The Sandman, la recensione: morire, dormire, forse sognare

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Stenterete a crederci, ma è proprio ciò che sembra, state per leggere una recensione di The Sandman in cui non si parlerà della leggendaria serie a fumetti creata da Neil Gaiman, ma del tanto atteso adattamento per lo schermo. Non grande, come per tanti anni è stato preannunciato (vi ricordate? Quello in cui Morfeo doveva avere il volto di Joseph Gordon-Levitt), ma piccolo. Una scelta obbligata se ci pensate perché va a risolvere una delle problematiche principali che non hanno permesso la realizzazione dei progetti precedenti: l’impossibilità di poter traslare la mole della storia in un format pensato per avere un suo senso nel giro di massimo (massimo!) 180 minuti.

C’è sempre Warner Bros., come era previsto fin dagli albori di un’idea di Sandman diversa dai fumetti, ma c’è anche Netflix, che è stata fondamentale sia per essere un nome nella posizione di poter investire (molto) e rischiare (altrettanto) sia perché ha permesso una collaborazione più stretta con Gaiman, eventualità che per motivi di “differenti professionalità” non era stata mai garantita in precedenza.

Quello su cui punta la serie è infatti proprio la coerenza e la fedeltà al fumetto, non solo per quanto concerne la sua struttura, ma soprattutto riguardo il rispetto assoluto dei suoi cuori narrativi.

C’è una bellissima intervista realizzata da Gianmaria Tammaro all’autore britannico in persona in cui si approfondisce questo aspetto riferibile al suo coinvolgimento nella concezione e nella lavorazione del titolo che debutta (interamente) il 5 agosto 2022. Io la consiglio caldamente. La trovate qui.

David S. Goyer, che oltre ad essere fumettista ha lavorato nella trilogia del Batman di Nolan e ad altri progetti cinematografici Marvel e DC, e Allan Heinberg, penna dietro a Wonder Woman: 1984, hanno condiviso fin da subito questo intento con Gaiman e nella stesura di soggetto e sceneggiature sono partiti prima di tutto da questo. Con tutte le modernizzazioni del caso.

Far coesistere due anime per creare realmente una versione di Sandman credibile e soddisfacente, ma sincronizzata alla contemporaneità.

Intento alquanto ambizioso e altrettanto dichiarato sin dalle prime battute, basti guardare alle scelte di cast, in cui non ci si è fatti problemi a reimpastare e a cambiare etnie, generi e inclinazioni sessuali (anche in modo accattivante e diegeticamente funzionale) nel nome di una corretta inclusività, e alla struttura dei 10 episodi, i cui titoli e composizione richiamo i primi due cicli della serie a fumetti, Preludi e Notturni e Casa di Bambola.

Una serie coraggiosa, che non si è fatta spaventare dall’ombra lunga del nome che porta, ma ha deciso di alzare da subito l’asticella, sia in termini di scrittura che di budget. Di per sé già motivo sufficiente da farle meritare una visione. Come diceva qualcuno: “se il coraggio un premio non è, cos’è?

Rigore flessibile

Sandman di Neil Gaiman nacque da una provocazione, quella che raccolse l’allora editrice DC, Karen Berger, la quale decise di affidare la “restaurazione” di un personaggio fino a quel momento relegato al ruolo di comparsa ad un autore che, pur non essendo mai stato un fedele del media fumettistico (se ne interessò solo quando rimase folgorato dal Swamp Thing di Alan Moore), fu in grado di concepire un originale molto interessante (Violent Cases) insieme ad un monumento come Dave McKean (con cui continuò a collaborare) e di ridare vita a Black Orchid, che rischiava di cadere nel dimenticatoio.

Una scelta azzardata che diede vita ad un ciclo che non solo durò dal 1988 al 1996 (più extra) e che contò al suo attivo 75 volumi (più extra), ma che, forse per primo, ebbe il merito di creare il mito dell’autore fumettistico a livello popolare. Con buona pace di Miller, Moore, Lee, Kirby e via dicendo.

Verrò ucciso per questo, lo so.

Tom Sturridge e Kirby Howell-Baptiste

Capite ora l’importanza a livello storico di una serie che tutt’ora rimane un unicum per struttura, contenuti e scrittura dei personaggi, non solo in quanto singolarità, ma anche per la loro funzione all’interno di un percorso narrativo più o meno canonico. Capite anche perché dalla sua natura così unica e irripetibile (e irripetuta) era corretto e, in un certo senso, obbligatorio, ripartire.

Fin dai primissimi minuti di visione si evince come la cura nella fedeltà della trasposizione è stata la prima preoccupazione degli autori, che ripropongono addirittura intere fette di dialoghi e inquadrature dal fumetto, centellinando i cambiamenti e inserendoli chirurgicamente all’interno dello sceneggiato per non alternare mai il senso del materiale da cui è tratto. Il senso, fate attenzione, ovvero il suo focus, il suo sottotesto, il suo interesse, non per forza il suo svolgimento in termini di sequenzialità o causa effetto.

Scelta azzardatissima, dato che l’intera serie a fumetti ha, tra le sue particolarità, quella di avere una struttura drammaturgica sfilacciata, se mi permettete. Composta da storie autoconclusive, da un’interruzione e una rielaborazione delle strutture drammaturgiche canoniche e, per di più, con un protagonista che spesso si tiene lontano dal centro dell’azione.

Tom Sturridge e Gwendoline Christie

Dieci episodi, divisi in due blocchi ben distinti (i due cicli indicati sopra), ricomposizione dell’eroe e “prima avventura”, con due toni differenti, separati da due puntate centrali (due due due).

Quelle che richiamano il senso di originalità di cui vi parlavo e, a mio avviso, le più riuscite.

La prima perché lo schermo è occupato interamente dalla versione mefistofelica di quell’attore enorme che è David Thewlis, la seconda perché consente un’incursione nella mente di Morfeo e permette di prendersi una pausa dalla storia nel suo complesso per porre la lente di ingrandimento sull’anima del protagonista, sui suoi bisogni e paure. E anche per parlare di immortalità. Qui risiede anche la più evidente prova di Tom Sturridge, che si scrolla di dosso definitivamente il ragazzetto sfigato di I Love Radio Rock per restituire la parte più umana del Re dei Sogni.

Il cast è stato uno degli elementi che ha fatto più discutere i fan, ma bisogna dire che la Johanna Costantine di Jenna Malone, il Lucifero di Gwendoline Christie (una delle scelte più audaci non per il sesso dell’interprete, ma per ciò che si lascia intendere sulle sue inclinazioni), Morte di Kirby Howell-Baptiste e persino la Rose Walker di Vanesu Samunyai sono tutte scelte molto valide. Non parliamo neanche del Corinzio di Boyd Holbrook, nel ruolo come poche volte. Le criticità si possono trovare dalle parti di Desiderio di Mason Alexander Park, mentre è e rimane una garanzia Charles Dance.

Le frizioni della traduzione

Dunque, qual è il prezzo per una trasposizione così fedele? Che ogni media ha le sue regole, la sua grammatica, i suoi tempi e la sua fruizione. Elementare.

La storia del cinema ha insegnato più volte come non è possibile, ma neanche troppo utile, proporre un adattamento che avesse come mira quella di essere una copia dell’originale e che cercare il successo in una dimensione come quella testuale è mal riporre la propria fiducia.

Non è su quel campo che si gioca la riuscita di un prodotto o meno.

Boyd Holbrook

I difetti sono tutti un po’ là, perché The Sandman presenta di difetti nella gestione dei tempi, nell’organizzazione del ritmo e nella coerenza drammaturgica.

In poche parole: nella scotto del tipo di traduzione che ha deciso di adottare.

E qui si può aprire un dibattito intero su quanto sia da sottolineare il merito di essere riusciti a realizzare un adattamento che è epocale anche solo per la sufficienza del risultato, oppure quanto sia un’occasione sprecata perché si è deciso di non rielaborare il materiale originale. Tutto quello che cambia è solo in nome di una revisione metacinematografica o di un tentativo di ristabilire un sentiero drammaturgico meno spezzato possibile. Ai posteri l’ardua sentenza.

Quello che invece convince sicuramente poco è la resa visiva, che sposa in pieno un altro prodotto british firmato Gaiman, ovvero Good Omens, sacrificando la brutalità, l’oscurità, la sporcizia, l’onirismo, l’evocatico, lo sfumato, il “non definito” delle tavole del fumetto in nome di una dimensione che tenda costantemente al bello, al magico, al luminoso e al pulito. Il risultato è una plasticità un po’ anonima e una (alta) definizione che perde molto del suo allaccio al contenuto metafisico, che era un intrigante segno distintivo della parte estetica del fumetto, a partire dalle copertine di McKean. Nonostante l’uso di un budget molto importante e di una CGI che incontra diversi picchi di qualità.

Il cuore della storie

Finiamo però con le cose belle.

Sandman ha permesso a Gaiman la più completa libertà autoriale, dato che esso è diventato un contenitore per l’immaginario di un autore che ha deciso di raccontare una storia sull’importanza delle storie, dato che solo attraverso di esse l’uomo legge se stesso e legge la realtà, vive, muore, spera, ama, odia e sogna.

La sua è stata una forma molto intrigante di postmodernismo, dato che l’intero impianto narrativo del fumetto si basa sulla rielaborazione di mitologia cristiana e greca, folklore nordico e africano, racconti shakesperiani, fiabe e favole. C’è Dante, c’è Milton e via dicendo.

the sandman

Al centro delle storie c’è il narratore perché diventa anche ciò che viene narrato ed entrambi non sono nient’altro che gli uomini, di cui il protagonista di Sandman è un sottoposto, un servitore, condannato alla sua immortale posizione di testimone / osservatore esterno (e cosa poteva essere altrimenti?). L’essenza della serie sta non suo prendere progressivamente la forma di un trattato sull’essere umano e tutto ciò che compone la sua costellazione interna: l’amore, i legami familiari, il rapporto con l’altro.

L’aver mantenuto questa forma è anche il più grande pregio di The Sandman, perché questo è ciò che la rende degna di essere un adattamento di un qualcosa che è stato così importante per la vita di tanti lettori in tutto il mondo. E forse era proprio questa la cosa più difficile.

I 10 episodi di The Sandman sono disponibili su Netflix dal 5 agosto 2022.

75
The Sandman
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

The Sandman è, stentiamo a scriverlo anche noi, il tanto atteso adattamento della leggendaria opera a fumetti di Neil Gaiman, che è stato chiamato da Netflix in prima linea anche per questa realizzazione insieme a David S. Goyer e a Allan Heinberg. Il titolo è un tentativo più che degno di adattamento di un materiale originale tra i più complicati nella storia letteraria comics, la cui ambizione è stata quella di portare sul piccolo schermo una versione il più possibile fedele, ma non rinunciando ad una sincronizzazione con il contemporaneo, lo si capisce anche dal cast. Ordinata, meticolosa e chirurgica nella riscrittura, la serie paga lo scotto del passaggio da un media all'altro, ma pecca soprattutto nella parte estetica, rischiando un anonimato visivo figlio della fotografia e di una definita luminosità. Di contro non perde nulla del cuore pulsante del materiale di provenienza.

ME GUSTA
  • La cura filologica e la coerenza strutturale con il materiale di partenza.
  • Il cast non è eccezionale, ma funziona nel contesto in cui è chiamato a lavorare.
  • Il cuore pulsante del fumetto batte forte anche nella serie.
  • Esiste una trasposizione di Sandman degna di questo nome.
FAIL
  • La serie paga in qualche passaggio lo scotto della fedeltà nella trasposizione.
  • C'è più di qualche criticità nella parte visiva, l'unica che tradisce un po' lo spirito del materiale originale.
  • Sul piatto della coerenza e il rispetto la serie sacrifica in parte la ricerca di una propria personalità prima di tutto immaginifica, ma siamo solo al primo atto dopo tutto.
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