Alla 14ª edizione della Festa del Cinema di Roma abbiamo visto 438 Days, film di produzione svedese incentrato su eventi reali del 2011 che hanno coinvolto due giornalisti nel territorio etiope. Quanto diamo per scontata la libertà di stampa e quanto saremmo disposti a rischiare per preservarla?
Come ogni Festival degno di questo nome, la Festa del Cinema di Roma regala la possibilità di vedere produzioni altrimenti eccessivamente di nicchia, quasi impossibili da distribuire in territorio nostrano, vuoi per disinteresse del pubblico, vuoi per la dimensione artistica e geografica di tali lungometraggi.
Tra questi (ma saremmo felicissimi nell’essere smentiti) figura 438 Days, un dramma/documentario incentrato sulla storia vera di Martin Schibbye e Johan Persson (già raccolta in un libro del 2013), due giornalisti svedesi – l’ultimo è un fotografo, in realtà – ritrovatisi nel braccio della prigionia del governo etiope per ben – appunto – 438 giorni.
Con la forza esclusiva del reale, in poco più di un paio d’ore, il film di Jesper Ganslandt proietta negli occhi dello spettatore senza troppi giri di parole la sofferenza di interi popoli, privati di una voce e riflessi nell’atto in qualche modo ordinariamente eroico di una coppia di reporter decisi a compiere il proprio lavoro.
Senza coraggio, nessuna gloria. Il diritto all’informare e all’informazione, indipendentemente dalle possibili conseguenze e dai plausibili rischi.
La storia di Martin Schibbye e Johan Persson, e del loro personale calvario, è un intreccio di geopolitica ed interessi di parte, che tuttavia attraversa e riassume le questioni più ampie e problematiche alla base della contemporaneità.
2011, ultimi giorni di giugno. Martin Schibbye (Gustaf Skarsgård) e Johan Persson (Matias Varela, Jorge Salcedo di Narcos) oltrepassano illegalmente il confine tra Somalia ed Etiopia per raggiungere la martoriata regione dell’Ogaden, sconvolta da un conflitto per il petrolio che ne ha spezzato ogni equilibrio. Convinti di un legame di potere labirintico esteso fino addirittura allo stesso governo svedese, i due finiscono per essere catturati dall’esercito etiope, che ne vuole fare un caso esemplare, vittime di false esecuzioni, condizionamenti e soprusi psicologici destinati a segnare l’inizio di un anno di puro terrore, a metà tra salvezza ed oblio.
Se nelle battute iniziali 438 Days indugia particolarmente nel raccontare l’antefatto alle spalle dell’inchiesta dei due reporter, già nella prima mezz’ora si ha una certa percezione di angoscia ed ansia, come un timer su un blocco di dinamite pronto ad esplodere.
Un inseguimento nella notte, con le autorità distanti e luminose come spettri, la continua tensione dietro ogni tempo morto, il perenne giocare con ciò che accade al di fuori del campo visivo della macchina da presa; quello che Jesper Ganslandt rappresenta per mezzo delle immagini è una crescita di ritmo esemplare, che – da sola – rappresenta metà del valore del film.
Scoppiato il caso ed intrappolati i due per terrorismo nella tela giuridica corrotta dell’Etiopia e del suo regime, l’attenzione di 438 Days si sposta soprattutto sul dramma umano di esuli distanti dai propri affetti e rafforzati esclusivamente dal rapporto reciproco. In questo, nel rendere la complicità dei due nello squallido contesto della prigione (lager, diremmo) di Kality ad Addis Abeba, le interpretazioni di Skarsgård e Varela assumono un’importanza centrale, sottolineata in particolar modo dal primo, qui davvero in grado di trasmettere una grande prova, impreziosita da un paio di momenti che lo vedono unico protagonista.
Certo, la scelta di mantenere le lingue originali qui risulta essenziale, e la transizione fluida tra l’una e l’altra contribuisce senza dubbio a delineare l’impronta documentaristica della tecnica del film. Impronta distinta spesso pure con un approccio artificialmente amatoriale, a facilitare l’immedesimazione con la situazione precaria di Schibbye e Persson, prima avventuratisi con guerriglieri ribelli nel deserto etiope, poi nascosti nel gioco di potere diplomatico tra la Svezia ed il Paese africano.
Molto comunque è a servizio di una notevole riflessione sul giornalismo e sull’essenziale diritto all’informazione, su cui la trasposizione su schermo fonda la sua stessa esistenza e significato, come si evince dalla ricchezza dello splendido monologo di Schibbye e dal successivo momento di rottura, di compromesso, la dolorosa rinuncia alla coerenza con i propri valori.
438 Days è dunque un lungometraggio che riesce tanto nel catturare l’attenzione quanto nel sensibilizzare rispetto a temi spesso trascurati.
Quante storie rimaste senza un epilogo per una singola a lieto fine; mai dimenticare il quotidiano sacrificio dietro l’impegno per una informazione libera.