Perché la serie di The Last of Us funziona più di Halo e Resident Evil

The Last Of Us 6

The Last of Us sta per arrivare all conclusione della prima stagione, ma in cosa ha funzionato tanto da renderla un capolavoro, più di quanto fatto da Halo e anche da Resident Evil?

Il sogno di tutti i videogiocatori è vedere, spesso, le proprie opere preferite trasposte in altri media. Non si tratta esclusivamente di un concetto di rimediazione, ma anche di diffusione di un franchise, di una condivisione della propria passione. In quanti avete convinto un parente, un amico, il partner a guardare quella specifica serie perché proveniente da un videogioco al quale loro non avevano giocato? Ebbene, quello che ci ha permesso di fare The Last of Us ci mancava, perché non sempre ci è andata bene con i videogiochi trasposti al cinema o in televisione.

Il successo di The Last of Us

The Last of Us, ora che manca l’ultimo episodio e quindi siamo in attesa di poter paragonare il finale della serie a quello del videogioco, ha saputo dimostrarsi e attestarsi come una delle serie meglio realizzate, meglio scritte e meglio recitate tratte da un prodotto videoludico. Anzi, potremmo dire che si tratta della migliore mai fatta. Una speranza che abbiamo riposto in tantissimi, proprio per poter avere una delle pietre miliardi della storia del videogioco riprodotta non solo fedelmente, ma con tutti i crismi necessari per arrivare a realizzare qualcosa che restasse nella storia anche di un altro medium. Così è stato, perché la storia di Joel e di Ellie ha conquistato tutti, anche chi si è approcciato per la prima volta a The Last of Us, vergine dell’esperienza vissuta nel videogioco, per tanti motivi e aspetti.

Partiamo dal primo, quello più scontato: la capacità di trasporre ciò che è stata l’esperienza videoludica in una serie televisiva, mantenendo lo stesso canovaccio, in molte parti anche le stesse inquadrature, ma aggiungendo maggior caratterizzazione e rimpinguando la storia con quelli che sono elementi fondamentali per una costruzione televisiva. The Last of Us ha eliminato le spore, ha aggiunto più dettagli per contestualizzare il Cordyceps, ha dato più profondità al trauma di Joel, ha creato un climax affettivo tra i due protagonisti che è andato a intensificarsi di puntata in puntata. Ci ha permesso di vivere meglio il dramma, elidendo dall’equazione quelle sessioni, a volte prolisse, che richiedevano di intervallare coperture strategiche ad assalti che ci facevano consumare l’intero caricatore delle nostre armi. Ci ha donato delle variazioni sul tema narrativo che ci hanno fatto apprezzare ancora di più la vicenda complessiva.

La puntata dedicata a Bill, il modo in cui Neil Druckmann ha deciso di ridare dignità e spessore a un personaggio tra i più odiati all’interno del videogioco, ne è un grande esempio. Una riscrittura durata una puntata intera, in grado di farci sbirciare anche su quello che è stato il passato, il pregresso, così da giustificare ciò che abbiamo visto nel videogioco e allo stesso tempo fornire allo spettatore novizio un nuovo dramma al quale affezionarsi, per avere uno spaccato sull’apocalisse. Da lì in avanti, andando a ricostruire molti dei personaggi che nel videogioco non hanno tempo di guadagnare spessore, The Last of Us ha saputo ritagliarsi uno spazio importante nel panorama delle serie televisive drammatiche raccontando non una storia di zombie, ma una storia di rinascita, di una seconda chance.

L’arroganza produttiva di Halo

The Last of Us, insomma, è riuscita là dove tante altre storie tratte dai videogiochi non sono riuscite. L’esempio più recente è una produzione che in Italia è stata sempre ad appannaggio della distribuzione di Sky Atlantic, ossia Halo. Figlia di una durissima produzione rovinata dal Covid-19, la prima stagione della serie con protagonista Master Chief ha accusato non poco il colpo della necessità di raccontare qualcosa di nuovo, approfondendo, anche qui, l’aspetto umano, il dramma, ma non riuscendo a cogliere il senso del progetto e dell’operazione stessa. Ai puristi di The Last of Us sono state tolte le spore, a quelli di Halo è stato mostrato, invece, il volto sotto la maschera. Se nel primo caso la necessità è stata meramente legata alla produzione, nel secondo si è cercato di dare un aspetto più umano a un supersoldato che stava per affrontare il trauma dell’infanzia strappata e di una vita caratterizzata dall’annullamento dei sentimenti.

Se il personaggio di Master Chief funzionava, non riusciva a farlo tanto quanto Joel. È chiaro che alla base delle due serie televisive vi fossero due fondamenta davvero diverse, quasi agli antipodi: The Last of Us racconta una storia, alla quale aggiunge una componente videoludica; Halo pone il gameplay al centro della propria esperienza e di contorno inserisce una storia, sviluppata, tra l’altro, in libri, graphic novel, una serie ben più longeva di capitoli e poi sfocia in un qualcosa di originale per la televisione. Mancava, insomma, il vero cuore narrante della storia, tanto da aver spinto gli autori a fare qualcosa che fosse totalmente nuovo.

Io sono Leggenda sequel

Non è l’unica grande differenza che intercorre tra le due produzioni, perché sarebbe riduttivo affermare che The Last of Us aveva già una trama forte sulla quale basarsi e per questo motivo ha vinto. Halo, purtroppo, ha insistito eccessivamente sulla costruzione su più stagioni, si è crogiolato sul suo avere già una seconda stagione confermata per rendere la prima un’enorme introduzione a ciò che sarebbe successo dopo, costruendo linee narrativa che non sono state soddisfatte e che, anzi, hanno creato più domande che fornito risposte. La costruzione a doppia strada, per ora parallele ma chissà per il futuro, ha creato ancora più confusione, dando a John-117 una dimensione di prescelto che non era mai stata eccessivamente paventata nel videogioco, se non per le sue grandi capacità e competenze militari. In questa eccessiva ricerca della creazione di un franchise più grande del dovuto, nella speranza di costruire un fenomeno che andasse oltre il videogioco, Halo si è ritrovato a dover gestire una montagna che non sapeva come valicare.

La terza strada: il tentativo Resident Evil

Un problema che ha caratterizzato, molto più di recente, anche la serie di Resident Evil pubblicata – e poi cancellata – su Netflix. Pochissimi punti di contatto con ciò che era davvero il videogioco, se non un filo conduttore che porta tutti a Raccoon City e quel disastro del 1998 che ha condizionato la vita dei protagonisti. Le figlie di Albert Wesker, Jade e Billie, si ritrovano a dover fare luce su oscuri segreti, condizionati da quell’evento che ha dato il via alla saga di Resident Evil, ma stavolta senza alcun tipo di mordente. Una terza strada ancora, diversa sia da The Last of Us (che ricordiamo aver seguito il videogioco, non pedissequamente) sia da Halo (che invece ha creato una storia originale, un nuovo canone, mantenendo alcuni dei personaggi chiave): un sequel ambientato su due linee temporali che finiscono per intrecciarsi, creando una storia di sopravvivenza e di ricerca che non ha mai la capacità di sfociare in qualcosa di affascinante.

Complice una scrittura con poco criterio, ricollegare il tutto a Resident Evil è sembrata più un’operazione di mero marketing, creando un sequel che non ha saputo dare dignità e onore al franchise. C’era la speranza, l’obiettivo di creare qualcosa che potesse dare un’alternativa ai fan, che avrebbero potuto così osservare quello che le ben note vicende hanno poi creato e costruito negli anni a venire, che mondo hanno lasciato ai posteri e in che condizione versa adesso la civiltà dopo il disastro firmato Umbrella. Oltre ad avere evidenti problemi nel modo in cui la sceneggiatura è stata pensata. Guardata con occhi vergini e scevri dall’essere condizionati dalla saga videoludica, Resident Evil poteva anche dimostrarsi gradevole, al di là degli evidenti problemi di scrittura, ma per chi parte con la conoscenza del videogioco e con il desiderio di poter condividere e ampliare la propria passione si è trattato di un grande passo falso, che in qualche modo ci ha fatto anche vergognare di dire “sì, è tratto da un videogioco”. Una frase che The Last of Us ci ha permesso di rendere con un’accezione positiva, a testa alta, a petto fiero. Finalmente.

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