House of Gucci, la recensione: il grottesco “tu vuo’ fa’ l’italiano” di Ridley Scott

recensione di House of Gucci

È difficile, davvero molto difficile approcciarsi alla scrittura della recensione di House of Gucci perché il solo pensiero che mi tormenta da quando ho visto il film è uno: perché?

Eh no, il perché non è semplicemente uno, ma sono tanti. Principalmente quello che viene da chiedermi è:

perché questa storia, Ridley Scott?

Una domanda molto importante quando si decide di raccontare qualcosa, che sia un libro, un film, una serie TV o un videogioco o anche qualsiasi altra cosa. Cosa ci spinge a raccontare quella cosa? Cosa vogliamo davvero raccontare? E come lo vogliamo fare? Ma, soprattutto, citando il maestro Capuano nell’ultimo grande capolavoro di Paolo Sorrentino, È Stata la Mano di Dio, ce l’abbiamo davvero qualcosa da raccontare?

Perché se penso all’ultimo lavoro di Ridley Scott, ovvero quella meraviglia che è The Last Duel, un film inaspettato, potente e perfetto, lì qualcosa (anzi, molto più di qualcosa) da raccontare la vedo e, sicuramente, Scott non è l’ultimo degli sprovveduti. Parliamo di uno dei registi più complessi, più importanti, uno di quelli che ha fatto la storia, che ha creato dei mondi incredibili, dei personaggi che hanno davvero qualcosa da raccontare, perfino quando il film non ci convince per nulla (ogni riferimento a Covenant è puramente casuale).

Eppure Ridley Scott, se mi fermo un po’ di più a pensarci, ogni tanto è anche questo. Il regista di “grandi colossal” che però lasciano indifferente lo spettatore, chiedendosi per lo più: perché? No, ovviamente non faccio riferimento al Gladiatore che indifferente non ti lascia neanche durante i titoli di coda. Sto parlando soprattutto di Tutti i Soldi del Mondo. Non l’avete visto? Non vi perdete nulla, anzi. L’avete visto? Bene, adesso sapete cosa aspettarvi da House of Gucci, con l’aggiunta però di una scelta stilistica nel tono e interpretazioni degli attori che dona al film non tanto quell’effetto patina trash/guilty alla Dallas e Dynasty – che chiariamoci: per me sarebbe stato grasso che cola – ma bensì un’atmosfera grottesca, disturbante e respingente. Un tono che se nei primi cinque/dieci minuti di film funziona, per i restanti 147 minuti, diventa stucchevole, insopportabile, logorante.

recensione di House of Gucci

A questo aggiungiamoci “l’incomunicabilità della storia”. In che senso? Nel senso che si vuole raccontare troppo, senza poi raccontare davvero qualcosa. La discesa e ascesa del Marchio Gucci rispettivamente nel momento migliore e peggiore della casa Gucci, sarebbe stato un argomento decisamente interessante. Un modo anche per investigare sulle dinamiche, marce e non solo, del mondo della moda. Scoprire come uno dei brand più famosi al mondo è stato completamente rivoluzionato non tanto dai suoi legittimi “proprietari”, quanto più da investitori e da un giovanissimo stilista texano dalle idee rivoluzionarie ma dal taglio fine ed elegante, un certo Tom Ford.

Gucci risorge dalle sue ceneri, più forte che mai. I Gucci vengono sepolti nello scandalo, nei tradimenti, nell’ambizione e avidità che li ha portati troppo, troppo oltre il limite. Ma tutto questo ci viene raccontato in un mescolone di avvenimenti dove il focus principale non sono affatto i Gucci, quanto più Patrizia Reggiani. Il film è fondamentale su di lei, tutto il resto è mero contorno. Ed anche lì, vogliamo conoscere di più di Patrizia. Voglio scendere nella psiche di questo personaggio, vogliamo vederla sprofondarla nella sua disperazione che la porterà ad organizzare l’omicidio dell’ex marito. Vogliamo vedere cosa la porta davvero a quel punto e cosa succede dopo. Ed invece no, non succede neanche questo. Tutto in superficie, tutto superficiale senza mai trovare un vero e proprio appiglio per andare oltre.

La sensazione è quella di una pellicola svogliata, di una storia che fin troppe volte si perde preferendo l’effetto Beautiful anziché costruire un vero e proprio dramma storico fatto di cronaca, tradimenti e segreti.

Che cos’è House of Gucci?

recensione di House of Gucci

Discendiamo un pochino più in profondità; o meglio, svisceriamo i concetti espressi prima, partendo dalla storia di House of Gucci, da quello che racconta o, per essere pià precisi, che avrebbe voluto raccontare.

Come dicevo prima, Ridley Scott è spesso attratto da queste storie di famiglia borghese che sfociano nella corruzione, nel sangue e nell’abuso di potere. Non sempre però il focus di queste storie viene effettivamente portato avanti.

Quella di House of Gucci parte proprio da una non Gucci, ovvero una giovanissima Patrizia Reggiani (Lady Gaga), tanto bella quanto furba che, quasi per puro caso, incontra e fa colpo sul rampollo Maurizio Gucci (Adam Driver). Maurizio vuole fare l’avvocato, non è interessato a portare avanti il marchio di famiglia e, soprattutto, è pazzamente innamorato di Patrizia. Non gli importa dell’opinione del padre Rodolfo Gucci (Jeremy Irons), è disposto a perdere tutto pur di vivere felice e sereno. Questo a Patrizia non basta e, in modo assai intelligente e restando fortemente in contatto con la famiglia di Maurizio, in particolar modo lo zio Aldo Gucci (Al Pacino), farà in modo di far tornare non solo Maurizio all’interno dell’azienda ma a dargli un ruolo di assoluto potere. L’inizio della rovina di tutti quanti.

Ascesa, discesa, rinascita. Tutto ci viene raccontato dal punto di vista di Patrizia. Tutto assume il suo sguardo. Ogni scena importante. Ogni svolta fondamentale del film.

Solo sulla via del tramonto, il personaggio di Patrizia è più altalenante – proprio quando dovrebbe essere ancora più on focus – lasciando spazio alle dinamiche che hanno portato Maurizio a venire quasi allontanato dal marchio Gucci dopo che lui stesso aveva fatto in modo che lo zio Aldo e l’eccentrico cugino Paolo Gucci (Jared Leto) non avessero più nulla in mano, condannandoli alla disgrazia.

recensione di House of Gucci

Il film cambia ripetutamente registro. Si perde nella struttura della soap da canale 5. Il guilty pleasure non fa male a nessuno, soprattutto se è quello fatto bene, quello che per quanto inverosimile ci fa comunque affezionare ai personaggi. Vogliamo vedere fin dove sono capaci a spingersi con il loro eccessi, con la loro stravaganza. Ci fa un po’ sognare di essere loro e che il nostro problema più grande al mattino è che vestito abbinare alle nuove scarpe. Al tempo stesso ci accattiva con la sua anima più vera e nera, quella dello scandalo, del riciclo di soldi, dei falsi sorrisi e dei tranelli letali. Insomma, House of Gucci poteva essere il Dynasty dei nostri tempi – e chissà se pensato per un formato televisivo forse la sorte di questo film non sarebbe stata differente. Purtroppo, come avrete capito da questa recensione di House of Gucci, l’ultima fatica di Scott è tutto meno che questo. Anzi, mi correggo, House of Gucci non è assolutamente nulla. 

Ci troviamo di fronte ad una narrazione frammentata, una sceneggiatura debole e fragile che non regge per nulla la durata importante del film (157 minuti), anzi la dilata ancora di più soffermandosi su dettagli inutili e tralasciando aspetti che invece avrebbero meritato un maggiore approfondimento. Questo vale soprattutto per i personaggi, da Lady Gaga ad Adam Driver, passando per il terrificante, imbarazzante, agghiacciante Paolo Gucci di Jared Leto (io non capisco perché questo attore si vuole così tanto male). I personaggi si muovono senza motivo apparente. Sono piatti, privi di approfondimento.

Sono macchiette, caricature che si atteggiano sul grande schermo credendo di omaggiare chissà cosa dell’Italia ma ciò che ne viene fuori è, alla fine di tutto, una brutta copia di un cinepanettone degli ultimi anni.

recensione di House of Gucci

Non solo la regia di Ridley Scott è praticamente assente, ma il film è di una monotonia assurda. Patinato fino all’inverosimile, dove la caratterizzazione dei personaggi muore con la creatività stessa della pellicola, la scelta della colonna sonora sembra essere lasciata completamente al caso, e le uniche cose davvero a salvarsi e a rendere il film quanto meno piacevole alla vista è la ricostruzione della Milano di quel periodo.

Stupendo il lavoro fatto sulle scenografie e sulle ambientazioni, senza neanche dimenticare i costumi. Un lavoro di fino di grande gusto e rispetto che subito resta impresso nell’immaginario e nella mente. Accattivante. Interessante. Tutto ciò che, purtroppo, non è la sceneggiatura della pellicola.

Un grande cast non basta a fare un buon film

recensione di House of Gucci

Arriviamo al punto dolente di questo film. Il perché più grande di tutti quelli visti fino a questo momento: la recitazione. Posso comprendere l’idea principale di Scott: fare un film su di una famiglia italiana, usando un cast di tutto rispetto, cercando di renderlo il più verosimile possibile ma al tempo stesso più che appetibile per un pubblico di grande respiro internazionale.

Comprendo perfettamente la scelta di non usare attori italiani (e ne abbiamo diversi bravi affermati e amati all’estero) e puntare a grandi nomi, Premi e Candidati all’Oscar. Capisco anche il voler giocare con gli accenti nel dover recitare inevitabilmente in lingua inglese. Quello che non capisco è come da tutto questo si sia arrivati alla conclusione che la scelta migliore fosse quella di farli recitare in una lingua inascoltabile, in alcuni casi – Paolo Gucci – completamente incomprensibile.

Forse, maliziosamente, mi viene da pensare che più che alla verosimiglianza si volesse puntare ad un’esasperazione dello stereotipo, della visione dell’italiano secondo l’americano medio. Mafia, pizza, mandolino. Il classico “Tu vuo fa l’americano” di Renato Carosone che tanto piace agli ammerrigani! Se il risultato voleva essere questo, allora perfetto. È orribile, ma perfetto. Ma se, invece, l’obiettivo era quello di creare un certo tipo di rappresentazione il più strettamente possibile vicino a quell’Italia anni ’70/’80… Allora forse, e dico forse, non si doveva prendere Super Mario come modello di riferimento, come cifra stilistica o reference per gli attori.

recensione di House of Gucci

Non so esattamente quale possa essere stata la funzione dei vocal coach degli attori tanto millantati, considerando il risultato finale. So solo che è qualcosa di inascoltabile e che per la prima volta dopo tanto tempo il doppiaggio italiano è l’unico che salva la baracca rendendo il film almeno ascoltabile.

Lo so, leggendo queste parole starete pensando: quanto sei esagerata, Gabriella! Diciamo pure che la maggior parte di voi vedrà il film doppiato e quindi neanche si renderà conto di quanto sto dicendo in questo momento e quindi sì, questa recensione di House of Gucci vi sembrerà esagerata. Ma per quelli che troveranno la sala con la lingua originale, sapranno già cosa li aspetta al varco. Anzi, facciamo così, vi mostro una clip, così almeno potrete tararvi con il mio punto di vista:

 

Ecco, adesso pensate a questo che avete appena ascoltato per due ore e quaranta di film. No, non è piacevole per nulla. E non si vuole parlare qui unicamente di una questione di stereotipo, che a dirla tutta non passa unicamente dalla parlata di Lady Gaga o Jared Leto o Al Pacino ma anche dalla costruzione dei personaggi che sembrano più usciti da una soap opera italo-americano sulla mafia… Una soap fatta male. Se fosse stata fatta bene, forse saremmo più in zona Sopranos ma no, ne siamo anni luce distanti.

È proprio la musicalità che viene meno, il ritmo del film, il suo scorrere così macchinoso, così ansante, così insopportabile. La scelta è completamente assurda non solo perché in fondo si sta facendo riferimento ad un accento italiano che non esiste più, se non quello ancora parlato in America (e tengo a sottolineare in America) dai pochissimi ancora in vita arrivati da bambini negli Stati Uniti nei primi del novecento con la grande migrazione degli italiani. Per intenderci, quello di Joe Pesci in The Irishman. E lì la parlata è contestualizzata, giustificata narrativamente parlando.

recensione di House of Gucci

In House of Gucci non è semplicemente asincrona e poco credibile, ma spesso e volentieri fuori contesto. Il 90% del film è ambientato in Italia tra italiani. Gli anni di riferimento sono principalmente gli anni ’70 e ’80 e i primissimi degli anni ’90 fino all’assassinio di Maurizio Gucci. Che senso ha costringere gli attori a quel tipo di lavoro, che per quanto ambizioso, porta a risultati pessimi in quasi tutti i casi – quelli che si salvano sono soprattutto Jeremy Irons e Adam Driver. Non sarebbe stato più semplice, più scorrevole, una classica recitazione in inglese con qualche parola, le più classiche e tipiche, in italiano?

Spesso e volentieri la verosimiglianza può assumere i tratti di un’arma a doppio taglio e, in House of Gucci, è sicuramente il suo malus peggiore.

It’s me, Paolo!

recensione di House of Gucci

Sicuramente il premio per la peggiore interpretazione va a Jared Leto. Inconcepibile anche solo poterlo immaginare un personaggio di questo tipo. Crimine contro l’umanità metterlo in scena. Sorprendente scoprire quanto i Gucci si siano inferociti contro questa scelta, vero? Paolo Gucci è qualcosa che in natura non esiste (per fortuna).

Leto è attratto da questi personaggi, c’è poco da fare. E quando il film è un buon film, le sue interpretazioni, anche quelle più estreme, sono sempre particolarmente riuscite e ficcanti. Purtroppo negli ultimi anni, a cominciare dal disastro avvenuto con il Joker nel Suicide Squad del 2016, Jared Leto si è perso in un tunnel di inspiegabile follia. Il risultato finale del suo personaggio è un mix di grottesco e imbarazzo. Quel tipo personaggio/scena che fa abbassare lo sguardo anche allo spettatore. La sua voce vi tormenterà per settimane.

Purtroppo, mi duole dirlo, ma anche Lady Gaga non è poi da meno. Sicuramente lei crede moltissimo al personaggio di Patrizia e il lavoro fatto sugli sguardi, sul portamento, è ammirevole. Lady Gaga è una trasformista e se in A Star Is Born metteva a nudo se stessa, quindi fa quello che le viene meglio: giocare di eccesso. Un peccato che tutto venga abbastanza vanificato sempre da questa scelta assurda del parlato. Certo, si salva di più rispetto a Leto, ma il suo russian style è senza senso. Inoltre è evidente la difficoltà dell’attrice nel recitare in quel modo, soprattutto nei momenti di foga maggiore, come la rabbia. Sembra in stato di alterazione alcolica e qualcosa mi dice che non era proprio questo l’effetto desiderato.

recensione di House of Gucci

Chi ne esce meglio, per sua fortuna, è Adam Driver. Personaggio posato, carismatico e affascinante. Driver negli ultimi anni sta facendo faville e non sbaglia un colpo, nonostante la scelta discutibile di questo film. Eppure il suo Maurizio Gucci è perfetto. All’inizio il gioco dell’accento incide anche su di lui, ma il suo è l’unico personaggio che ha un minimo di sviluppo e costretto a lavorare di più all’estero è facilmente comprensibile il miglioramento e la scioltezza nel parlato di Maurizio Gucci. Più la pellicola va avanti, più Driver è libero di parlare senza assurdi paletti che rendono roccambolesca la performance della maggior parte degli attori.

Arriviamo alla conclusione di questa recensione di House of Gucci senza poi molto altro da aggiungere. Non si può davvero parlare di un’occasione sprecata nel caso di questo film. L’occasione non è mai stata creata, è evidente.

House of Gucci è uno specchietto per le allodole.

I trailer, in fondo, un po’ ci avevano avvertito, ma noi no, noi abbiamo voluto crederci davvero.

Le aspettative portavano sicuramente a pensare ad un bel film trash, un camp movie fatto di gusto, dominato dall’eccesso narrativo funzionale alla storia. Ed invece no, di funzionale non c’è assolutamente nulla. Una grande ginepraio di voci, personaggi, storie che si intrecciano senza mai prendere una scelta, scegliere una direzione, un registro, un topic.

House of Gucci è tutto e non è niente.

Vorrei dirvi perfetto per farvi due risate e se il film fosse durato meno probabilmente lo avrei anche detto. Nel dubbio, se avete voglia di un buon film di Ridley Scott, c’è sempre The Last Duel.

House of Gucci è in sala dal 16 Dicembre con Eagle Pictures

 

55
House of Gucci
Recensione di Gabriella Giliberti

Torna il Ridley Scott de Tutti i soldi nel mondo, stregato da una storia "nazional popolare" ma ben poco ispirato. La sua regia non è pervenuta. Le scelte linguistiche del film minano completamente la riuscita della pellicola che non è né un biopic, né un thriller o un drammatico, né tanto meno un guilty pleasure dai toni patinati alla Dynasty o Dallas. Il modo di parlare degli attori è stucchevole, logorante e insopportabile a lungo andare. La narrazione altalenante appesantisce tutto il resto, rendendo la pellicola per lo più banale, dimenticabile dopo pochi minuti fuori dalla sala, interessante solo per la messa in scena e l'interpretazione di Adam Driver. Cosa volesse davvero fare Scott con questo film? Non lo sapremo mai.

ME GUSTA
  • La ricostruzione storica della Milano degli anni '70/'80
  • I meravigliosi costumi vestiti da tutti i personaggi
  • Adam Driver, perfetto nella parte di Maurizio Gucci, carismatico, con l'arco di trasformazione più interessante e l'unico che non si lascia completamente crocifiggere dalle scelte recitative imposte dal regista
FAIL
  • La scelta, drammatica, di far recitare per 157 minuti gli attori in quello che dovrebbe essere una cadenza italiana (decontestualizzata) con risultati assai grotteschi e imbarazzanti a tal punto da catalizzare l'attenzione unicamente su quello
  • Jared Leto e il suo Paolo Gucci, la cosa più trash da vedere e sentire dai tempi della deliranza di Johnny Depp
  • Lady Gaga e il suo accento russo spacciato per italiano che mette in seria difficoltà l'attrice
  • La narrazione altalenante, sbilanciata, fragile che vorrebbe raccontare tutto e non racconta nulla. Svogliata e poco ispirata
  • L'atmosfera patinata che sembra voler omaggiare i film dei Vanzina, le soap alla Dynasty, i lucenti anni '80, ma alla fine essere solo una parodia che non ci ha creduto abbastanza
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