Correva l’anno 1998, i fratelli Joel e Ethan Coen erano sulla cresta dell’onda dopo il successo di pubblico e critica di Fargo.
Dopo la “prova generale” di Barton Fink, il loro neo-noir beffardo e gelido si era conquistato, solo agli Oscar, sette nomination e due statuette, tra cui quella per la migliore sceneggiatura.
I due erano i nuovi sofisticati re Mida di Hollywood. Avrebbero potuto fare quello che volevano… e lo fecero.
Il Grande Lebowski è oggi un oggetto di culto, una fonte infinita di citazioni, un’opera che le ripetute visioni non scalfiscono.
Ha consegnato alla storia alcuni dei dialoghi più assurdi e memorabili e alcuni dei personaggi più esilaranti della storia del cinema contemporaneo.
Quando uscì nelle sale, vent’anni fa esatti dal momento in cui scrivo, il film non fu però così benevolmente accolto.
Come tutte le opere capitali della storia, si rivelò abbastanza divisivo.
Incassò pure poco, coprendo a malapena il budget di 15 milioni di dollari, per poi rifarsi negli anni a venire con l’home video.
Nel 2014, Il Grande Lebowski è stato inserito nella National Film Registry della Libreria del Congresso USA, tra i film da conservare per le future generazioni grazie alla sua rilevanza “culturale, storica ed estetica”.
Curiosamente, i Coen non hanno mai dichiarato di amare Jeffrey “Dude” Lebowski come noialtri, anche e forse perché così alieno dai loro classici personaggi che finiscono morti, profondamente cambiati o sospesi in un limbo dal sapore tragico.
Non che siano mai stati eccessivamente sentimentali, i Coen, o tipi che rimangono ancorati a una loro creazione in particolare.
In una recente intervista hanno dichiarato che
Il Grande Lebowski esercita un fascino più sul pubblico che su di noi.
Nonostante tutto, i due fratelli hanno creato una delle icone del Ventesimo Secolo e dei secoli a venire. Sono certo che l’opinione di milioni di umili cinefili può contare, in questo caso.
Ma perché Jeffrey “The Dude” Lebowski ha questo fascino potente e iconico?
Uno sguardo alla storia e alle implicazioni del film può darci qualche indizio.
In principio fu “Il Grande Sonno”
Non è un mistero che alla gente piacciano gli eroi.
E non è un mistero che a tutti piacciano ancora di più gli antieroi, gente comune o con i problemi più vari che si confronta con la follia del mondo e ne emerge, se non completamente sconfitta, almeno in piedi.
Dal titolo clamorosamente simile all’intreccio incomprensibilmente ingarbugliato, tutto indica che gran parte dell’ispirazione dell’opera arrivi da uno dei capolavori hard-boiled dello scrittore Raymond Chandler (1939), poi glorificato dal film di Howard Hawks con Humprey Bogart e Lauren Bacall (1946).
Il nostro Dude non è certo come l’investigatore privato Philip Marlowe, ma come lui si ritrova in mezzo ad una serie di eventi misteriosi e criminosi, e li (non-)affronta come meglio crede.
Con uno stile unico, personale, coerente e stupidamente geniale.
Ecco perché lo si ama dal primo istante.
Il Dudeismo
The Dude è presente praticamente in ogni scena.
Lo seguiamo dappertutto, vediamo cosa fa – anche quando si rilassa in bagno – e chi incontra, come reagisce ai casini e come li crea. Questo crea una connessione immediata e forte con lo spettatore.
Ma più di tutto, ammiriamo il suo stile/filosofia di vita: un insieme di edonismo, slackerismo, stoicismo, hakuna matata e fottesega.
Quello che rende indimenticabile il personaggio incarnato in maniera irripetibile dal leggendario Jeff Bridges è proprio il suo agire sempre “nel personaggio”, senza scomporsi o rispondere i maniera violenta a tutte le aggressioni, provocazioni e insulti che riceve nel corso di due ore di film.
Si arrabbia, certo, ma poi trova sempre la via per tornare al suo stato di rilassamento. Anche se i white russian, l’erba e il bowling giocano il loro ruolo in questo…
Pochi film possono dire di aver ispirato delle religioni o qualcosa di simile alla Forza di Star Wars.
Beh, l’inossidabile filosofia di vita del Dude ha dato vita al Dudeismo, che a conti fatti è una variante del Taoismo che esalta il “vivere lento”, contro la frenesia della vita e le frustrazioni che ne derivano.
Se pensate che sia folle che un personaggio del genere venga visto come un profeta che “se la prende comoda per noi peccatori”, andatelo a dire a qualcuno dei quasi 200.00 sacerdoti del dudeismo (ufficialmente ordinati) in giro per il mondo.
Ah, se vi sentite meno religiosi e più festaioli, potete partecipare a una delle Lebowski Fest in giro per gli USA.
Il fascino della disillusione
Si pensa in genere che il Dude sia un personaggio leggero, comico, “intelligente ma che non si applica”.
Oltre ad essere piuttosto sveglio, autoironico e colto sul fronte di storia e filosofia, in alcuni brevi accenni si capisce che Lebowski ha un passato da attivista, uno di quelli militanti e capaci di scrivere interi manifesti programmatici ricchi di buone intenzioni e belle parole.
Il fato che ce lo ritroviamo sciallato, bolso e interessato a viversi la vita un bicchiere di white russian alla volta sdraiato sul tappeto, con l’unica preoccupazione della pratica competitiva del bowling, non fa altro che confermare l’abbandono causa disillusione delle attività giovanili.
Altro grande merito del film, e finezza di scrittura dei Coen, il sottotesto di lettura critica di una società che soffoca gli ideali per ricorrere il mero materialismo.
Vedi l’intreccio principale; materialismo contro il quale Dude si oppone con la sua semplice esistenza e i suoi modi pacifici.
Anche per questo motivo, il ponderato “Fuck it” di Lebowski all’altro Lebowski, quello ricco e avido che gli domanda insistentemente se ha un lavoro, come fosse tratto essenziale per avere diritto di parola, è un atto serissimo.
Un tappeto al volante
… al volante della storia, intendo. Non potremmo aspettarci di meno da un film come Il Grande Lebowski. Un tappeto è il motore degli eventi.
Come tutti noi, anche Dude ha un oggetto del cuore: l’amato tappeto che “dava un tono alla stanza” (in originale un più sentimentale “tied together the room”).
Ora, quando qualcuno si introduce in casa tua, perpetra un atto di violenza domestica e ti piscia sul tappeto che ami perché ti scambia per un altro, non ti senti in dovere di fare qualcosa?
Ecco. Ma il memorabile Dude deve meditare il da farsi, prima, consultandosi con gli amici mentre pratica l’unica altra cosa che davvero ama al mondo: il bowling.
Proprio come facciamo noi.
Anche se i nostri dialoghi credo siano un po’ meno assurdi di quelli che il Dude vive assieme a Walter (un meraviglioso John Goodman) e Donny (solito, perfetto Steve Buscemi).
Riguardare Il Grande Lebowski godendosi ogni singolo scambio di battute fra i tre, con un timing perfetto e un senso dell’improvvisazione sensazionale è qualcosa di favoloso.
Anche se – credeteci o meno – tutte le battute, anche le esclamazioni e le frasi interrotte, stanno nero su bianco sul copione dei Coen.
Il che, in qualche modo, rende ancora più incredibile le interpretazioni.
The Dude in real life
Il bello di Lebowski è che ci sembra davvero “reale”: ha un sacco di tratti eccentrici, è vero, ma si comporta in modo credibile e spontaneo, come farebbe davvero un pigro, pacifista fattone della porta accanto, che sia Los Angeles o Livorno.
E infatti l’ispirazione per il personaggio è arrivata da una persona reale, il produttore Jeff Dowd che aveva lavorato con i Coen per il loro esordio con Blood Simple (1984).
Un uomo che fu membro dei Seattle Seven, sette membri dell’associazione Seattle Liberation Front che organizzarono nel 1970 una delle più grandi proteste pacifiste contro la guerra del Vietnam.
Finì in carcere per qualche mese per “incitamento alla rivolta”, dopo che la manifestazione prese una piega violenta…
Da notare che anche la casa del Dude, una villetta niente male in quel di Beverly Hills, è una location non così anonima del cinema contemporaneo: si chiama Greystone Mansion e l’abbiamo vista, tra gli altri, in The Social Network, I Muppet, The Prestige, Rush Hour.
Lebowski, quello grande
Infine, giova ricordarlo, il Grande Lebowski del titolo non è il “nostro” Dude ma il vero (o perlomeno il più ricco e famoso) omonimo: il magnate Jeffrey Lebowski, interpretato da David Huddleston.
Si narra che in quella parte (praticamente un cameo esteso) i Coen avrebbero voluto Marlon Brando, ma non se ne fece di nulla. Furono considerati anche Robert Duvall, Anthony Hopkins e Gene Hackman.
Detto fra noi, il vecchio caratterista Huddleston fu perfetto e un attore più famoso avrebbe forse rovinato la magia.
The Dude: un antieroe talmente calato nella parte che se il suo nome appare nel titolo, appartiene a qualcun altro.
Provate a non trovarlo simpatico.
Versione Drugo
Voglio spezzare una lancia, una volta tanto, a favore dell’adattamento e del doppiaggio italiani, piaccia o meno la traduzione di Dude in un aranciameccanichesco “Drugo”.
Sarà che vidi all’epoca il film al cinema, e forse sono condizionato dal ricordo, ma nonostante poi abbia goduto del film più volte in lingua originale, non mi sembra che il lavoro della versione italiana sia stato tanto criticabile.
Oltretutto, un film che sia appoggia così tanto sul come le cose vengono dette più che sul cosa viene detto è davvero arduo da adattare.
Ultimo ma non meno importante, il nostro protagonista ha una delle introduzioni più efficaci e poetiche che siano mai state recitate da una voce fuori campo:
A volte si incontra un uomo, non dirò un eroe… perché, che cos’è un eroe? Ma a volte si incontra un uomo, e sto parlando di Drugo, a volte si incontra un uomo che è l’uomo giusto al momento giusto nel posto giusto, là dove deve essere.
Ovviamente non trascurabile il fatto che è la voce di un misterioso cowboy con i baffoni da Nietzsche che poi perde il filo del discorso. Puro Coen style.
Nel 1998 il Dude era l’uomo giusto al momento giusto.
E, forse non a caso, lo è ancora e lo sarà ogni volta che ci rivedremo Il Grande Lebowski per sottrarre un paio di ore alla follia della nostra vita reale.