Brutta notizia per chi si vuole lanciare nell’universo delle nuove imprese: il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittimo un decreto ministeriale del 2016 che permetteva alle startup innovative di aprire bottega senza dover scomodare un notaio, evitandosi tutta la burocrazia che circonda il settore.

Il DM sanciva come gli atti costitutivi di società a responsabilità limitata potessero essere formalizzate con la semplice firma di un documento digitale, ma la cosa non è andata giù al Consiglio Nazionale del Notariato, il quale ha fatto ricorso, accusando la legge di essere in contrasto con le normative europee.

In sostanza le startup, non venendo controllate preventivamente, dovrebbero comunque fare affidamento a statuti che assumono la forma di atti pubblici e che quindi necessiterebbero per legge della presenza di un notaio che autentichi i carteggi.

Una simile decisione può essere passata sotto ai radar dell’opinione pubblica, ma all’interno dei settori delle nuove industrie la notizia è stata accolta come un metaforico attacco dinamitardo. Si maligna ovviamente che i notai abbiano fatto lobby per non vedere scavalcati i propri interessi, ma più in generale ci si lamenta che l’Italia faccia di tutto per gambizzare le startup.

In effetti è innegabile che tra tasse, burocrazia e lunghi tempi amministrativi, alle persone venga poca voglia di azzardarsi ad avviare nuove e inesplorate attività. Questa pesantezza fiacca soprattutto i giovani i quali, dovendosi inserire in un mondo lavorativo ormai rivoluzionato e stravolto, finiscono in molti casi con il desistere immediatamente dal rischiare in lanciarsi in avventure imprenditoriali dal futuro incerto.

Ecco dunque che emerge il grande attrito tra il retaggio industriale del Bel Paese e il sempre più presente precariato universale. Nonostante l’Italia sia tra le nazioni con il tasso maggiore di cittadini che si sono creati un “autoimpiego”, il sistema fa ancora riferimento a una struttura lavorativa formale che inizia a essere, volenti o nolenti, antiquata.

Sorvolando le facili polemiche, rimane il fatto che la parte “industriosa” del mondo globalizzato si stia lanciando sulla competitività aziendale ad ampio spettro, puntando quasi tutto sul tech e sui servizi. In un simile panorama le startup fanno immancabilmente da carne da cannone: vengono aperte in grande numero e, nonostante molte falliscono miseramente, alcune di queste riescono potenzialmente a consolidare qualcosa di nuovo e interessante.

Vuoi che sia per i timori delle infiltrazioni malavitose, per il retaggio che vede l’imprenditoria “bottegaia” che ci si tramanda da padre in figlio, o per la sua tradizionale tendenza alla cautela, l’Italia non sostiene questa strategia e ora si trova sempre più davanti a un bivio vitale: rivoluzionare il modo in cui percepisce il lavoro o impegnarsi attivamente perché sia lo Stato stesso a colmare le falle di una macchina normativa lenta e machiavellica.

 

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