchise dando loro un prodotto di cui conoscono già quasi tutto, in cui si sentano a casa, e provare ad innovare, talvolta stravolgendolo, per inseguire le tendenze di mercato. In un settore dove tutti gli attori sono ormai orientati alla ricerca di fonti di guadagno sul lungo periodo, possiamo davvero biasimare questa scelta?

Qui dirò una cosa forte ed estremamente soggettiva: l’online nei videogiochi è come una piscina lunga e profonda, ti ci puoi tuffare anche se non sai nuotare ma difficilmente riuscirai a rimanere a galla. Mentre vedi nuotatori esperti come i signori Call of Duty e FIFA che si macinano vasche su vasche e giovincelli come Fortnite che paiono instancabili, c’è il tuo amico The Elder Scrolls Online, quello che a ogni vasca si aggrappa alla corsia o al muretto perché proprio non ce la fa a tenere il ritmo, e poi ci sei tu che magari non sai nemmeno dare due bracciate senza affondare. Con il tempo potrai migliorare, e imparare a nuotare bene come gli altri. Questo lo puoi fare, non c’è dubbio, ma difficilmente riuscirai a restare asciutto.

 

 

La storia in Fallout 76 cede il passo all’online, ma anche l’online è carente.

E asciutti sono i giochi che raccontano grandi storie, che presentano numerosi bivi e che li intrecciano in un gameplay ben ragionato ed equilibrato, un po’ come Fallout 3, o come Prey e Dishonored (per restare sempre in casa Zenimax). Tradotto: le grandi storie sono offline. L’online rovina necessariamente la narrazione, crea mille compromessi in termini di gameplay, e per gestirlo bene ci vuole molto più tempo di quello che è stato evidentemente dedicato allo sviluppo di Fallout 76. Poi anche l’online ha i suoi pregi, una ambientazione come quella di Fallout potrebbe regalare tantissimo ai giocatori, in modo diverso da quello tradizionale, anche online. Ma non è questo il caso.

Qui la storia manca per far spazio all’online, e l’online è anche fatto male. Non c’è uno scopo comune né occasioni di reale cooperazione, non c’è neanche la tensione o la sfida che subentrano in altri giochi online. Allora cosa rimane? Un contenitore pieno di potenzialità che vanno di pari passo con i bug e le porcherie tecniche di cui Fallout 76 è ricolmo. Non mi dilungherò nemmeno nel parlare degli evidenti problemi derivanti dall’uso di un engine di gioco ormai troppo vecchio, sarebbe come sparare sulla croce rossa. Rimane quindi un contenitore vuoto, dicevamo.

Un contenitore vuoto su cui aleggiano enormi potenzialità, e con un supporto continuo sono sicuro che Fallout 76 diventerà anche un bel gioco fra un anno. Un gioco del tutto diverso, probabilmente. Ma a chi importerà più?