Il 2022 è stato un anno che non ci dimenticheremo facilmente, e questo è vero anche (se non soprattutto) per il mondo della tecnologia e dell’innovazione. Le criptovalute sono esplose. Di nuovo. Elon Musk si è rovinato con le sue mani. I social sono morti e l’Unione Europea rivoluzionerà il mercato dei prodotti e dei servizi digitali.

 

Il circo Elon Musk

Il 2022 è stato l’anno di Elon Musk, suo malgrado. Non è più l’uomo più ricco del mondo e la disastrosa gestione dell’affare Twitter ha rovinato, probabilmente irrimediabilmente, la sua reputazione: da genio ammirato pressoché all’unanimità a villain maldestro e goffo. Ad inizio del 2022 Tesla valeva oltre 1.000 miliardi, oggi il market cap si ferma a 345 miliardi (e il sospetto è che il titolo continuerà a crollare per tutto il corso del 2023).

Doveva acquistare Twitter per 44 miliardi, poi ha cercato di tirarsi indietro rischiano una causa che avrebbe potuto avere esiti disastrosi, poi ci ha ripensato nuovamente decidendo di chiudere l’affare, strapagando un social network in profonda difficoltà economica e che si è dimostrato una fonte inesauribile di problemi. A novembre Musk ha ordinato il licenziamento di circa la metà dei dipendenti di Twitter, salvo essere costretto a supplicare alcuni di loro di tornare in ufficio, dopo aver scoperto che erano fondamentali per il funzionamento del social. I tentativi di introdurre nuove forme di monetizzazione con una nuova versione di Twitter Blue al momento non hanno dato i risultati sperati, mentre la decisione di includere trai vantaggi dell’abbonamento anche la spunta blu (che un tempo veniva data solo ad aziende e celebrity) ha prodotto risultati disastrosi creando gravi danni economici ad alcune aziende.

Quantomeno dall’acquisizione di Elon Musk sono nati i Twitter Files, cioè la pubblicazione (curata da alcuni giornalisti di diverso orientamento politico) di alcune email e documenti interni del social network, che hanno rivelato pubblicamente le pratiche opache e gli ambigui rapporti con l’FBI e la Casa Bianca del precedente management, sollevando numerosi interrogativi sulla neutralità delle piattaforme tech e sulle tendenze censorie e autoritarie di parte del mondo progressista (su questo vale la pena di leggere un lungo editoriale firmato da Mattia Feltri, direttore del quotidiano Domani).

La morte dei social network

In caso non ve ne foste accorti, il 2022 è stato anche l’anno che ha portato sempre più persone a chiedersi se i social network – per come li conoscevamo fino a pochi anni fa – siano già morti o quantomeno in procinto di farlo.

I social di social non hanno più nulla: gli utenti sono stati ridotti a spettatori passivi

Facebook ormai è dominato dai vecchi: i giovani lo schifano e preferiscano altre piattaforme. Instagram non se la passa benissimo, Twitter nemmeno. Milioni di utenti per la prima volta hanno deciso di uscire dalla loro comfort zone cercando alternative più sane alle piattaforme di cui erano stati utenti per oltre un decennio (da BeReal a Mastodon). TikTok lo possiamo davvero considerare un social network? È in assoluto la piattaforma social di maggiore successo degli ultimi due anni, ma dei milioni di utenti iscritti, quanti hanno caricato anche solo un video (o si sentono a loro agio a farlo?) e quanti invece sono spettatori passivi di una pletora sempre più ampia di influencer, brand e guru di ogni genere? E ci avete fatto caso che trequarti dei vostri amici e parenti – le persone comuni, non quelle con velleità da creatori di contenuti – non stanno postando più nulla da mesi se non anni?

Perché dovrebbero, del resto: le stesse piattaforme social hanno sostituito gli utenti comuni con i contenuti, che ora dominano il tuo feed. Spezzoni di interviste, di talk show, candid camera, consigli per il make-up e ricette per la cucina, per non parlare degli onnipresenti fottuti gattini e cagnolini, che vanno bene per tutte le stagioni.

I social di social non hanno più nulla. Sono diventati dei palcoscenici affollatissimi ma preclusi alle persone comuni, che ormai hanno iniziato a cercare quelle interazioni che avevano caratterizzato Facebook e Instagram dei primi anni altrove, ad esempio nelle stanze private di Discord o nei gruppi di WhatsApp e Telegram.

La bolla delle criptovalute è scoppiata, di nuovo

A novembre del 2021 un Bitcoin valeva 69.000 dollari, mentre scriviamo questa notizia ne vale 16.657. Le altre criptovalute non se la passano meglio: Ehtereum ha perso il 66% del suo valore in un anno, mentre Solana ha addirittura perso il 94%.

Una tempesta perfetta che ha fatto crollare pezzi sempre più grandi ed importanti del settore delle criptovalute

Una tempesta perfetta: si parte dal taglio dei tassi d’interesse che hanno penalizzato pressoché tutti gli asset altamente speculativi, passando per la guerra in Ucraina e un effetto domino che ha fatto crollare pezzi sempre più grandi ed importanti del settore: da Terra-Luna, una criptovaluta che in teoria doveva essere ancorata al valore del dollaro e in realtà è crollata a zero, a FTX, quello che veniva considerato il secondo exchange più grande al mondo e che si è in realtà scoperto essere gestito in maniera spericolata e (probabilmente) fraudolenta dal suo fondatore: Sam Bankman-Fried, recentemente arrestato alle Bahamas e poi estradato negli USA. Rischia di passare il resto della sua vita in carcere, mentre FTX ha dichiarato bancarotta.

Gli investitori – dai piccoli agli istituzionali che si erano affacciati a questo mondo con crescente entusiasmo – sono terrorizzati e chi ha potuto ha svuotato i wallet venendo folgorato da una rinnovata fiducia per le odiate valute emesse dalle banche centrali. In gergo ci si riferisce a queste fasi di contrazione con il termine ‘Crypto Winter‘, l’inverno delle criptovalute. L’ultimo c’è stato tra il 2018 e il 2020, poi nel 2021 la bull run che ha portato tutte le criptovalute principali ai massimi di sempre e segnato la nascita di un mercato ancora più frenetico, speculativo e fumoso come quello degli NFT. Molti analisti temono che questo inverno possa essere molto più lungo di quello del 2018 ed avere effetti ancora più destabilizzanti.

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Il metaverso continua ad essere un (costosissimo) concetto fumoso

È passato ormai un anno da quando Facebook ha cambiato nome in Meta, annunciando la trasformazione da social media company a metaverse company. Il sogno è quello di superare il cosiddetto Web 2.0, aprendo le porte ad un nuovo modo di interfacciarsi online, grazie all’utilizzo di realtà aumentata e virtuale.

Moltissime aziende, brand e perfino istituzioni hanno manifestato la loro adesione alla visione di Zuckerberg, annunciando trionfalmente il loro ingresso nel metaverso. Peccato che il metaverso oggi non esista e probabilmente continuerà ad essere una chimera ancora per moltissimi anni.

Oggi il metaverso è una buzzword per descrivere se va bene l’utilizzo di interfacce in realtà aumentata o virtuale per l’acquisto di beni e servizi (pensiamo al salone virtuale di Fiat, oppure al negozio in VR di Dyson) e se va male piattaforme social in 3D troppo simili a Second Life per poter gridare alla rivoluzione e troppo deserte per poter parlare di veri e propri mondi virtuali.

Peraltro, il metaverso – alla pari di internet – dovrebbe essere un universo digitale di mondi, aree e piattaforme interconnesse tra di loro e contraddistinte dal concetto di interoperabilità, mentre oggi ciascuna di queste piattaforme sperimentali (da Horizon di Meta a Sandbox e Decentraland) è isolata dalle altre e non consente di comunicare con l’esterno.

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L’UE continua a mostrare al mondo come si regolamentano le aziende tech

L’UE si è dimostrata ancora una volta un punto di riferimento per il mondo, mettendo ordine alla caos e alle pratiche che danneggiano i consumatori delle grandi aziende tech.

Si parte dalla normative dell’UE sul cosiddetto connettore unico: tutti i prodotti tech di piccole e medie dimensioni dovranno utilizzare l’USB-C. È una notizia sostanzialmente positiva, che libera i consumatori dall’ingombro di dover avere mille cavetti diversi per alimentare una pluralità di prodotti. Apple dovrà rassegnarsi ad uccidere lo standard Lightning (e infatti il prossimo iPhone dovrebbe essere il primo con USB-C) e finalmente non troveremo ancora telecomandi, fotocamere e altri accessori in commercio con il vecchio mini-USB. Peraltro nei prossimi anni la regola varrà anche per i laptop e per le console. Insomma, la nostra vita diventerà un pochino più semplice e comoda.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg. La vera rivoluzione arriverà con il Digital Markets Act, altra corposa legge sul tech approvata dall’Unione Europea e destinata ad entrare in vigore a marzo del prossimo anno. Impone alcune importanti regole a quelli che il legislatore europeo chiama ‘gate keeper’, vale a dire le grandissime piattaforme che con i loro sistemi operativi, browser, social e motori di ricerca pongono un filtro tra consumatori e fornitori di servizi e prodotti digitali.

Le novità sono tantissime: si va dall’obbligo di interoperabilità per le piattaforme di messaggistica alla necessità di aprire le porte ad app store alternativi all’interno dei sistemi operativi. Anche il DMA colpisce soprattutto Apple, che – come sintetizzavamo nel titolo del nostro speciale sul tema – dovrà rendere iOS un pochino più simile ad Android: più aperto e meno recintato, per così dire. Era ora.

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