Hideo Kojima farà parte della giuria internazionale del Festival del Cinema di Venezia (sezione VR), arrivato alla sua edizione numero 77 e che si terrà nella Laguna dal 2 al 12 settembre.
Ha fatto subito parlare di sé, Hideo Kojima. Inutile provare ad appendersi a capillari tecnicismi sul suo ruolo, che sarà per l’esattezza quella di giurato nella categoria Venice Virtual Reality, in compagnia di Celine Tricart – regista vincitrice dell’edizione 2019 del premio – e di Asif Kapadia – firma dei documentari su Ayrton Senna e Diego Maradona: la giuria premierà la migliore opera in VR immersiva, la miglior esperienza in VR immersiva e la miglior storie in VR immersiva.
Accanto ai due registi si è deciso di inserire anche Hideo Kojima, che, sulla carta e su quelle categorizzazioni a compartimenti stagni che in ambito artistico lasciano il tempo che trovano, con il cinema non ha mai avuto a che fare. Si tratta infatti di un riconoscimento fondamentale non solo per l’industria videoludica, che si avvicina sempre di più a quella intersemiotica tanto perseguita negli ultimi anni, ma anche per lo stesso Kojima, un artista visionario che ha saputo intersecare con ottimi risultati il fascino del cinema all’interattività del videogioco.
La passione per il cinema
Nato nel 1963 a Tokyo, Kojima ha sempre vissuto il suo ruolo all’interno del mercato videoludico in maniera trasversale, senza permettere alla critica e ai suoi colleghi di trovargli una definizione specifica che lo collocasse nella categoria dei game design o dei programmatori: Kojima è un autore, un artista che sin da bambino ha saputo sviluppare una grandissima passione per il cinema, convertito non appena possibile in videogioco, andando a sfondare il limite dell’interattività assente nella settima arte.
Gli annali raccontano di una sua grande passione per le riprese amatoriali, tutte rigorosamente in Video8, come richiesto da quelli che erano gli anni Ottanta. Non è un caso che la sua prima grande idea, Metal Gear, sia figlia di tanti riferimenti a La grande fuga e a Terminator, emblemi di quegli anni inaugurati da Stanley Kubrik con il suo Shining, così come il successivo Snatcher, l’avventura grafica cyberpunk firmata dal game designer giapponese, attingeva molto da Blade Runner, oltre che alla guerra fredda.
Andando a scavare in quelle che sono le influenze che si possono notare nei videogiochi di Kojima, partendo proprio dalla saga di Metal Gear e arrivando anche al più recente Death Stranding, è impossibile non percepire i maggiori capolavori degli anni Ottanta, periodo di maggior maturazione e sviluppo del pensiero dell’autore giapponese: Akira, ma anche La cosa di John Carpenter, arrivando al nome di Solid Snake, chiaro riferimento a Snake Plissken di Fuga da New York, o anche la stessa bandana del protagonista di Metal Gear, palese riferimento a Il cacciatore di Michael Cimino, uno dei più celebri film di guerra, pur sposandosi meglio con il genere drammatico.
L’arte di Kojima passa da numerose influenze, che sono state sapientemente riproposte in tutti i suoi videogiochi, tra tributi a Roland Emmerich riposti nelle sapienti mani di Hal “Otacon” Emmerich, lo scienziato che diventa fedele spalla di Snake da metà di Metal Gear Solid in avanti, e le palesi vicinanze tra Psycho Mantis, uno degli antagonisti più affascinanti della rosa di Kojima, con Fury di Brian De Palma.
Potremmo continuare a citarne diversi, fino ad arrivare a toccare anche il mondo degli anime, ai quali Kojima ha saputo attingere in maniera altrettanto saggia toccando le corde di Neon Genesis Evangelion per il suo Zone of the Enders, oltre che ad alcuni eventi momenti dello stesso Metal Gear, che pone al centro della serie la presenza di due enormi robot chiamati REX e RAY.
Tra riferimenti e intuizioni narrative
Ragionando sempre con una chiave molto narrativa, puntando all’emozione dello storytelling, Hideo Kojima ha saputo potenziare e massificare l’interesse nei confronti di una tipologia di videogioco che da semplice interazione è diventata immersione in una storia sentita, capace di affliggere e di coinvolgere. Perché ritrovarsi nei panni del Solid Snake di turno e ritrovarsi a vivere l’esperienza che parte da Shadow Moses e ci conduce fino a scoprire l’intero progetto degli enfant terrible ci fa sentire come se ci stessimo inerpicando in una saga cinematografica, con l’aggiunta di poter compiere noi i movimenti del protagonista.
Se quindi in Death Stranding Kojima si è potuto finalmente fare felice, trasformando quello che doveva essere a tutti gli effetti un videogioco in un’esperienza narrativa dal sapore cinematografico, il coinvolgimento di Mads Mikkelsen, Lea Seydoux, Guillermo del Toro e Norman Reedus gli ha permesso di compiere quel passo in avanti che da una generazione intera il videogioco provava a compiere con il mocap. È a tal proposito che una delle sue dichiarazioni meglio riesce a vestire il messaggio che Kojima ha sempre cercato di veicolare al pubblico e ai suoi colleghi.
L’aggiunta del sapore che riesce a trasmettere la narrazione, permette di far provare dolore o felicità a chi ne fruisce. Se creo più trame e consento all’utente di selezionare quale storia seguire questo potrebbe sacrificare la profonda emozione che l’utente potrebbe provare.
Quando invece si ha una trama concreta e ti ritrovi a percorrerla come un binario, riesci a percepire il destino di quella storia, che ti coinvolge molto di più. Renderlo interattivo, poi, renderà il giocatore molto probabilmente più commosso e coinvolto alla fine del gioco.
Da questi punti bisogna partire per arrivare alla chiave di innovazione del metodo narrativo interattivo.
Il cerchio che si chiude
La dichiarazione risale al 2008, l’anno di uscita di Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots, uno dei momenti di maggior pathos emotivo dell’intera saga che vive non solo della forza di Solid Snake, ma anche chi lo ha preceduto in quell’atipico albero genealogico messo in piedi proprio da Kojima. Lo stesso Metal Gear, negli anni, ha saputo dimostrare la raffinatezza e la sensibilità dell’autore giapponese non solo verso determinati temi, ma proprio nei confronti della tecnica narrativa, costruendo, nell’arco due decenni, una vicenda in grado di chiudere un cerchio iniziato in tempi non sospetti.
Una finezza stilistica che, per quanto la conclusione della saga sia stata ritenuta indegna dalla critica e inficiata da numerosi problemi che con la componente artistica non hanno niente da condividere, non può far altro che farci apprezzare la volontà e la capacità di Hideo Kojima come narratore. È qui che il videogioco diventa un mezzo e non un fine, perché dinanzi all’intenzione di sperimentare e di esaltare dei metodi innovativi di interazione, scende in campo l’innovazione e la voglia di spingersi oltre l’ostacolo dell’autore che si serve del medium più progressista a disposizione sul mercato.
Oggi Hideo Kojima non ha più paura di fare ciò che ritiene giusto fare: il suo essere arrivato ad avere una firma riconosciuta e apprezzata in tutto il mondo, travalicando i paletti imposti dai detrattori che nulla possono dinanzi a un estro del genere, gli permette di dedicarsi a capofitto nei propri progetti.
Oggi Hideo Kojima non ha più paura di fare ciò che ritiene giusto fare
Sebbene, quindi, Death Stranding non abbia rispettato le aspettative di Sony, per quanto riguarda le vendite soprattutto, Kojima Productions inizierà a preoccuparsi anche di cinema. Un passaggio naturale, soprattutto nel momento in cui il suo ultimo videogioco si configura più facilmente come un’esperienza che come un vero e proprio prodotto di interazione videoludica.
Se sai fare qualcosa bene, allora puoi fare qualsiasi cosa bene.
Ha dichiarato lo stesso Kojima lo scorso anno, anticipando che la sua visione lo porta a rendersi conto di come film, serie tv e videogiochi stiano competendo per la medesima fetta di mercato, contendendosi un futuro fatto di intrattenimento basato sullo sviluppo tecnologico e su format sempre più innovativi, dall’on demand allo streaming.
Passando ovviamente anche per la VR, una tecnologia che ci meraviglia Kojima non abbia ancora sperimentato o testato, perché da un visionario come lui è lecito aspettarsi qualcosa del genere. Intanto il premio alla sua carriera è arrivato, si chiama Venezia77 e potrebbe essere un precursore del prossimo capitolo della storia di uno degli autori più eclettici e apprezzati del panorama dell’intrattenimento contemporaneo. Perché, d’altronde, la saga di Metal Gear, a oggi, resta uno dei più grandi capolavori della storia del videogioco, tanto a livello narrativo quanto a livello contenutistico.