Pinocchio di Guillermo del Toro è il compimento di un percorso iniziato 20 anni fa

Pinocchio-di-Guillermo-del-Toro

La prima cosa che viene da pensare dopo aver visto Pinocchio di Guillermo del Toro (e non semplicemente “Pinocchio”, attenzione), su Netflix dal 9 dicembre 2022, è una citazione di Stephen King, che guarda caso è anche la preferita del regista messicano: “Tutte le canzoni sono state già cantate, bisogna quindi raccontare una vecchia storia con un nuova voce.

La seconda è perché non l’ha fatta un italiano una trasposizione con questo tipo di approccio, mannaggia a noi, ma andiamo avanti.

Ora, ogni autore cinematografico mette ovviamente nel suo lavoro i suoi vissuti e le sue passioni artistiche. Alcuni lo fanno di più, alcuni di meno; in alcuni è più facilmente riscontrabile e in altri meno. Ci sono poi dei nomi per i quali non sarebbe possibile dar vita ad un percorso professionale se non fosse figlio primogenito dei propri “feticismi”.

Del Toro è un esempio perfetto di ciò.

Parliamo di un uomo che possiede uno studio, The Bleak House, accanto alla casa dove vive, in cui tiene un vero e proprio museo per amanti di cinema, letteratura e collezionismo (c’è una statua di Lovecraft a grandezza naturale là dentro) e che per continuare il suo processo di familiarizzazione con i mostri se li porta con sé fin dalla tenera età, in cui arrivò alla logica decisione di stringere un patto con loro in modo da poter andare in pace in bagno.

Guillermo Del Toro

Non deve sorprendere dunque se il suo Pinocchio sia un’operazione di quasi appropriazione aggressiva del testo, di cui vengono manipolati non solo i fatti narrati, ma anche alcune modalità di costruzione del senso stesso della storia origine, pur tenendo fede al quesito di fondo che ha mosso l’opera di Collodi.

Quella di del Toro è infatti una grandissima prova di rielaborazione in chiave contemporanea di un’opera che ha in sé dei crismi così primordiali da essere ancora ricevibili.

Di più, è probabilmente un secondo coronamento di un percorso cinematografico dopo La forma dell’acqua, laddove il film del 2017 è stato l’apice del suo cammino hollywoodiano, mentre questo è quello delle sue ossessioni più profonde, anzi, meglio, nel processo di esorcizzazione delle sue ossessioni più profonde. Nato ad inizio millennio con un film piccolino e prodotto, tra gli, dai fratelli Almodovar.

C’è infatti più di un indizio che indica come potremmo essere di fronte al terzo atto spirituale di quella trilogia rimasta incompiuta nonostante le intenzioni (c’era nel progetto l’idea di una pellicola conclusiva intitolata 3993 in riferimento agli anni 1939 e 1993, cruciali per la vicenda).

Pinocchio è, dopo tutto, notoriamente una storia figlia di una volontà ossessiva. Lo è stato per Kubrick (un altro degli idoli di del Toro), lo è stato per Spielberg e lo è stato anche per Garrone.

 

La duologia

La Spina del Diavolo

La spina del diavolo, anno 2001, primo capitolo, è una storia di formazione sovrannaturale ambientata in un orfanotrofio spagnolo gestito da dei repubblicani sostenitori della ribellione, rintanati (è il caso di dirlo) nella struttura per sfuggire alle violenze della guerra. Un particolare: nel cortile della struttura c’è, come fosse un altare alla morte, una bomba inesplosa sganciata durante una terribile notte, segnata comunque da una morte. Uno dei bambini, Santi, che, nonostante il suo status, è costretto a rimanere lì, come gli altri, che, a quanto pare, sono ancora vivi. Due condizioni che del Toro si diverte a far dialogare, ponendo continuamente allo spettatore il quesito su cosa le distingua, in un contesto del genere.

Che cos’è un fantasma?” è, non a caso, la prima line della pellicola, “Un evento terribile condannato a ripetersi all’infinito, forse solo un istante di dolore, qualcosa di morto che sembra ancora vivo, un sentimento sospeso nel tempo come una fotografia sfuocata, come un insetto intrappolato nell’ambra. Un fantasma, questo sono io.

Il labirinto del fauno, anno 2006 e capitolo due, è una storia di formazione sovrannaturale ambientata in un avamposto spagnolo gestito dai fedeli di Franco dove una bambina, Ofelia, accompagna la madre incinta e malata. Lì la giovane viene convocata da un Fauno che la indica come la reincarnazione della principessa del mondo sotterraneo dove potrà tornare a vivere per sempre se supererà tre prove. Nel suo percorso per la vita eterna in un altro mondo (vi ricorda qualcosa?) la ragazza si ritrova a fare i conti con un lutto enorme e con le violenza della guerra, riuscendo a raggiungere la meta solo tramite le ribellione alle regole. Quelle del Fauno, suo arruolatore, forza della Natura ed esponente del mondo fantastico, ma anche quelle del regno dei comuni mortali e della morte stessa.

Obbedire senza pensare così istintivamente, lo fa solo la gente come lei, capitano!”, dice il ribelle di fronte al tiranno dopo aver ucciso il suo sodale, per liberarlo.

Il labirinto del Fauno

Due capitoli che, nonostante la loro bellezza e i significatività, riescono solo a flirtare con l’idea di elaborazione del concetto della morte o con la sua accettazione, fermandosi su di un livello di riflessione relativo al come andarle incontro rimanendo fedeli a se stessi, aggrappati comunque all’idea di matrice cattolica (seppur edulcorata)  di un premio finale. La vita eterna come principessa di un regno incantato o la pace eterna attraverso la risoluzione delle proprie questioni terrene.

Degli elementi che facevano comodo ai racconti perché, nonostante i drammi e gli orrori, li rendevano delle favole, salvandole così da un’oscurità più stringente.

Potremmo quasi abbozzare un uso del fantastico come forma di difesa del cineasta messicano, forse ancora troppo angosciato per adoperarla in altro modo.

Pinocchio va oltre.

La trilogia

Pinocchio è una storia di formazione sovrannaturale che inizia con un guanto di sfida lanciato alla morte e un rifiuto categorico dell’elaborazione del lutto, quando un padre rimasto senza figlio a causa di una bomba, stavolta esplosa, crea un dolcissimo abominio di legno (come in Frankestein, un altro dei racconti adorati da del Toro). Sullo sfondo un’altra guerra, anzi due, raccontate, però, nel loro essere conflitto interno al Paese, come da costume. Anche il protagonista è ancora una volta un fanciullo ribelle, ma non nel senso collodiano, secondo il quale il suo foco deve essere estinto.

Pinocchio è già incredibilmente maturo e consapevole, non nel senso che conosce già le cose (non sà nulla in realtà), ma perché è all’altezza dell’amore che prova per il padre, Geppetto, il quale invece fatica a vedere suo figlio in lui. Un burattino che non appartiene a questo mondo, ma che ci cammina perché nato con questo scopo, causa di un atto di ribellione di un nuovo Fauno, ma ci cammina da essere incompleto.

Il burattino non può essere un bambino vero perché non può morire.

In un racconto che assume la forma di un inno all’arte come modalità di opposizione ad un sistema ingiusto e come spazio di riappropriazione della propria personalità, Pinocchio insegna ad andare contro le regole che vogliono costringerci a qualcosa che non sentiamo di essere, obbligandoci a indossare una divisa o a salutare in un determinato modo, e che il premio è proprio quello, riuscirci. Non la vita eterna, né tanto meno la pace eterna (qui c’è un crocifisso, che, pur avendo lo stesso valore di un burattino fatto di legno odiato da tutti, è, incredibilmente, da tutti venerato). Il premio è riuscire a scegliere di essere se stessi e, nel caso si abbia di queste inclinazioni, di essere vivi, pure.

Pinocchio sceglie di rinunciare a tutto per essere un figlio perché Geppetto ha deciso di essere suo padre.

Oltre l’accettazione della fine, il cineasta messicano ci dice come la morte è l’unico motivo per cui siamo vivi e che quindi il suo valore è imprescindibile (diventa quasi augurabile, in un certo senso). In questa visione il regista ingloba anche il punto di vista adulto, cosa mai fatta prima, e, così, nel momento in cui il fantastico non è più una forma di difesa, chiude il cerchio, facendo la sua piccola rivoluzione.

Il terzo atto della trilogia, anno 2022, un racconto di “padri imperfetti e di figli imperfetti” in uno stop motion pazzesco perché “L’animazione salverà il cinema.” del Toro forse doveva arrivare a dire anche questo.

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