Wonder Woman è un film di super-eroi a suo modo epocale. Ne stavo giusto parlando una di queste sere con la mamma di un maschietto di sei anni, decisa a non far vedere al pargolo i Classici Disney (“perché contengono un’immagine della donna che aspetta sempre l’uomo che la salvi, a parte quelli moderni come Mulan o Ribelle – Brave”).
Stavo lì a dirle che anche un uomo che si sbatte, sfida pericoli mortali e ammazza draghi per salvare la sua bella, come immagine educativa, non è proprio da buttar via, quando siamo finiti a parlare di Wonder Woman.
Wonder Woman non è la prima eroina a tutto tondo del cinema, né la prima donna forte del grande schermo e neppure la prima protagonista di un film action a mostrare capacità superiori a quelle dei colleghi testosteronici.
È però la prima a imporsi come solista nel genere super-eroistico che, è sempre più chiaro, va analizzato come categoria a sé stante nel panorama cinematografico.
In un contesto di tizi in calzamaglia e armature, la leggerezza rigorosa e coraggiosa di Diana, l’amazzone che vede il mondo con occhi da bambina e mena come una wrestler indistruttibile, ha conquistato il pubblico mondiale e incassato cifre stratosferiche che certi maschietti con martelli e scudi boomerang si sognano.
Questa introduzione per dirvi che, sì, Wonder Woman può aver diviso la critica e non il pubblico (che l’ha premiato), può non essere il miglior cinecomic di sempre, ma è un film da vedere e rivedere.
Quindi, mo’ che esce in digitale, accattatevillo e godetevi la miriade di contenuti speciali e la versione scintillante in HD sulla tv
C’è un aspetto che ha fatto molto discutere, in questo film che ha fatto molto discutere: l’ambientazione durante la Prima Guerra Mondiale.
Per alcuni è stato un contesto poco sviluppato, messo là tanto per dare una connotazione storica.
Voglio credere che, al di là del momento storico in cui i nazionalismi condizionavano la vita del mondo – motivo specificato dagli sceneggiatori come parallelo e critica alla situazione attuale – sia anche perché proprio la prima guerra mondiale fu una cornice in cui il quadro dell’emancipazione femminile iniziò a delinearsi.
E allora, se Wonder Woman non va alla montagna, la montagna va da Wonder Woman: o meglio, la montagna partorisce delle Wonder Women, nel mare di topolini che combattevano una guerra che fu definita in modo chirurgico dallo scrittore e drammaturgo tedesco dell’epoca, Hermann Sudermann “la più gigantesca imbecillità che il genere umano abbia compiuto dai tempi delle crociate”
Le donne e la Prima Guerra Mondiale
Ci vuole sempre un trauma per scuotere lo status quo, e quale trauma più impattante di una guerra su scala globale può sovvertire l’ordine delle cose?
Sofferenza, abbandono, lutti, emergenze, paura: per le donne il conflitto mondiale fu prima di tutto lontananza e spesso perdita di mariti, figli, fratelli.
L’uomo era “il combattente” più o meno farcito d’amor patrio, mentre l’altra metà del cielo, almeno inizialmente, era ancora relegata alla figura dell’angelo del focolare.
Una situazione destinata a durare poco, visto il perdurare del conflitto e delle sue sanguinose implicazioni, che richiedevano sempre più soldati spediti sui vari fronti di battaglia.
Ben presto le donne si ritrovarono ad occupare migliaia di posti di lavoro che prima erano riservati soltanto agli uomini (fabbriche, mezzi di trasporto, comunicazioni), ad occuparsi autonomamente del sostentamento e della sicurezza della famiglia, a combattere o svolgere ruoli sui campi di battaglia
Certo, non si può generalizzare: una povera popolana subiva la guerra e le sue privazioni molto più di una giovane studentessa di buona famiglia, di un’operaia già occupata o di una rappresentante del ceto medio.
Ma gli ingranaggi erano in moto: la guerra aveva dato l’opportunità di comprendere le proprie potenzialità, capacità e sviluppare fiducia nei propri mezzi.
Non si può dire però che la guerra aiutò i movimenti femministi esistenti. Interruppe di netto le loro attività, costrinse le donne di punto in bianco a vivere situazioni che le assorbivano completamente, e nonostante tutto l’opinione pubblica (guidata da mezzi di comunicazione e opinion leader di stampo maschile) non salutò con entusiasmo la novità del ruolo attivo delle donne nel mondo del lavoro.
Si parla però di un contesto sconvolgente in cui, per forza di cose, il mondo si rese conto che le donne non solo dovevano, ma potevano svolgere un ruolo fondamentale e attivo nella società al pari degli uomini.
Molte cose, alla fine della guerra, tornarono com’erano, ma i semi della consapevolezza che il rosa non era più il colore del solo focolare domestico erano più che mai gettati: il secolo che si era aperto con il sangue sarebbe stato un lungo percorso di lotta per l’emancipazione e per i diritti femminili.
Nel contesto del panorama bellico ci furono donne che rappresentarono straordinarie eccezioni e la cui storia spesso è trascurata o ignorata.
Vediamo alcuni dei casi più eclatanti delle “Wonder Women in real life”.
Flora Sandes
L’inglese Flora, nata nel 1887 nello Yorkshire, fu una donna combattente nel vero senso del termine. Fin da piccola, nonostante l’educazione femminile dell’epoca, amava andare a cavallo in modo spericolato e imparò a sparare e guidare.
Iniziò come volontaria sulle ambulanze in patria – voleva fare l’infermiera ma fu respinta per mancanza di studi specifici – per poi approdare in Serbia e, narra la leggenda, farsi passare per un uomo pur di arruolarsi come soldato nella Royal Serbian Army.
Qui si dimostrò una validissima combattente e scalò in fretta i ranghi militari diventando caporale.
Fu ferita in battaglia, durante l’avanzata in Macedonia, da una granata scagliata a breve distanza durante un combattimento faccia a faccia con i soldati nemici.
Sopravvissuta all’accaduto, fu insignita della più alta onorificenza dell’esercito serbo, L’Ordine della Stella di Karađorđe.
Non potendo più combattere per via delle ferite, si occupò del benessere dei soldati e delle condizioni dei prigionieri di guerra, per poi dirigere un ospedale e infine, al termine della prima guerra mondiale, fu congedata dall’esercito.
Ma non finisce qui: tra le due guerre la Sandes si è sposata, è stata la prima tassista di Belgrado, ha pubblicato due autobiografie e ha tenuto conferenze in mezzo mondo (sempre indossando l’uniforme militare) parlando delle sue esperienze di guerra.
Richiamata in servizio nel 1941, fu prigioniera dei tedeschi assieme al marito dopo l’invasione della Yugoslavia. Fu poi liberata e visse il resto della vita in Inghilterra, nel Suffolk.
Evgeniya Shakhovskaya
La principessa aviatrice. Fu la prima donna a diventare un pilota militare, volando in missioni di ricognizione fin dal 1914 a venticinque anni.
Cugina dello zar Nicola II, fu assegnata al primo squadrone aereo, anche se non è chiaro se partecipò mai ad azioni di guerra vere e proprie.
La sua vita è ammantata dal mistero, sappiamo che imparò a volare da alcuni dei migliori piloti dell’epoca in Germania e diventò pilota degli aeromobili Wright, con i quali ebbe anche un incidente nel 1913.
Tornata in patria volò, come detto, per l’esercito russo raccogliendo informazioni sui campi di battaglia.
Fu poi accusata di tradimento per aver cercato di oltrepassare le linee nemiche, condannata alla fucilazione poi commutata in carcere dallo zar.
Liberata durante la rivoluzione, diventò una assassina per conto del generale Tchecka, ma la dipendenza dalle droghe le fu fatale: in stato di alterazione uccise un suo assistente a colpi di pistola e fu a sue volta uccisa dai soldati intervenuti a verificare l’accaduto.
Loretta Perfectus Walsh
Dopo il cielo, il mare. Loretta Perfectus Walsh, americana di Philadelphia, fu la prima donna arruolata in Marina e la prima a servire la Patria nelle forze armate USA.
Nel 1917, a vent’anni, Loretta si arruolò nella U.S. Navy diventando sottufficiale di marina, nel corpo dell’esercito che per primo permise alle donne di entrare in ruoli che non fossero quelli di infermiera.
Neppure due settimane dopo essersi arruolata, il presidente Woodrow Wilson dichiarò l’entrata in guerra degli USA.
La guerra terminò un anno e mezzo dopo, ma Loretta aveva contribuito attivamente con il suo lavoro e la sua dedizione a permettere il riconoscimento di pari diritti degli ufficiali donne rispetto agli uomini, primo fra tutti il salario e lo status post-bellico di ex militare.
Maria Leontievna Bochkareva
La vera badass della situazione è una russa, ovvero colei che fondò il Battaglione della Morte composto da sole donne e fu la prima comandante in rosa di un’unità militare.
Nata Maria Frolkova da una modesta famiglia di fattori a Nikolsko, ebbe un’educazione rigida dal padre, che era stato sergente nella guerra contro i Turchi.
Si sposò sedicenne e si trasferì in Siberia, dove il clima gelido fu solo l’ultimo dei suoi problemi: il marito era un violento e ben presto trovò la forza di lasciarlo, per poi andare a lavorare come serva nella casa del proprietario di un bordello, che la costrinse a “prestare servizio”.
Sfuggita anche a questa spiacevole situazione, si trovò un altro uomo, un macellaio di origine ebrea, con il quale aprì un’attività commerciale.
Sfiga volle che pure questo non era uno stinco di santo, e fu costretto dalle autorità a cambiare paese per ben due volte a causa dei furti che commetteva, con lei al seguito.
Alla fine Maria prese una decisione: basta uomini, meglio la guerra. Ok, probabilmente non proprio così, ma…
Dopo essere stata respinta dall’esercito imperiale, decise di sottoporsi nel 1914 a tre mesi di addestramento massacrante, promosso dallo stesso zar Nicola II, e alla fine fu mandata in prima linea con un reggimento secondario a Polotsk.
Lì si fece notare immediatamente riuscendo a salvare ben cinquanta soldati feriti dal campo di battaglia, e fu decorata al valore.
Ne uscì con varie ferite che la costrinsero a stare nelle retrovie come personale medico, ma appena possibile tornò sul campo di battaglia, con il grado di caporale e una dozzina di uomini ai suoi ordini.
Dopo altri quattro mesi di stop per una ferita che quasi la lasciò paralizzata (non si può dire che fosse una che non combatteva a testa bassa) riprese a combattere come ufficiale maggiore, guidando un gruppo di settanta soldati.
Nonostante il suo curriculum bellico, fu per lei difficilissimo tenere a bada il comportamento di questi uomini che non accettavano di buon grado di essere al comando di una donna.
Alla fine, pur avendone guadagnato il rispetto dimostrandosi un asso in battaglia, Maria decise di abbandonare la carriera militare nel 1917.
Ma non era finita: dopo la rivoluzione di febbraio e l’addio della Zar, fu chiamata da uno dei massimi comandanti della Duma per formare un gruppo di combattenti formato da sole donne.
Ecco la nascita del Battaglione della Morte, che vide richieste da parte di 2.000 volontarie di cui solo 300 riuscirono a farsi arruolare, dopo durissima selezione.
Le donne combatterono sul fronte occidentale e Maria fu promossa al grado di tenente. Il battaglione si dimostrò efficace e valoroso, e ne nacquero altri, senza il suo coinvolgimento diretto.
Dopo la rivoluzione d’Ottobre la sua carriera si arrestò per la volontà dei bolscevichi, che dismisero quasi tutti i gruppi armati femminili.
Dopo una prima prigionia, Maria nel 1918 riuscì a fuggire negli Stati Uniti dove incontrò il presidente Woodrow Wilson e scrisse le sue memorie assieme al giornalista Isaac Don Levine.
Decise di tornare in Russia e prendere parte alla guerra civile schierandosi con i “bianchi” che combattevano i bloscevichi, spalleggiati dai paesi europei.
Fu catturata dai nemici nel 1920 e, dopo quattro mesi di prigionia e torture, uccisa come “nemica della classe operaia”, sembra contro il parere stesso di Lenin che poi ne riabilitò la figura.
In collaborazione con Warner Bros.