Appunti di vita lavorativa a Tokyo

Speciale Emigrazione: Giappone

Tokyo è una megalopoli popolata da un bel po’ di piccole personcine che passano il tempo a correre da un treno all’altro (sempre molto affollato). E chissà come mai, nonostante si sia in tanti, tutti si sentono molto soli. Get over it.

La Cina mi ha rotto. L’ignoranza della gente in fatto di “Asia” mi ha davvero rotto. I colloqui di lavoro dal sottotitolo “non abbiamo letto il suo cv, ma dato che scrive di essersi laureata in giapponese ci fa presumere che sappia (ovviamente) anche il cinese, che sta più o meno nella zona, giusto?” mi hanno profondamente rotto (insomma, sarebbe come dire che Italia, Spagna e Francia sono lo stesso Paese: cosa che farebbe ammattire i francesi, sogghignare gli italiani e dare inizio a una fiesta da parte dei cugini spagnoli).

“Quello che possiamo offrire a una neo-laureata come lei è uno stage gratuito, senza rimborso delle spese di viaggio, senza assistenza nel trovare un alloggio e senza speranza di una possibile assunzione neanche a tempo determinato. Sa, viviamo in tempi difficili, ci si deve adattare”. A lavorare gratis.

Dopo il 1995, imparare il giapponese è una delle scelte più azzardate che possa saltare in mente a quelli che sono cresciuti con Dragon Ball, Ken Shiro e Sailor Moon.

Dopo il 1995, imparare il giapponese è una delle scelte più azzardate e al limite della roulette russa che possa saltare in mente a qualsiasi ragazzo o ragazza della mia generazione, ovvero “quelli che sono cresciuti con Dragon Ball, Ken Shiro e Sailor Moon”. Il mondo cambia, come è giusto che sia, e le tendenze in fatto di Paesi attraenti dal punto di vista economico (vedi per sfruttamento della massa lavorativa, vedi per motivi finanziari) cambiano a loro volta: ora è il turno di Cina, India, Brasile e Paesi Arabi. Tra dieci anni probabilmente saranno Nigeria e Nicaragua, chi lo sa?

Comunque queste sono considerazioni da parte di chi, dopo anni di studio e tante belle speranze, al momento cruciale della scelta della tesi di laurea ha pensato di giocarsi tutto: proviamo a scrivere una tesi di laurea con di mezzo i famosi “scambi internazionali”, il “Made in Italy”  e il “caro vecchio Giappone” e andiamo a rompere le scatole ai capoccioni delle quattro aziende in questione col pretesto della tesi e di un’intervista.

Se non avessi provato questo “last standing” durato un anno di viaggi su e giù per l’Italia (a mie spese) e la battaglia senza esclusione di colpi per una borsa di studio per qualche mese di ulteriore ricerca sul campo in Giappone, ora probabilmente sarei a cercare lavoretti in un Paese dove serve quella strana cosa chiamata “esperienza” (ma non troppa, altrimenti si è  “troppo qualificati per la posizione”) e anche tante piccole cosette tra raccomandazioni, spintarelle e sani colpi di fortuna.

Naturalmente c’è chi riesce vuoi per capacità, vuoi per buona stella, vuoi perché si è effettivamente fatto in quattro: tanto di capello, perché è giusto che sia così in questa Italia un po’ malridotta.

 

 

Profilo: neolaureata living alone in Tokyo

Sono una donna poco più che ventenne in un ufficio giapponese al 100% maschile dove la comunicazione media avviene tramite e-mail.

Dallo scorso anno vivo a Tokyo, impiegata presso una azienda al 100% giapponese, dove tuttavia non sono costretta a indossare il completo giacca-gonna all black e camicia bianca che sono ancora di voga e lasciano quell’impressione di Anni ’90 perenni che aleggia su un po’ tutta la città.

Il mio lavoro consiste da fare da tramite tra Italia e Giappone nelle varie aziende in mano al mio capo, spaziando dal food and beverage (la mia passione), alla moda e l’arte (un po’ meno tra i miei interessi).

A farla breve, sono una donna poco più che ventenne in un ufficio giapponese al 100% maschile dove la comunicazione media avviene tramite e-mail e dove non esiste un limite ai propri compiti: se un giorno sei completamente volta al magico mondo della contabilità aziendale, il successivo sei a fare da interprete a dei clienti in visita e quello dopo ancora a sistemare le ennesime beghe burocratiche.

Lo chiamano multitasking o qualcosa del genere.

Train

Come ci sono finita qui? Grazie a tanta faccia tosta e il cosiddetto “essere la persona giusta al momento giusto e pronta a lasciare famiglia, amici e fidanzato dall’altra parte del mondo (rispetto al Giappone. Oriente e occidente sono tutta una questione di prospettiva) per andare a vivere da quella opposta per un periodo di tempo non ben precisato”.

Basta fare i bagagli, aspettare che l’azienda che ti ha assunta ti prepari il visto… e arrangiarsi alla grande. Forse per disorganizzazione o perché era la prima volta che veniva assunta una lavoratrice straniera, mi sono trovata completamente allo sbando: dove vado ad abitare? E il contratto quando lo potrò leggere? Devo aprire un conto in banca, ma come si fa? Ah, mi serve anche un cellulare perchè in Giappone i telefoni europei non funzionano! E l’abbonamento del treno per l’ufficio è costosissimo, me lo rimborseranno?

Arrangiarsi e informarsi sono le parole magiche che mi hanno evitato tanti problemi. Non trovarsi impreparati è la parola d’ordine. Prepararsi i discorsi la notte prima è furbizia.

Arrangiarsi e informarsi sono le parole magiche che mi hanno evitato tanti problemi, tra cui la possibilità di venire espulsa dal Giappone dopo due settimane per non aver registrato la residenza in comune.

Essendo una persona ansiosa che vive di post-it e check list giornaliere (minuziosamente segnate su una analogicissima agenda di Moleskine), ho trascorso il mese precedente alla partenza a scartabellare ogni possibile “to do list for foreigners going to live in Japan”.

Cosa, quando, in che modo: fortunatamente Tokyo ha una buona presenza di siti a riguardo anche in inglese che mi hanno risparmiato la perdita di qualche diotria in più.

Ovviamente, al momento di trovarsi a faccia a faccia con impiegati e altri personaggini della burocrazia. conoscere il giapponese è d’aiuto. Prepararsi i discorsi la notte prima, farsi un’idea generale su come le cose dovrebbero andare e scriversi da parte le parole chiave è furbizia.

La mia vita a Tokyo è iniziata come una scalata in verticale (e lo è tutt’ora. Non mi piace vincere facile): registrarmi in comune e ottenere la tessera di residenza; comprare un cellulare (se non si conta di vivere in Giappone almeno due anni, ci si preclude una lunga serie di apparecchi ultratecnologici e ci si deve accontentare di modelli vintage Anni ’90); acquistare il mio “sigillo personale” (ovvero il timbrino con nome o cognome inciso. Qui normalmente non si firma, ma si timbra); aprire un conto in banca (cosa che va a discrezione della banca stessa: alcune ti vogliono residente e lavoratore da qualche mese, altre vogliono una lunga sfilza di documenti da parte della compagnia presso cui lavori… fortunatamente ci sono anche le banche che si fanno meno problemi e dove l’unico punto di dubbio è se scegliere o meno il bancomat con Winnie The Pooh o Minnie); comprare l’abbonamento del treno (scoprire che “ovviamente glielo rimborseremo al 100%” è una bella boccata d’aria per il portafoglio).

Onigiri

Il contratto? Questo è una delle questioni più difficili sia da spiegare sia da comprendere per un italiano.

Punto primo: ho un contratto.

Punto secondo: ho iniziato a lavorare, percepire uno stipendio e via dicendo senza aver mai visto il suddetto contratto (per tre mesetti circa).

Punto terzo: sul mio contratto (in giapponese) non c’è scritto niente di niente perché “cosa dovrebbe esserci scritto in un contratto?”.

Il mio contratto è a tempo indeterminato e sostengo da sola vitto, alloggio e shopping. Ma non è tutto oro quel che luccica: prendere 5 giorni filati di ferie è una delle grandi conquiste del lavoratore medio sulla soglia dei 45 anni.

Lavoro cinque giorni a settimana, 9 ore al giorno (eccezionalmente non ci sono molti straordinari. Se li devo fare lavoro da casa, ma anche se li facessi in ufficio non sarebbero pagati, come da norma non scritta in tutte le aziende del Paese), vengo pagata bene (nella media degli stipendi per i neo-laureati, ma tale da potermi considerare completamente autonoma da mamma e papà), sono registrata nel sistema pensionistico giapponese con detrazioni fiscali, annessi e connessi, il mio abbonamento del treno viene rimborsato ogni mese… E sono a tempo indeterminato.

Niente stage, niente tirocinio (ma qualche periodo di sveglia alle 5 o tirate fino alle 11 della sera nei centri commerciali di Tokyo me lo sono fatta come training), niente apprendistato di 4 anni e “poi se ne riparla”.

Certo, non tutto è oro quello che luccica: il mio tempo indeterminato significa avere 10 giorni di vacanza all’anno (e basta, malattia compresa. Prendere 5 giorni filati di ferie è una delle grandi conquiste nell’esistenza del lavoratore medio… verso i 45 anni); essere completamente volta alla azienda per cui lavoro (il capo decide di mandarmi nel Sud del Giappone per qualche annetto facendomi lasciare famiglia e amici? Può farlo, qui è la norma da quando è nato il primo salaryman della Storia e se pensate di rivolgervi a una associazione sindacale, siete nel Paese sbagliato); vivere sui treni 3 ore al giorno come qualsiasi altro pendolare del mondo (ma almeno qui sono più o meno in orario, a meno qualcuno non decida di farla finita sotto il vostro treno); ma sopratutto, quando finisco la giornata, tornata nella mia stanza sono da sola.

Fortunatamente esiste Skype.

 

 

“Prendere e partire” per la parte opposta del mondo non è facile. Avere crisi di pianto, crolli di nervi, attacchi di panico e essere affetti da homushikku (homesick, storpiato alla giapponese) sono gli effetti collaterali di cui quasi nessuno parla. Teneteli in conto, quando farete le valigie.

Attualmente vivo in una guest house, ovvero una casetta dove divido gli spazi comuni con altre lavoratrici: l’evoluzione della convivenza universitaria, solo che a causa dei ritmi una parola di saluto con le mie quattro coinquiline non la si pronuncia quasi mai, e le feste serali non sussistono.

La mia vita è racchiusa in 7 metri quadrati e due finestre (panni stesi ad asciugare compresi), cinque giorni in azienda e il weekend che spesso trascorro (se non a fare straordinari) con altre italiane immigrate (cercare di crearsi un piccolo network italico è sempre utile, la comunità di bloggers è una vera e propria manna) o straniere (cinesi e coreane conosciute in periodi di scambio culturale: il mondo certe volte è più piccolo di quanto non sembri e pure una megalopoli può sembrare delle dimensioni del paesino dove tutti si conoscono) nelle catene di caffetterie di Tokyo (le case-stanza sono piccole e bastano a malapena per una persona).

Non mi lamento, sotto un punto di vista economico sono messa bene: il mio stipendio mi dà abbastanza da provvedere a vitto, alloggio (69.000 Yen/mese, qualcosa come 700 Euro comprendente acqua, elettricità, Internet e utilizzo delle attrezzature degli spazi comuni quali microonde, fornetto, piastra IH, cuociriso, lavatrice) e trasporti (14.400 Yen/mese, circa 150 Euro per un abbonamento che copre tre linee private diverse e due cambi giornalieri. Tuttavia questi mi vengono rimborsati a ogni nuova busta paga), qualche gitarella, lo shopping (molto) economico e addirittura la possibilità di mettere da parte il famoso “qualcosa” che rende immensamente orgogliosi di se stessi (sui 60.000 Yen/mese, circa 550-600 Euro).

La vita in Giappone è cara, ma con piccoli accorgimenti si può riuscire a cavarsela al meglio (senza morire di fame. Ma scordatevi la pasta al sugo della mamma).

La vita in Giappone è cara, carissima. Per tagliare i costi del cibo uso il metodo “della nonna”, ovvero prepararmi i pranzi da casa e portameli in ufficio (in Italia li chiamiamo “schiscètta”, qui sono il più noto o-bento), cucinarmi qualcosa come sei cene su sette usando l’unica piastra IH a disposizione (ricordo che siamo in cinque coinquiline), approfittare degli sconti dal 20 al 50% sui prodotti del supermercato dopo un certo orario della sera.

La mia dieta è piuttosto cambiata, passando dalla pastasciutta a una netta preferenza per riso e udon; dalle zucchine ad altri ortaggi come cavolo, funghi, germogli di soia, daikon e bean sprouts; dagli affettati e le bistecche a natto, tofu, carne di pollo (il maiale quando in offerta).

La cioccolata l’ho sostituita con la marmellata di azuki e ai dolcetti Made in Japan (daifuku, taiyaki, dorayaki, youkan), ma personalmente li preferisco a quelli italiani sotto molti punti di vista.

Quando esco con le amiche, preferiamo i posti “da lavoratori” dove una ciotola di riso con condimento costa tra i 300 e 500 Yen (circa 4-5 Euro, tè caldo o acqua e zuppa inclusi), oppure locali dove la spesa per il cosiddetto set menu non supera la banconota da 1000 Yen (circa 9-10 Euro, acqua e servizio inclusi): a differenza di quello che si potrebbe pensare, nei suddetti ristorantini-bettola veniamo trattate bene e con tutto il rispetto degno dell’essere “onorevoli clienti”, anche se non spendiamo cifre propriamente astronomiche. Insomma, quando sei in Giappone, fai come i giapponesi.

Il lavoro che faccio mi piace? Questo dipende dalla giornata. Ci sono giorni in cui mi pongo le famose domande esistenziali, e altri in cui penso di avervi trovato finalmente una risposta. I fattori di amore e odio sono molti, colleghi, ambiente, ciclo mestruale. Sono una persona organizzata, non equilibrata.

E sopratutto sono donna (e straniera) in uno dei Paesi più maschilisti del mondo, e lavoro in un ufficio dove sono capitata come un alieno proveniente da Saturno al pranzo della Domenica.

 

 

No exit sign

Per concludere: Tokyo non è un parco giochi.

Get over it (e preparati di conseguenza)

 

Trovare lavoro in Giappone non è facile. O si esce da una università giapponese e ci si presta a tutta la trafila della periodo di ricerca di un impiego o si è fuori. Altrimenti bisogna sperare che qualche azienda si rivolga alle università italiane e viceversa. Rompere le scatole ad aziende italiane che hanno a che fare con il Giappone è l’ultima spiaggia e serve un lungo corteggiamento, molte spugne da gettare e riprendere in mano e una buona dose di faccia tosta.

Informarsi e cercare quanto possibile di arrangiarsi è il minimo, a meno che non entriate in una compagnia con una sezione HR spiccatamente globale. L’ordine iniziale delle cose per sopravvivere lo si può spulciare da qualche blog in giro o semplicemente creandosi un buon numero di check-list prima di mettere piede sul suolo nipponico.

Lavorare qui è un altro discorso: donne e uomini sono trattati in maniera differente, differenze che sono più o meno spiccate a seconda che siate assunti da una azienda italiana o giapponese e dalla nazioalità di capo e colleghi. Comunque, in linea generale, essere donna è sempre un minus, a meno che non abbiate a che fare con qualche neo shogun aziendale illuminato.

Inoltre, ricordate come il Giappone non sia il parco giochi dell’umanità (nonostante tutti gli anime e manga che hanno segnato la vostra esistenza) e voi siate categoricamente dei gaijin (stranieri) di cui fidarsi è bene, non farlo è consigliabile: prese le adeguate precauzioni potrete riuscire almeno a sopravvivere. Per viverci dovrete portare molta pazienza. E abituarvi ai terremoti.

 

 

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