È stata la mano di Dio, la recensione: un Sorrentino così non lo abbiamo mai visto!

recensione di È stata la mano di Dio

Nel secondo giorno della Mostra del Cinema di Venezia arriva una tanto gradita quanto inaspettata sorpresa. Un po’ come accadeva nel 2018 con l’anteprima de La Favorita dove una scettica Gabriella, mai stata davvero amante del cinema di Yorgos Lanthimos, si apprestava a restare delusa per l’ennesima volta per poi ricredersi di fronte ad una delle pellicole più belle degli ultimi dieci anni, anche oggi nello scrivere la recensione di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, provo un po’ le stesse sensazioni.

Dopo La Grande Bellezza ed un cinema fatto di apparenza, estetismo ed egocentrismo smisurato sacrificando narrazione, sincerità e storia, Paolo Sorrentino porta a Venezia il suo film più intimo, più vero, più sincero e, molto probabilmente, più complesso.

É stata la mano di Dio è un film che racconta Napoli, racconta il mito di Maradona e l’importanza che i tifosi napoletani hanno dato a el Pibe de Oro, eleggendolo quasi a Messia capace di fare tutto, davvero tutto, anche di salvare vite. Nel vero senso della parola. E Paolo Sorrentino, tra il fatalismo e la credenza tipica del sud Italia (e a scrivere è un’orgogliosa pugliese/campana), avvalora e omaggia questa iconica mitologia dietro il calciatore Diego Armando Maradona, proprio attraverso un feroce e tragico spaccato di vita vissuta.

Paolo Sorrentino porta a Venezia il suo film più intimo, più vero, più sincero e, molto probabilmente, più complesso

La nuova pellicola di Sorrentino, la quale non passerà di certo inosservata in questa 78esima edizione, puntando i piedi sicuramente per i premi più ambiti, parla anche di amore: amore per il cinema, per le proprie radici, amore da trovare in se stessi, amore da scoprire, da prendere e anche da perdere.
Un amore fragile, molto intimo e personale che il regista napoletano decide di condividere con noi in un modo mai fatto prima.

recensione di È stata la mano di Dio

Quello di Sorrentino è un atto d’amore verso il cinema, verso la sua famiglia, verso Maradona e verso Napoli, ma anche verso il suo pubblico, tanto di amanti quanto di detrattori. Difficile non restare colpiti da questo film, in un modo o nell’altro una storia universale, capace di toccare molto intensamente le corde del vissuto di chiunque la guardi, in un modo e nell’altro.

C’è la storia di tutti in È stata la mano di Dio, è nascosta tra i dettagli, tra i paesaggi, i personaggi disincantati e le relazioni sociali, personali. È nascosta nel trauma, nel sogno, nella perdita e nella conquista.

Un film che coglie impreparati di fronte alla potenza, all’intensità e la vastità pulsante dell’emozione più pura, del dolore più feroce, che mette il regista al centro di tutto.

Ed è più che apprezzabile come Paolo Sorrentino si sia “spogliato” davanti la macchina da presa, lasciando a casa il manierismo, lo sdolcinato e vacuo estetismo, l’eccesso e il fronzolo barocco non necessario ai fini della storia, concentrandosi unicamente sui personaggi, sul racconto, sulla bellezza intrinseca di una Napoli ferma nel tempo, sull’irriverente ironia del popolo napoletano, sulla scomodità del linguaggio – che qualcuno definirà non corretto ma le pellicole e i periodi storici vanno analizzati e qui ci troviamo negli anni ottanta – e sulle emozioni, quelle forti, quelle belle, quelle che fanno male.

Per tanti anni si è accostato – in modo non del tutto appropriato – il cinema di Sorrentino a quello di uno dei suoi grandi idoli (e che ovviamente avrà un “cameo” anche in questa pellicola), ovvero Federico Fellini;  forse, per la prima volta, ci troviamo effettivamente di fronte al primo film che, per tipologia di contenuto e modo di esposizione, si può davvero avvicinare al cinema dell’immortale regista de La Dolce Vita, ovvero Amarcord.

Paolo Sorrentino firma il suo “Amarcord”

recensione di È stata la mano di Dio

Fabietto Schisa è un ragazzo introverso, impacciato e che ancora non ha ben capito chi vuole essere, cosa vuole essere, dove vuole essere. Alla ricerca della sua strada, Fabietto aspetta solo un grande evento nella sua vita:

l’arrivo di Maradona nel Napoli.

Sogno o realtà? Sospeso quasi come se da questa scelta dovesse dipendere la sua stessa esistenza, Fabietto si muove sotto gli sguardi, le attenzioni e disattenzioni della sua allargata famiglia: da una parte i genitori Saverio e Maria, nel loro amore imperfetto ma sincero, così ironico, brillante e diverso dal solito, poi ci sono Marchino, fratello più grande e aspirante attore, e poi Daniela, perennemente chiusa nel suo mondo e… nel bagno; dall’altra parte c’è una famiglia sgangherata e tipica di qualsiasi altra famiglia, dove a regnare è una quotidianità semplice, fatta di ironia, sentimento, complicità ma anche di segreti, sguardi schivi e solitudine.

La pellicola si apre nel nome della leggerezza, un’atmosfera coinvolgente, piacevole e che fa leva sull’empatia del pubblico che, immediatamente, percepisce il senso di casa, di famigliarità di quelle immagini che lavora in sottrazione ma conservando comunque il gusto per il dettaglio, senza però perdersi in elementi superficiali.

Ogni singola inquadratura, ogni momento di silenzio o piccola sfumatura, nasconde per Sorrentino un duplice significato. Ci racconta della sua Napoli, della sua famiglia, della sua infanzia e di quello che, in fondo, è un mondo che appartiene a tutti quanti noi.

Ci si perde tra i vicoli e ci si ritrova in un pranzo di famiglia dove il sarcasmo prende il sopravvento, finendo per creare situazioni estreme, bizzarre, ilari ma che al tempo stesso nascondono ferite più profonde, ancora fresche. Lo si vede nel volto provato di Zia Patrizia (Luisa Ranieri), bella, bellissima e al tempo stesso in continuo conflitto con tutto e con tutti, compresa se stessa.

Patrizia, nella sua follia di donna, incarna quella speranza nel sogno. Quell’intramontabile bellezza femminile e sensuale che Sorrentino più volte ha inserito nei suoi film, questa volta però scrivendo un personaggio incredibilmente complesso, un personaggio a cui viene dato il compito di aprire la pellicola e che, in fondo, funge un po’ da traino nella vita di Fabietto. La famigerata musa che porterà il giovane Fabio a compiere una scelta difficile ma coraggiosa. Una scelta che lo avvicinerà un po’ di più a trovare le risposte sul futuro che tanto cerca. A trovare le parole. Le immagini. Le storie da raccontare, da urlare a gran voce, mostrandole al mondo intero, anche se questo vorrà dire – in un modo o nell’altro – tradire, abbandonare, recidere.

Le “immagini cartolina” che hanno da sempre caratterizzato il cinema di Paolo Sorrentino, non vengono completamente abbandonate, al tempo stesso però viene dato loro un senso di profondità maggiore. Non ci muoviamo più su un semplice sfondo di immutata bellezza, come una foto al tramonto. Questa volta la tridimensionalità dei luoghi napoletani viene data dall’interazione dei personaggi, tanto tra se stessi quanto con gli stessi luoghi.

Scopriamo le meraviglia della Campania in ogni sua forma e sfumatura, in diverse fasi della vita – o meglio in un anno di vita – di Fabietto, attraverso non solo i movimenti ma anche i dialoghi. I dialoghi che raccontano di emozioni represse, pensieri nascosti e paure da svelare. Ma anche il dolore da urlare e sogni da far avverare.

E tutto questo ci riconduce alla grande regina di questo film: la parola.

L’importanza delle parole, delle battute, dei dialoghi

recensione di È stata la mano di Dio

Procedendo con questa recensione di È stata la mano di Dio, tra entusiasmo ed emozione, si comprende che il film è fatto soprattutto di personaggi e di parole, dette e non dette.

Se fossi costretta a scegliere la cosa che più mi è piaciuta di questo film – perfetto ed incantevole – non avrei alcun dubbio nel rispondere: i dialoghi.

Paolo Sorrentino prima ci catapulta in atmosfere leggere, ilari, dove l’esaltazione e la spettacolarizzazione della battuta sono al centro dell’attore, ma senza però mai renderla irrealistica o teatrale. Sfrutta la parlata napoletana e i cliché classici come enfasi della naturalezza del personaggio.

Tanto nelle parti più comiche – se così possiamo definirla, per quanto sempre una vena di amarezza punge la punta della lingua – quanto in quelle più drammatiche, ogni personaggio coinvolto è posato, estremamente naturale, come se il regista stessa davvero rubando scene della vita di tutti i giorni.

Plauso di questo non va fatto unicamente alla grande maestria e padronanza di scrittura e dialoghi, ma anche all’incredibile bravura di tutti gli attori, da icone più navigante e colme di esperienza come Toni Servillo alla brillante sorpresa che riserva il giovane Filippo Scotti che, in ogni sguardo nascosto, silenzio, parole, sembra essere la copia riflessa allo specchio di Sorrentino.

E più passano i minuti e più ci sentiamo parte della famiglia Schisa, più i personaggi vengono sviscerati, la perfezione perde di sostanza e i rancori, le bugie, le solitudini esplodono in un climax vorticante che ci mostra le diverse sfumature, da un estremo all’altro, dell’emozioni umane.

La coppia Toni Servillo – Teresa Saponangelo racchiudono nella loro relazione parte del cinema del regista, e probabilmente anche del suo privato. Il rapporto con i genitori mai conflittuale, sempre stimolante, attento, brillante ma che nasconde anche le inevitabili incomprensioni, i litigi più feroci e le scelte incomprensibili viste dagli occhi dei figli, troppo giovani, troppo immaturi.

In modo particolare il rapporto di Fabietto con sua madre è di una tenerezza disarmante. Ancora una volta il ruolo della donna diventa dominante nella vita del regista e lo fa trasparire con una delicatezza pura da far commuovere, emozionare. Un’empatia madre e figlio che raggiunge vette di estrema commozione.

Alla fine del film si ha voglia di piangere, chiamare i propri genitori – per chi ha la fortuna di averli ancora – oppure i propri fratelli, sorelle, zii, nonni, quei legami che fanno bene e che fanno male, che ci fanno sentire ancora così uniti, legati ai luoghi, ai ricordi, al passato.

“Io voglio fare il cinema”

recensione di È stata la mano di Dio

In ultima battuta, potremmo dire che È stata la mano di Dio è un film in tre parti: infanzia, adolescenza, età adulta.

L’ultima, la maturità, il momento delle decisioni, delle scelte, di tirare fuori la testa dal buco e confrontarsi, esporsi, smettere di vivere nel passato e cominciare a pensare seriamente al futuro. Qui il film di Sorrentino assume una sfumatura ancora più inaspettata, ancora più intensa, forse una delle più commuoventi.

Un incredibile dialogo/monologo tra Fabietto e Antonio Capuano (regista napoletano) lungo una notte intera e che tocca il suo apice nell’alba napoletano. Solo a questo punto del film un timido accenno di musica, la quale ha sempre avuto un ruolo importante nei film di Sorrentino, comincia a manifestare la sua presenza, nonostante le cuffie perennemente appese al collo di Fabio.

Solo ora che “i giochi sono fatti”, ed un nuovo capitolo è pronto per prendere inizio e cambiare, ancora una volta, radicalmente la vita di Fabio/Paolo, la musica comincia a racconte delle emozioni, dei personaggi e dei luoghi.

L’incontro scontro Fabio/Capuano porta alla luce pensieri sul cinema, sul mondo del cinema e sul modo di fare cinema. Sulle correnti di pensiero di chi ricerca l’idea, il sogno, la storia al di là della propria casa e chi, invece, ha bisogno di raccontare casa sua. Su chi sussurra e chi, invece, urla. Su chi racconta di immagini e chi di storie. Su chi fa politica e chi gioca di fantasia.

La fine di un uragano che investe completamente lo spettatore. Porta all’esaltazione massima di un film fino a questo punto estremamente semplice, lineare e al tempo stesso ricchissimo di sfumature.

È quasi una violenza, e al tempo stesso il più appassionato omaggio al cinema, ciò a cui assistiamo sul finale, prima di trattenere l’ultimo respiro, fare quasi ammenda, chiederci scusa, fare pace con noi stessi e lasciarci cullare su una delle canzoni della contemporaneità napoletana più belle di sempre.

Non so esattamente Paolo Sorrentino cosa farà dopo questo film. Dopo questo cambio radicale, violento e personale. So solo che da È stata la mano di Dio non si torna indietro, né per un regista come Sorrentino né per uno appassionato di cinema né tanto meno per uno spettatore meno allenato.

È un film che cambia la visione di chi lo guarda. Gli parla. Lo ascolta. Gli fa male e poi lo consola, dolcemente, delicatamente, un po’ come la carezza di una mamma prima di andare a letto.

 

È stata la mano di Dio verrà distribuito dal 24 Novembre in copie limitate al cinema e dal 15 Dicembre su Netflix

 

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Segui la 78esima Mostra d’Arte Internazionale del Cinema di Venezia, dal 1 all’11 Settembre, con noi sull’hub: leganerd.com/venezia78

90
È stata la mano di Dio
Recensione di Gabriella Giliberti

Paolo Sorrentino con É stata la mano di Dio firma un film fatto di connessioni e di empatia con il pubblico. Una storia che diventa la storia di tutti, che sa colpire - in un modo o nell'altro - qualsiasi tipo di spettatore. Una pellicola sincera, complessa ed intima dove il regista di metta a nudo accompagnato da un cast perfetto, in pieno stato di grazia. Un film sull'amore, su Napoli, sul cinema, sull'imprevedibilità della vita e sull'importanza di credere in qualcuno o qualcosa, che sia Dio o un calciatore.

ME GUSTA
  • Il film più intimo, sincero e puro di Paolo Sorrentino
  • Personaggi straordinari, meravigliosamente scritti e che fin da subito danno la sensazione di "casa" allo spettatore
  • Particolare occhio di riguardo per Luisa Ranieri nel ruolo di Patrizia, probabilmente il miglior personaggio femminile mai scritto da Paolo Sorrentino
  • Fiore all'occhiello del film è la sceneggiatura, soprattutto i dialoghi: incalzanti, mai scontati, carichi di vita
  • Il dialogo sul cinema tra Fabietto e Antonio Capuano
FAIL
  • I più ostinati contrari al cinema di Sorrentino potrebbero comunque non amare troppo la messa in scena, ma vi consiglio di andare oltre e dedicarvi completamente alla storia.
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