Alcuni lo amano, altri lo odiano. A qualcuno ha cambiato la vita, per qualcun altro è solo uno molto furbo dalla parlantina veloce, ma Steve Jobs, come lo si vuole guardare, resta pur sempre un uomo che ha fatto, fa e farà sempre parlare di sé.
Il folle premio Oscar Danny Boyle (Trainspotting, 28 Days Later, The Millionaire), assieme ad un grandissimo nome della sceneggiatura come Aaron Sorkin (The Social Network), firma il primo lungometraggio con produzione hollywoodiana su uno degli uomini più famosi del mondo: Steve Jobs.
Ci aveva già provato nel 2013 Joshua Micheal Stern, appena un paio d’anni dopo la morte di Steve Jobs, con il film indipendente biografico jOBS. Stern decide di usare come protagonista il belloccio Ashton Kutcher che, sebbene sia di una somiglianza quasi impressionante, in fattor interpretazione è decisamente più carente.
Boyle punta molto più in alto, iniziando da un troppo rigido Micheal Fassbender nei panni del pioniere della Apple, proseguendo con il premio Oscar Kate Winslet, vera figura di spicco nel film, per la parte di Joanna Hoffman, l’ex direttrice marketing della Macintosh, e ancora Seth Rogen (per la prima volta in una parte seria) per la parte del co-fondatore Apple, Steve Wozniak, e Jeff Daniels per i panni dell’ex CEO della Apple, John Sculley.
Un personaggio piuttosto emblematico, elevato più di una volta a vero e proprio messia dell’informatica, ma sia Boyle che Sorkin vanno ben oltre tutto questo.
Steve Jobs non vuole essere un vero e proprio biopic, anche perché a modo suo ci ha già pensato Stern a questo. Sorkin, partendo direttamente dal libro del giornalista Walter Isaacson, traccia quello che lui stesso ama definire “un ritratto impressionista” di Steve Jobs, e su questo Danny Boyle gli va subito dietro, aggiungendo il proprio tocco personale con un montaggio molto dinamico e quel ritmo sempre un po’ al limite tra il visionario e lo psichedelico, tipico della sua filmografia.
Steve Jobs è un film sicuramente molto originale. Un film che differisce da tutti i film biografici proprio perché non è biografico, o meglio non è un biopic convenzionale.
Al tempo stesso è un film che, per forza di cose, inserisce un fattore molto romanzato alla storia, non proprio veritiero, e gioca un po’ troppo sulla figura di Jobs “cattivo”, per poter accrescere il sentimento finale più positivo.
L’immagine che avevo di lui è strettamente collegata ai suoi prodotti. Non è il mio eroe, ma nel bene o nel male ha cambiato il mondo.
Sorkin e Boyle partono, continuano e finiscono proprio con questo, associando la figura di Steve Jobs direttamente con i suoi prodotti.
Come? Dividendo la pellicola in tre parti, simili e differenti allo stesso tempo, che rappresentano i lanci di tre prodotti che hanno avuto una valenza significativa sia per Jobs che per il mondo tecnologico.
Boyle, in particolar modo, gioca attraverso la composizione dell’immagine, su questa divisione, avvicinando il film alla storia di cui sta parlando fin dalla parte tecnica, e rendendo tutto quasi come un reality on stage del dietro le quinte dei lanci di Steve Jobs.
1984
35mm. Auditorium Flint di San Francisco. Lancio del Macintosh. Uno Steve Jobs molto giovane ma già odiosamente altezzoso e sicuro di sé, maniaco del controllo e dispotico. L’unica a tenergli testa, o quasi, è Johanna. Il primo a subire la sua furia è Andy Hertzfeld (Michael Stuhlbarg), uno dei membri della squadra di sviluppo del primo Macintosh, il quale non riesce più a far dire “Hello” al computer, a soli 40 minuti dall’inizio presentazioni. Steve non vuole sentire ragioni. Quel computer deve dire “ciao”. Perché?
Nessuno sa cos’è o a cosa serve ma lo vorranno tutti.
Questo è il lungo prologo della pellicola. Il primo atto. L’inizio di tutto. I punti principali, dal passato al presente, della vita di Jobs vengono raccontati allo spettatore man mano che i personaggi entrano in scena.
Una costruzione quasi teatrale, ma che sfrutta magistralmente le possibilità del cinema. Correlativo oggettivo assolutamente predominante con i flashback, soprattutto con la prima apparizione di Woz (Steve Wozniak), che prega Steve di ringrazia i membri di Apple II coloro senza i quali non sarebbe arrivato fin lì. Ma Steve Jobs non è uno che ha bisogno di ringraziare nessuno. Quello che fa, secondo lui, lo fa e lo realizza perché ce la fa da solo.
A far salire la pressione è l’ex fidanzata di Jobs e la figlia Lisa, bambina che Jobs non riconosce come figlia. Eppure fin dall’inizio capiamo che Lisa ha una forte influenza sul padre. Il suo modo di fare, il suo modo di parlare, la sua intelligenza, sono uno specchio per Jobs. Qualcosa che vorrebbe ma non può guardare.
Lo sguardo di Johanna è sempre vigile, voce di quella coscienza che Steve ha messo da parte da molto tempo, in favore del successo e dell’ambizione. Non sono i soldi l’interesse di Steve Jobs, ma cambiare realmente il mondo. Rendere la vita più semplice. Alzarsi come dio del comfort e dell’eleganza. E la pellicola si muove proprio mantenendo questo stile molto minimale, fatto da molti dialoghi, inquadrature molto lunghe e montaggio secco.
John Sculley chiude il 1984, pochi secondi prima che Steve salga su quel palco.
1988
Ancora Steve e Johanna, ma niente Apple. 16:9, Opera di San Francisco, lancio di NeXT, un computer destinato al disastro, mascherati da uno Steve consapevole del fallimento ma sempre abile con le parole.
Ricomincia lo schema precedente, e che si rivedrà anche in quello successivo finendo per diventare talmente tanto schematico da risultare poco credibile e irreale: Lisa, Woz, Andy e Scully. Un continuo di alti e bassi per mettere alla prova la pazienza e i nervi di Steve, sempre pochi minuti prima di un lancio.
Boyle sottolinea attraverso questi approcci i difetti e limiti di Jobs. Soprattutto con Woz vengono messe in evidenza le abissali differenze da poliziotto cattivo e poliziotto buono. Sembra che per Steve ci sia solo il futuro e l’innovazione, mentre Woz cerca sempre di riportarlo alla realtà e fargli aprire gli occhi sulle persone che ha intorno, sui legami affettivi e sul non dover per forza “giocare” a essere cattivi.
Si può anche avere talento ed essere una persona buona.
I dialoghi sono sempre caratterizzati da una lunghezza infinita, in perfetto stile Sorkin alla The Social Network di David Fincher, fortunatamente ben ritmati e alleggeriti dalla colonna sonora, curata da Daniel Pemberton (The Counselor, The Man from U.N.C.L.E.), che anticipa e accompagna i momenti di cambiamento del periodo storico ma anche del personaggio.
1998
Jeans e iconico maglioncino nero a collo alto. Lancio iMac. L’Apple non vede più avversarsi di fronte a sé e Steve Jobs è l’uomo del secolo. Innovatore. Inventore. Rivoluzionario. Eppure, nonostante le gratifiche, continuano a restare i soliti difetti.
Un nuovo dietro le quinte e una nuova “messa alla prova” per Jobs. Stavolta però lo schema di sempre mette davvero Steve alle strette, di fronte a tutti i suoi limiti. E in questo atto finale, Steve Jobs si renderà conto di come il suo mondo più intimo si è dovuto adattare alla sua figura irragionevole, a volte dovendo agire alle sue spalle, altre volte dovendo rinunciare a una grossa fetta di amicizia.
In questa terza parte la figura di Woz e Lisa sono centrali.
Da una parte l’amico di una vita, quello che in un modo o nell’altro gli è sempre stato accanto, quello che potremmo definire la parte migliore di Steve; dall’altra parte lo sbaglio più grande: una figlia che non ha mai saputo trattare come tale.
La maschera di Jobs inizia a sgretolarsi, fino a cadere nell’ultimo secondo che precede la sua entrata su quel palco gremito di persone entusiaste dell’ultima fatica firmata Apple.
Non solo riconosce e ammette i suoi limiti, ma per la prima volta riesce a guardare sua figlia non per quel terribile fantasma che rappresenta la sua stessa infanzia, il suo non essere stato accettato dalla sua prima famiglia adottiva, ma per quello che è davvero.
Lisa diventa la chiave di volta per la vita di Steve, ispirazione per i suoi progetti futuri. La vena più sentimentale esplode in questi ultimi minuti. L’uomo maniaco del controllo è disposto a scendere a compromessi, disposto a iniziare perfino più tardi quella presentazione, pur di non lasciare andare sua figlia.
Sviolinata finale dei Coldplay con uno sorriso smagliante di Jobs avvolto dai riflettori, si conclude il film di Danny Boyle che però lascia molto perplessi.
Un film ben confezionato, tecnicamente perfetto, ma che raschia solo sulla superficie.
Un film costellato di alternate, composto da un montaggio dinamico e da un uso sapiente dei colori, delle luci che rispecchiano sempre un po’ l’animo dei personaggi, ma al tempo stesso superficiale e poco accattivante.
Danny Boyle è un regista che lascia sempre il segno con i suoi film, e sebbene Steve Jobs spicchi indubbiamente per la tecnica, al tempo stesso lascia un senso di insoddisfazione e vuoto. Non va oltre. Non osa.
Un pellicola sicuramente da vedere, ben fatta, ma che muore sul nascere, restando piatta e priva di un fattore suggestivo ed emozionale maggiore, che di certo non si recupera semplicemente con una scena stucchevole e falsissima tra padre e figlia.
Ciò che però rimane, al di fuori del film, è l’importanza della figura di Jobs. Nel bene o nel male, proprio come dice Boyle, Steve Jobs fa parte di quella categoria di grandi uomini che ha cambiato il mondo.
Possono essere buoni, presuntosi, cattivi, disumani, ingenui, non importa. Ciò che importa è che ci siano, perché è questo tipo di insensata follia, genio e furbizia a far andare avanti il processo di innovazione. Che dite?
Steve Jobs vi aspetta al cinema a partire dal 21 Gennaio!