La recensione di The Human Voice, il cortometraggio di Pedro Almodóvar che ci porta nel mondo di una Tilda Swinton sull’orlo di una crisi nervi (e con una ascia in mano).

Dopo il Leone D’Oro alla Carriera nella Venezia 2019, il regista spagnolo Pedro Almodóvar torna al Festival di Venezia nelle sue vesti classiche, questa volta però con un cortometraggio che omaggia – ancora una volta – la figura femminile nei suoi pregi e nei suoi difetti, portandoci indietro ai vecchi sapori di pellicole come Donne sull’orlo di una crisi di nervi, ma con una musa diversa dal solito.

Tratto dall’opera teatrale di Jean Cocteau, la recensione di The Human Voice parte, infatti, proprio dalla voce protagonista di questo assolo di disperazione, distruzione e rinascita, ovvero quella di Tilda Swinton.

L’attrice, infatti, è praticamente l’unico essere umano a dominare il cortometraggio di 30 minuti del regista spagnolo, tutto recitato in lingua inglese e che possiamo tranquillamente considerare come la prima opera completamente in una lingua diversa da quella madre dell’autore.

 

recensione di The Human Voice

 

Almodóvar ritorna sul grande schermo, sebbene in un formato di durata ridotto, con protagonista una donna fragile, distrutta, appunto sull’orlo di una crisi di nervi

Dopo il doloroso, intimo e personale Dolor y Gloria, Almodóvar ritorna sul grande schermo, sebbene in un formato di durata ridotto, con protagonista una donna fragile, distrutta, appunto sull’orlo di una crisi di nervi. Ed è solo lei l’unico personaggio che si muove nella confusione di una via che cade in pezzi: dal rapporto con il cane, con gli spazi, i vuoti e silenzi da riempiere. Un appartamento all’apparenza perfetto ma che si rivela essere anche questo in divenire, mostrando l’artificiosità del teatro di posa dove è stato girato il cortometraggio.

 

 

 

One Woman Show

Tilda Swinton ci appare come una donna algida, indipendente, sicura. Una di quelle donne che non devono chiedere mai, quasi mascolina ma al tempo stesso elegante. Eppure fin da subito capiamo che qualcosa in lei è profondamente sbagliato, come se ci fosse un dettaglio fuori posto, qualcosa che manca. Un vuoto da colmare che si legge nel suo sguardo spento e in quello del cane che porta al guinzaglio. L’animale stesso è alla disperata ricerca di un odore, di un qualcosa o, forse, un qualcuno.

La realtà ci appare ben chiara quando la sicurezza dell’interno si tramuta nel vuoto di frustrazione e solitudine rappresentato dalle mura domestiche della sua abitazione.

Il gusto contemporaneo di Almodóvar si legge nei fini dettagli dell’arredamento che non fanno altro che sottolineare ancora di più lo spasmodico bisogno di ostentare una perfezione esterna a colmare l’imperfezione interna di un dolore che non lascia più dubbi. Pochi secondi ancora, infatti, bastano per comprendere che la nostra protagonista è una donna abbandonata, una donna sola, addolorata dalla fine di una relazione che no, non ancora superato.

 

recensione di The Human Voice

 

Una donna in attesa, quasi in stasi. Una donna completamente differente da quella che immaginavano dalle prime immagini: dipendente da un uomo, insicura e fragile. Inizia così il declino visivo di questo personaggio ammantato di abiti firmati, profumi costosi e vini pregiati. Cianfrusaglie accatastate tra loro solo per auto-convincersi di stare bene, di potercela fare.

Una donna in attesa, quasi in stasi.

La morbosità della caratterizzazione dei tipici personaggi del regista spagnolo si denota anche nel modo spasmodico, ossessivo, frenetico in cui il personaggio riempie gli spazi delineati di un appartamento finto. Finto come la sua esistenza, la sua carriera sull’orlo del tramonto perché ormai troppo grande, troppo matura, troppo vecchia.

Il vero incidente scatenante, o meglio miccia che aziona il motore portante di The Human Voice è l’arrivo di una chiamata che ha il poter di far completamente crollare davanti ai nostri occhi la protagonista; ma, in fondo, la Fenice prima di poter risorgere deve morire, deve bruciare tra le fiamme.

 

recensione di The Human Voice

 

Tilda è la fenice di Pedro Almodóvar. Ammantata dalle tinte rosse dei suoi vestiti, il riflesso aranciato che rende ancora più statuaria la sua bellezza androgina. Si circonda di fiamme pure lei prima di liberarsi dalle catene imposte. Prima di rinascere, ritrovarsi, dipendere unicamente da se stessa come spesso accade alle donne di Almodóvar.

Parte quindi un lungo monologo, libero e frenetico come un flusso di coscienza, mascherato da quella che ci appare essere una telefonata. Un vero e proprio dramma a tappe, consumato con ingordigia e ferocia, passando da uno status emotivo all’altro.

L’ostentazione di perfezione e liberazione che ancora una volta ritorna. Poi la commiserazione e disperata ricerca di attenzione nei confronti dell’interlocutore dall’altra parte. Le classiche fasi del “Sto bene, sto benissimo”, passando per il “Si, forse oggi non è la mia giornata” fino ad arrivare al classico “No, non sto bene”.

Nei venti minuti successivi di questo fiume in piena, perfettamente recitato da una Swinton perfetta e magistrale, molto differente dai “soliti” personaggi che forse evidenziano troppo punti di rottura, ambiguità e stranezza, la sua voce non perde un colpo.

 

recensione di The Human Voice

 

Si abbassa e si alza, urla e si dispera, poi si calma e torna a sprofondare. Ci prova, ci prova disperatamente a restare a galla, usando metafore, simbolismi per parlare della sua condizione, del suo cuore ferito ma senza ammettere di essere lei; ci prova a non cedere al dolore ma poi esplode. Alla fine esplode in una potenza violenta che travolge tanto lei quanto lo spettatore. L’ammissione la libera dal peso di quel sentimento. Si, perché non c’è nulla di male nello stare male, nel soffrire per amore. Ci rende vivi, ci fa sentire vivi.

 

 

 

La rinascita della Fenice

Da un personaggio remissivo e passivo, la Swinton diviene un personaggio vivo e attivo, arrabbiata ed animalesca quasi come una pantera. Si lecca i baffi, è stanca di pregare e di piegarsi a regole che non comprende. È tempo di reagire. Ed è proprio nel momento più basso della sua caduta, di questo instancabile flusso di coscienza che la porta ad avere, finalmente, la tanto agognata presa di conoscenza.

 

 

Un monologo straordinario, perfettamente rappresentato, interessante nell’uso del teatro di posa, nel modo di svelare allo spettatore l’artificio della camera da presa, ma anche nella direzione e rappresentazione della sua protagonista.

Ossessivo, morboso, violento e al tempo stesso soddisfacente nel finale, nel sorrisetto compiaciuto di una donna che ha finalmente trovato se stessa. Libera e indipendente da qualsiasi catena.

In conclusione della recensione di The Human Voice l’unico vero difetto che possiamo trovare è la durata di un’opera che avremmo voluto vedere in un’estensione maggiore; ma al tempo stesso la forza di questo corto è proprio nella sua durata: efficace, precisa e dritta al punto.