La dura legge dei sequel videoludici

In questo approfondimento ci occuperemo del fenomeno dei sequel in ambito videoludico, e di come spesso le nostre aspettative pregiudichino il giudizio sul prodotto in se.

Prendiamo ad esempio Resident Evil VII: Biohazard, ultima incarnazione della celebre saga di Capcom, che fin dal primo trailer mostrato al pubblico  ha spaccato i fan tra coloro che ne acclamavano il nuovo corso e chi invece già lo etichettava come un “non Resident Evil”.
Quello scaturito dal titolo in questione è soltanto l’ultimo di molti casi analoghi. Cerchiamo quindi di capire quando, nell’economia di un sequel videoludico, il cambiamento sia parte integrante del processo d’evoluzione, e quando invece questo rischi di snaturare una proprietà intellettuale.

 

Uguale, ma diverso

Sviluppare il nuovo capitolo di una serie videoludica di successo coniugando innovazione e tradizione, riuscendo al contempo a soddisfare critica e pubblico di ogni parte del mondo si sa, è compito tutt’altro che semplice. L’intramontabile nonché controverso desiderio degli appassionati, ansiosi di trovare sempre qualcosa di nuovo e inaspettato in un sequel, ma che sia al contempo uguale e in tutto e per tutto fedele ai suoi predecessori infatti, è solo una delle numerose gatte da pelare che gli sviluppatori devono affrontare nella realizzazione del nuovo episodio di un’opera interattiva.

Le componenti che regolano la buona riuscita di un seguito sono molteplici.

Le componenti che regolano la buona riuscita di un seguito sono quindi molteplici e molto diverse tra loro. Alle fondamenta del processo creativo che porta alla realizzazione dell’opera però, troviamo un procedimento il cui corretto svolgimento risulta essere nella maggior parte dei casi assolutamente determinante. Esso è rappresentato dal saper identificare gli elementi portanti della serie videoludica di riferimento e dall’assicurarne la completa implementazione nell’opera successiva, anche nel qual caso vi se ne aggiungano o modifichino altri di valore altrettanto consistente. Per quanto quest’operazione possa sembrare semplice e intuitiva per i professionisti dell’industria però, si dimostra in verità essere in taluni casi più agevole rispetto ad altri.


Sono diversi gli elementi che influenzano la complessità di questo delicato processo, ma quello che più spesso vi gioca un ruolo da protagonista è il genere di appartenenza.
In certi casi infatti i canoni di genere sono talmente nitidi e ben delineati, che basta condirli con qualche aspetto caratteristico della proprietà intellettuale di riferimento e il rischio di snaturare la saga, è prontamente sventato.


A quel punto si possono aggiungere o modificare anche diverse caratteristiche a livello di ambientazione, personaggi e gameplay, si possono sperimentare soluzioni innovative e particolari, si può in buona sintesi osare a piacimento perché l’anima della serie è in ogni caso ben salvaguardata.

Super Mario, la serie videoludica più famosa al mondo, è un esempio lampante di questa teoria.

Il famoso idraulico italiano infatti, da quando è diventato “Super” ha visitato ogni anfratto del Regno dei Funghi, ha vissuto avventure a Sarasaland, Mario Land, nell’Isola Delfina, nello spazio aperto e si appresta ora persino a correre per le strade di New York!

Lo si può trovare in mondi a 2 o 3 dimensioni, con struttura lineare o open world, dotato di abilità classiche o alternative, intento a combattere la storica nemesi Bowser o qualche nuovo cattivo spuntato da chissà dove eppure… nessuno ha mai considerato un episodio di Super Mario “non un Super Mario”. Neppure in riferimento agli episodi più controversi della saga.

 

Un idraulico in vacanza

 


In Super Mario Sunshine (titolo uscito nel 2002 su Nintendo Game Cube), l’idraulico italiano percorre il 95% della sua avventura nella calda e soleggiata isola Delfina portandosi sulla schiena un ingombrante cannone ad acqua denominato “Splac 3000”, che grazie alle sue molteplici funzioni modifica in maniera concreta e costante alcuni degli aspetti più tipici del gameplay mariesco.


La precisione millimetrica dei salti, da sempre uno degli elementi imprescindibili nella serie, diventa infatti in Sunshine molto meno determinante grazie proprio a una delle suddette funzioni, lo “spruzzoplano”, che permette in qualsiasi momento a Mario di fluttuare per qualche secondo nell’aria, dando quindi la possibilità di correggere in corsa ogni salto mal calibrato.


Per attaccare i nemici il giocatore non si serve poi delle abilità proprie del baffuto protagonista, ma sfrutta nella maggior parte delle occasioni il potente getto dello Splac 3000, sconvolgendo così il classico utilizzo dei power-up. Nonostante tutte queste modifiche ad alcuni aspetti cardine della saga però, l’inconfondibile direzione artistica, l’immancabile presenza di alcuni personaggi storici e il sublime level design made in Nintendo, coordinato alle linee guida dettate dal genere, ne hanno fatto un episodio certamente controverso, ma non per questo snaturante nei confronti dell’IP.

 

Super Mario Bros. USA

 

Il caso però più eloquente in assoluto è probabilmente rappresentato dalla versione occidentale di Super Mario Bros. 2, episodio uscito nel 1988 e nato addirittura come riadattamento di Doki Doki Panic, gioco uscito un anno prima nel solo Giappone e che niente aveva a che fare con l’universo della mascotte Nintendo.



Mentre l’edizione nipponica del primo seguito di Super Mario Bros. riprendeva infatti in maniera del tutto simile il suo predecessore, mantenendo grafica e struttura praticamente invariate, per il pubblico occidentale (a causa di vari motivi) Nintendo decise di realizzare una versione completamente diversa del titolo. Dalla scelta tra ben quattro personaggi giocabili (Mario, Luigi, Peach e Toad), ognuno con diverse abilità e caratteristiche, passando per le peculiari modalità di attacco incentrate sullo sradicare oggetti dal terreno e lanciarli sui nemici, la natura “derivata” del titolo non passa certo inosservata.


Nonostante siano numerose le differenze con la struttura classica dei Mario 2D, è bastato  però modificare i protagonisti, adattare lo scenario e alcuni elementi di contorno, e gli stilemi di genere hanno poi assicurato la coerenza stilistica necessaria a catalogare questa edizione come un Super Mario Bros. in piena regola. Con questo non si può certo affermare che basti “vestire” un qualsiasi platform da Super Mario per farne un seguito della più famosa saga videoludica del mondo.


Bisogna considerare infatti che la conversione di Super Mario Bros. 2 è stata realizzata da Shigeru Miyamoto in persona, il quale ha scelto con estrema cura quale fosse il gioco più adatto allo scopo e quali fossero gli elementi da modificare. Dimostra ad ogni modo come in un genere ben codificato come il platform, il rischio di snaturalizzare il seguito di un’importante proprietà intellettuale apportando eccessive modifiche a direzione artistica e gameplay, sia evidentemente minimo. Minimo, ma non del tutto assente.

 

Officina meccanica Banjo-Kazooie

 

Dopo la clamorosa acquisizione di Rare da parte di Microsoft nel 2002, una delle serie che i possessori di Xbox attendevano maggiormente di vedere sulla propria console prendeva il nome di Banjo-Kazooie. Nata su Nintendo64 grazie al precedente accordo di esclusiva che legava la software house inglese alla casa di Kyoto, la serie riprendeva la formula classica del platform 3D introdotta poco prima dal leggendario Super Mario 64, affermandosi in poco tempo come unica IP capace di reggere il paragone proprio con l’immortale classico Nintendo.


Dopo l’altrettanto acclamato seguito Banjo-Tooie e l’avventura portatile Grunty’s Revenge, ecco quindi che nel 2008 il simpatico duo fa infine la sua comparsa su Xbox 360 con l’episodio sottotitolato “Viti e Bulloni”. Un gioco però, dalla formula imprevedibilmente atipica.



I rodati paradigmi del platform 3D vengono qui infatti fusi in maniera certamente originale con le meccaniche dei giochi di corsa arcade in stile Diddy Kong Racing (gioco sviluppato dalla stessa Rare per Nintendo64).


I veicoli diventano così parte centrale del gameplay e vero fulcro dell’esperienza di gioco, il profondo editor per la libera creazione degli stessi poi, è altrettanto determinante.
Ogni missione in Viti e Bulloni prevede infatti una contemplativa fase di montaggio e potenziamento dei veicoli utilizzando le diverse componenti trovate nel corso dell’avventura, e il seguente raggiungimento dell’obiettivo di turno muovendosi all’interno dei colorati ambienti prevalentemente a bordo dei suddetti mezzi.

 

Il platform racing

 

Per quanto questa formula sia certamente innovativa nonché divertente, ci troviamo di fronte a un gioco che non ha solo profondamente modificato le meccaniche tipiche della serie di cui fa parte, ma le fondamenta stesse del suo genere di appartenenza. Possiamo quasi affermare infatti che l’ultimo esponente della saga Banjo-Kazooie abbia creato un sotto-genere tutto nuovo, che potremmo definire “Platform-Racing”.


Creare un genere nuovo, sia chiaro, non è certo una cosa da poco.

Viti e Bulloni ha infatti scritto in ogni caso una pagina importante della storia del medium e lo ha fatto con un gioco di innegabile qualità. Analizzandolo però nell’ottica della saga di cui è parte, è altrettanto evidente quanto l’anima della produzione differisca profondamente con quella dei suoi predecessori, come le colonne portanti dell’esperienza ludica legata alla storia dei personaggi siano state abbattute e ricostruite, andando così a posizionare l’opera pericolosamente in bilico sulla sottile linea che separa l’innovare dallo snaturare.

 

L’evoluzione del male

 

Se anche in un genere ben delineato come il platform la realizzazione di un seguito può dunque portare a qualche problema di coesione stilistica, diventa evidente come nel caso di tipologie di gioco più ambigue e definite in maniera più sottile, sia tremendamente difficile innovare una saga mantenendone intatto lo spirito. Specialmente se lo si cerca di fare più e più volte nel corso del tempo.

La longeva saga di Resident Evil è stata protagonista proprio di questo processo.

Nata nel 1996 su Playstation, la serie si è evoluta e rinnovata infatti più volte nel corso degli anni e delle diverse generazioni di hardware, ed è principalmente questo il motivo che ha portato parte degli appassionati ad accusare ingiustamente il settimo episodio di mancata coerenza con i più recenti predecessori. Chi è entrato per la prima volta in contatto con la serie Capcom nell’arco dell’ultimo decennio, ha conosciuto invero una proprietà intellettuale dalla spiccata anima action-shooter, dove spettacolari scontri con sterminate orde di infetti fanno dell’azione adrenalinica la vera protagonista.

Il punto cardine della questione però, è che quest’ultima non è mai stata la vera natura di Resident Evil.

La linfa vitale della saga che in Giappone è conosciuta come Biohazard, è nelle sue origini composta infatti dalla più pura componente Survival-Horror. L’originale Resident Evil è quindi caratterizzati da un’incessante, incontrollabile tensione che pervade il giocatore ad ogni singolo passo nell’ambiente ludico.



Le risorse a disposizione sono perennemente limitate. La sensazione d’impotenza nei confronti delle terribili creature che infestano il mondo di gioco è costante. Anche un singolo, insignificante non-morto che vaga in un lungo corridoio diventa un incubo, un ostacolo da affrontare con coraggio mentre una goccia di sudore gelido scorre lentamente dietro la schiena.

Gli enigmi ambientali spezzano poi la tensione dando lieve respiro al giocatore e rendendo più vario il gameplay, mentre la sublime e coinvolgente narrazione, unisce il tutto.
L’anima della saga viene quindi forgiata in modo chiaro e netto dal suo capostipite, per poi essere riproposta in maniera sostanzialmente invariata per ben cinque successivi capitoli. Nel 2005 però, Shinji Mikami (creatore della saga), decide che è il momento di rinnovare le collaudate meccaniche che fino a quel momento hanno fatto da sfondo ai terribili esperimenti genetici della Umbrella Corporation, e riesce a farlo sviluppando uno dei migliori videogiochi della storia del medium: Resident Evil 4.

 

Lo spartiacque

 

Resident Evil 4 cambia le carte in tavola mostrando ai giocatori di tutto il mondo qualcosa che mai avevano visto fino a quel momento in un videogioco. I lenti e impaccati zombie degli episodi precedenti si trasformano in veloci e scaltri infetti assetati di sangue. Il numero di nemici a schermo aumenta esponenzialmente e l’intelligenza artificiale dei “los ganados” (i nemici base del gioco), unita alla maggior vastità degli ambienti e all’abbattimento di molte pause di caricamento, rende ogni nascondiglio flebile e insicuro.



Se fino a quel momento l’apertura di una porta ci permetteva di lasciare alle spalle qualsiasi abominio avessimo alle calcagna, in Resident Evil 4 molte delle entrate possono essere abbattute dalla furia degli infetti, trasmettendo così al giocatore una costante sensazione di pericolo. Le telecamere fisse che caratterizzavano fino a quel momento la prospettiva della serie spariscono in favore di un’inedita visuale sopra la spalla del protagonista, che regala un nuovo, dinamico punto di vista al giocatore.


Il backtraking lascia il posto a un avanzamento lineare, gli enigmi ambientali spariscono quasi del tutto, la quantità di risorse aumenta (specialmente nelle fasi avanzate) in maniera drastica rispetto alle abitudini della serie. Le sequenze d’azione si fanno più spettacolari e frequenti, il ritmo è più veloce, più incalzante, meno ragionato.

 

 

Resident Evil 4

 

 

Come abbiamo potuto constatare Resident Evil 4 è quindi portatore di cambiamenti sostanziali alla fondamenta stesse della serie. Eppure, nonostante le numerose modifiche apportate ai canoni classici della saga, riesce a mantenerne incredibilmente intatta la filosofia concettuale. Il quarto episodio dell’IP Capcom riesce infatti a trasmettere ancora quelle emozioni che hanno da sempre rappresentato il cuore pulsante dell’epopea creata da Shinji Mikami. Prima tra queste, la paura.


Chi alla metà degli anni 2000 prese il pad in mano e affrontò impavido l’avventura di Leon S. Kennedy, si ricorderà invero come specialmente nel corso della prima metà del gioco (prima di padroneggiare pienamente le nuove meccaniche e avere più armi e risorse a disposizione), il titolo riuscisse a trasmettere al giocatore la costante paura di essere braccato, assalito, ucciso all’improvviso. Si trattava di un tipo di paura diversa rispetto ai capitoli precedenti, ponderata più sul ritmo che sull’atmosfera, ma non per questo meno intensa e reale.

 

Superare il limite

 

Resident Evil 4 è quindi riuscito nel difficile compito di stravolgere le meccaniche della serie rispettandone allo stesso tempo la lunga tradizione. È stato inoltre mondialmente riconosciuto come capolavoro ed è diventato poi, nel corso degli anni, punto di riferimento e fonte d’ispirazione per diverse, blasonate produzioni.

Tuttavia, l’episodio del 2005 rappresenta anche il primo vero spartiacque nella storia della saga, e il seme da cui è germogliata la controversa filosofia concettuale degli episodi seguenti. I successivi seguiti infatti, accentuano consistentemente la componente action-shooter, facendo delle spettacolari sequenze d’azione adrenalinica il cardine del gameplay.

Questo processo porta innegabilmente alla produzione un maggior grado di spettacolarità visiva e dinamismo, ma si dimostra sensibilmente più povera dal punto di vista emozionale. Le meccaniche introdotte dal quarto episodio diventano in breve tempo poi un vero e proprio standard del genere. Diversi titoli ne perfezionano vari aspetti e i giocatori di tutto il mondo si abituano così ben presto alle caratteristiche centrali di quella tipologia di gioco.

Nel corso di pochi anni quindi, quello che una volta era imprevedibile e spaventoso diventa al contrario atteso e prevedibile, incapace perciò di trasformare la tensione del giocatore, in paura. La serie Capcom è stata vittima di questo processo, diventando così nell’ultimo decennio un action-shooter a tutti gli effetti. Resident Evil non è tuttavia l’unica saga horror ad aver virato nel tempo verso il genere shooter, così come non è l’horror il solo genere ad essere stato coinvolto in questo tipo di  mutazione.


Ci sono rpg che hanno modificato nel tempo parte delle meccaniche trasformandosi in action-rpgaction-rpg diventati action puri, o ancora avventure grafiche divenute adventure.
Lì dove le caratteristiche di genere sono meno concrete e più interpretative infatti, diventa molto più complicato restare fedeli alla propria natura proponendo al contempo sempre qualcosa di nuovo.

Un passo indietro, poi sempre avanti!

 

Dopo aver intrapreso per anni una nuova via, Capcom ha avuto quindi la forza di riportare una delle sue più importanti IP sulla strada a lei più congeniale, e lo ha fatto col coraggio di guardare comunque avanti.

 

Resident Evil VII: Biohazard riprende così quelle caratteristiche che hanno scritto la storia del franchise, ma che erano ormai andate tristemente perdute. Si ricorda improvvisamente quali fossero i veri elementi cardine della saga e li ripropone, in nuova forma, al giocatore.
Tornano i ritmi lenti, l’ambientazione asfissiante, gli enigmi ambientali, le risorse limitate da usare con parsimonia e soprattutto… torna la paura, quella vera, quella che ti fa saltare dalla sedia mentre il cuore ti batte all’impazzata.


Il settimo capitolo non si limita però a riprendere gli stilemi classici della serie, ma riesce nel difficile compito di rinnovarli affiancandovi nuove componenti che rinfrescano il gameplay, avvicinandolo agli standard odierni del genere. La visuale passa così a un’inedita e coinvolgente prima persona, l’atmosfera si fa più buia e disturbante, il contesto narrativo è su scala diversa rispetto al recente passato e le sensazioni provate dal giocatore sono generalmente inedite, ma familiari al tempo stesso.


Resident Evil VII in buona sintesi, fa esattamente quello che un buon sequel dovrebbe fare: innova rispettando la tradizione. Il nuovo-vecchio corso della saga creata da Shinji Mikami può in ogni caso piacere, come non piacere. Può essere lodato come criticato, ma certamente non può essere considerato “non un Resident Evil”.

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