Searching è la ricerca di un nuovo modo di narrare e mostrare

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Searching arriva sul grande schermo con una premessa non certamente esaltante, ma riesce a sorprendere e convincere grazie ad un esperimento registico che merita una grande attenzione da parte del pubblico, ed un occhio attento degli esperti verso un lavoro particolare ed originalissimo.

Il panorama dei thriller che prendono a piene mani dall’attualità di internet e dei social, sta pian piano saturandosi, colmo di operazioni dal dubbio gusto e dalla penna facile, in grado solo di mettere sul piatto un mondo sporco e cattivo, dal quale nessuno di noi è più capace di estraniarsi.

 

 

Searching, esordio al lungometraggio per il giovanissimo Aneesh Chaganty (classe 1991), al contrario, tenta di sovvertire tutta una serie di stilemi ormai chiari nella mente degli spettatori, trasformando il computer nel vero fulcro della vicenda.

Searching si tramuta in un thriller in tutto e per tutto, seguendo le regole classiche del genere, ma utilizzando una messa in scena originalissima e sfruttata nel migliore dei modi.

Siamo a San Josè, in California. Una interessante e ben ritmata sequenza iniziale ci mette di fronte alla nascita e alla crescita di una bambina, attraverso una serie di filmati registrati nel corso degli anni e catalogati su di un computer dotato di un ormai vetusto Windows XP.

L’equilibrio della famiglia viene spezzato dalla malattia della madre e, a seguito della sua morte, la corsa nel tempo si arresta, presentandoci un rapporto padre-figlia apparentemente idilliaco, ma che mostrerà presto il fianco alla mancanza di comunicazione. Da questo momento in poi Searching si tramuta in un thriller in tutto e per tutto, seguendo le regole classiche del genere, ma utilizzando una messa in scena originalissima e sfruttata nel migliore dei modi.

 

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Già il passaggio del tempo, dai vecchi sistemi operativi “per tutti”, all’ecosistema apple, funziona nell’ottica di demandare gran parte della gestione temporale ai mezzi informatici.

Ciò che però sorprende al punto da lasciare spiazzati, è la quasi totale presenza di scene girate letteralmente “all’interno” del computer”, con tutto ciò che concerne le chiamate su FaceTime, i social media come Facebook e Tumblr e la messaggistica istantanea.

Questo lavoro di regia, è quanto di più articolato e sperimentale il cinema indipendente ci abbia regalato nel tempo recente, riuscendo a giocare con movimenti di macchina virtuali e azzeccati, mettendo sempre in primo piano l’elemento cardine della narrazione, senza limitarsi a mostrarci un desktop inanimato.

Questo elemento, evidentemente importantissimo per il regista, risulta talmente totalizzante, da presentarsi come migliore della gran parte delle scene girate nel “mondo reale”. Inoltre la capacità di dare alla virtualità questo piglio dinamico, è ciò che eleva Searching a vero e proprio gioiello di genere e di messa in scena, se così vogliamo chiamarla.

Senza mai schierarsi troppo nella direzione del “giusto o sbagliato”, Searching ci presenta le problematiche e le risorse che internet ci ha donato, senza per questo dimenticare di mandare un messaggio di speranza

La storia che viene narrata è tanto semplice quanto ben riuscita, richiamando alla mente degli spettatori programmi televisivi di successo come il controverso Catfish. La sparizione che fa da snodo centrale allo svolgimento del racconto, rappresenta il pretesto per entrare ancora più a fondo nelle derive della rete e delle piattaforme che ne regolano in buona sostanza il nostro utilizzo.

Senza mai schierarsi troppo nella direzione del “giusto o sbagliato”, Searching ci presenta in maniera piuttosto verosimile i presupposti, le problematiche e, allo stesso tempo, le risorse che internet ci ha donato, senza per questo dimenticare di mandare un messaggio di speranza verso quella tecnologia che tanto disprezziamo, ma che in fin dei conto ci ha cambiato la vita in meglio.

 

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Ciò che potrebbe sembrare enormemente scontato prende, grazie alla regia di Chaganty, una direzione sempre nuova.

Lo fa cambiando le carte in tavola, dando modo di riflettere sull’etica verso la quale sarebbero spinti i nostri comportamenti, e instillando magnificamente il dubbio verso quegli stessi protagonisti che consideravamo amici e vittime fino ad un momento prima.

Non esiste tregua nella ricerca, ben più se questa può essere condotta in maniera così approfondita restando seduti alla scrivania del proprio appartamento e in più di un’occasione ci si trova a notare dettagli ed elementi insieme al protagonista stesso, senza per questo perdere di vista un insieme di cui lo spesso spettatore è narratore.

Questo perché la libertà di focalizzazione sui dettagli delle varie pagine del computer, permette di mostrare la qualità nella gestione dei testi e dei singoli pop up che, nella versione italiana, risultano addirittura tutti completamente riadattati. Il lavoro svolto in termini tecnici per realizzare un’impresa come questa, è quanto di più sorprendente ci si potesse aspettare, ancor più parlando di un prodotto indipendente e dal budget estremamente contenuto.

 

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Consci evidentemente di essere personaggi secondari al servizio di uno schermo, i due (o tre che dir si voglia) protagonisti della vicenda, si limitano a rendere credibile la vicenda, senza mai esaltarsi, ma lasciando da parte il rischio di prestazioni mediocri.

Allo stesso tempo è difficile elogiare troppo un cast che, a dirla tutta, è probabilmente il settore che più ha risentito della natura stessa del film. Consci evidentemente di essere personaggi secondari al servizio di uno schermo, i due (o tre che dir si voglia) protagonisti della vicenda, si limitano a rendere credibile la vicenda, senza mai esaltarsi, ma lasciando da parte il rischio di prestazioni mediocri.

È così che si presentano un discreto e azzeccato John Cho, padre amorevole ma incapace di elaborare il lutto; una sempre impeccabile Debra Messing, detective di successo e fin troppo zelante nel rapporto con il figlio; e la gradita sorpresa di Michelle La, chiamata ad una prova quasi totalmente dedicata agli sguardi e alla mimica facciale, nei panni della figlia Margot. Aiutati da una sceneggiatura volutamente asciutta nei dialoghi, ma che gioca di eccessi sulla messaggistica e sui contenuti multimediali, Searching sbaglia solo lì dove non osa maggiormente, lasciandoci un finale poco credibile e che sa di buonismo, senza accelerare nelle battute finali, nonostante un colpo di scena più che azzeccato.

Ciò che ci resta è un thriller ben riuscito, in grado di spiazzare lo spettatore (ma soprattutto il cinefilo) con una regia sperimentale e ragionata, tagliando i ponti con la prolissità dei dialoghi e facendo fruttare nel migliore dei modi un budget ridotto, che gli è giustamente valso il premio del pubblico all’ultimo Sundance Film Festival.

 

Searching è nelle sale italiane dal 18 ottobre.

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