Sempre più autori, diciamo “affermati”, stanno negli ultimi tempi adoperando il cinema come una finestra per guardarsi indietro insieme agli spettatori piuttosto che sperimentare nuovi linguaggi o per restituire una propria visione del contemporaneo. Un tracciare una linea su se stessi, della loro vita professionale e privata, prima di concentrarsi su un ipotetico proseguo, anche artistico. Quelli, maggiormente ben disposti, cercano di coniugare entrambe le cose e in molti casi siamo stati fortunati, poco da dire. Aggiungiamo anche che spesso e volentieri il Festival del Lido è stato teatro di questa tendenza.
Con la recensione di Bardo (falsa crónica de unas cuantas verdades) vi parliamo della quota di Venezia79. Una pellicola sentita, innanzitutto perché Alejandro González Iñárritu torna a firmare un titolo a sette anni da The Revenant (2015), poi perché dagli schermi di Sala Darsena e co. mancava dal 2014, epoca di Birdman o (Le imprevedibili virtù dell’ignoranza) e, infine, perché c’è veramente molto del vissuto interiore del cineasta tra i frames della pellicola, forse mai così tanto o, almeno, mai in modo così esplicito.
Per compiere l’impresa di imbastire un imponente film di 174 minuti, Iñárritu si affida a Netflix e torna a collaborare con lo sceneggiatore Premio Oscar Nicolás Giacobone, penna della pellicola con protagonista Michael Keaton sopracitata e di Biutiful.
Collaborazione che se vogliamo suggella definitivamente la volontà del cineasta di fare di questo film summa e raccordo del suo percorso, che, come se non bastasse, racconta la storia di un ritorno alle proprie radici di un 50enne messicano sull’orlo di una crisi di nervi che ha trovato successo negli USA, forse un po’ come lui, che torna a girare in patria con attori indigeni dopo il periodo hollywoodiano (e che periodo). Speriamo però per Iñárritu che la crisi non sia la stessa del protagonista.
Bardo (falsa crónica de unas cuantas verdades) arriva su Netflix il 16 dicembre dopo un limitato (purtroppo) passaggio nelle sale.
“Immigrato di prima classe” torna a casa
Silverio (Daniel Gimenéz Cacho, che con questo film fa l’en plein delle collaborazione con i maggiori registi messicani contemporanei) è un giornalista famoso, sia in Messico, casa sua, sia negli Stati Uniti, dove è immigrato insieme alla moglie, dove ha fatto nascere i suoi figli, dove è diventato un documentarista di successo e dove verrà premiato con il traguardo più prestigioso della carta stampata (non è solo stampata ormai, ma abbiate pazienza) nordamericana.
Quale miglior momento per una gitarella insieme alla famiglia per respirare di nuovo l’aria di quando si era giovanotti? Soprattutto se si è organizzata una festa in tuo onore.
Incontrando volti familiari, tra amici e parenti, tornando a ragionare sui propri passi, rimettendosi in discussione con i fantasmi del proprio passato, ricominciando a parlare con i propri figli e la propria compagna di vita, decidendo di rimettere in gioco una vita professionale all’insegna dell’etica e del fervore politico si rischia però di andare in bornout. “E ci credo“, direte voi, “basta anche molto meno.”
La questione è perché si intraprende questa strada?
Un inciampo? Un’epifania? Un incontro con qualcuno che non vedevi da tempo? Un parere (quasi sempre non richiesto) dissonante dalla visione che hai di te stesso?
Per Silverio sembra quasi una necessità.
Ci sono dei momenti nella vita in cui ci si sente fuori posto, in cui si cerca il modo di ricalibrarsi, di rientrare in sintonia con il proprio passato per una sofferenza del presente. Il punto è sempre quello: trovare un’identificazione con se stessi che non ci faccia sentire degli estranei. Non è detto che una risposta però alla fine arrivi. Anzi, a volte rischia di essere quasi fatale.
Come si racconta un viaggio
Già con il suoi ultimi film Iñárritu ha molto insistito sulla tematica del viaggio interiore (in realtà questa ricerca c’è sempre stata nella sua filmografia), cercando di lavorare a livello audiovisivo con una grammatica sempre più sfumata tra l’onirico (lo spirituale sarebbe più corretto) e un reale spettacolarizzato. Cosa che non solo è riuscito a fare, ma che lo ha portato a maturare una cifra stilistica in grado di lanciarlo tra le stelle del firmamento del cinema mondiale, divenendo uno dei cineasti più amati a Hollywood. Eppure, in lui, così come nei suoi protagonisti, non c’è mai stata la risoluzione del conflitto attraverso le storie, se non con un qualcosa che per noi spettatori (ma non per colpa nostra) è sempre rimasto inaccessibile.
Come se la fine del percorso non fosse ancora pronta per essere mostrata.
Forse il conflitto era proprio quello di trovare il giusto posizionamento tra un cinema commerciale, da blockbuster o pop (comunque più nordamericano) ed uno che appagasse il regista anche a livello di appartenenza viscerale. Forse il finale del viaggio ci sarebbe stato mostrato nel momento in cui si fosse trovato il giusto modo per raccontarlo.
Bardo, di primo acchito, è un titolo che rimanda sicuramente alla figura del cantastorie e dopotutto questa pellicola è un po’ una sorta di viaggio epico / folkloristico / storico della cultura messicana, ma, guarda caso, nel buddismo con il temine “Bardo” si intende “uno stato intermedio, di transizione o liminale tra la morte e la rinascita“. Ecco, letto in questo senso possiamo pesare che il titolo indichi probabilmente la formula che Iñárritu ha trovato più soddisfacente per raccontare il suo viaggio.
Quello che prende forma davanti ai nostri occhi è un’epopea, prima di tutto visiva, che gioca con le distorsioni della memoria, intrecciati a loro volta con le vie del pensiero e dell’immaginazione. Una sorta di meditazione metanarrativa febbrile, fatalmente attiva e attivante.
Puntando sulla sua solita idea di cinema sbalorditiva e mozzafiato (si, ci stanno i piani sequenza, “falsi” e non), ormai piuttosto navigata e anche furba (ma è una qualità anch’essa), il cineasta messicano ci trasporta in un viaggio lisergico (impreziosito dalla fotografia di Darius Kohndji) che spazia dai labirinti della mente alle praterie dello spirito, cercando di svincolarsi sempre di più dalle formulazioni logiche per concentrarsi sulle emozioni.
L’altra cosa fondamentale del racconto è il pubblico a cui è rivolto e tanto del corpus della pellicola necessita di una vicinanza culturale non indifferente.
Bardo è una condivisione che l’autore fa sul grande schermo, ma richiede uno sforzo anche da parte del pubblico, a cui poco viene concesso (non possono bastare i superficiali trattamenti della mancanza di una casa o del conflitto Messico – USA), ma anche chiesto, se non il lasciarsi travolgere da un’onda visionaria pazzesca, ipermanieristica, ovviamente un po’ egoriferita e a tratti fortemente bulimica (Iñárritu è così e l’età non gli ha dato granché freni). Un minutaggio enorme per un titolo che decide coscientemente di andare oltre la sazietà approfittando della libertà che Netflix concede (e non è la prima volta, ma la promessa di stupire allo streamer è sempre bastata, chiede solo in cambio meno crudità possibile) per raccontare tutto e di più, tradendo però una certa insicurezza. Quasi tutto infatti è dichiarato al punto di diventare didascalico e di perdere anche un po’ di fascino e le soluzioni trovate non sempre ripagano. Senza contare che aleggia il dubbio che la base da cui la pellicola parte non giustifica la complessità della forma che lo svolgimento assume. Meditiamo. Anche noi.
Bardo (falsa crónica de unas cuantas verdades) è disponibile su Netflix dal 16 dicembre.
Bardo (falsa crónica de unas cuantas verdades) è la pellicola di Alejandro González Iñárritu prodotta da Netflix e presentata in concorso a Venezia79. Si tratta di un'opera imponente di circa 3 ore che si concentra sul racconto di un viaggio inteso come un percorso in una dimensione che attraversa memoria, pensieri e immaginazione. Visivamente mozzafiato e tecnicamente molto valida (come sempre quando si parla del cineasta messicano), la pellicola soffre di una bulimia evidente e per lunghi tratti appare egoriferita o culturalmente esclusiva. Concede infatti molto poco al suo pubblico, che tenta di conquistare con una messa in scena magnetica, che però non convince sempre per il suo eccesso e perché accompagnata da un'impostazione (meta)narrativa "preoccupata" di non essere chiara, con il rischio di divenire didascalica, troppo dichiarata. Ad ogni modo un'esperienza cinematografica assolutamente da fare.
- Si tratta della condivisione di un pezzo di anima di un grande autore contemporaneo.
- La prova del cast è eccellente, protagonista in testa.
- A livello tecnico Iñárritu continua ad essere uno dei registi migliori su piazza.
- L'idea della forma del racconto del viaggio è resa molto bene.
- Il minutaggio rischia fortemente di essere eccessivo.
- Il manierismo visivo del film sfiora la bulimia.
- La narrazione non aiuta assolutamente a trovare un fil rouge nella storia.
- Dei riferimenti sono culturalmente esclusivi.
- A volte sfiora una dimensione homevideo.
- Il dubbio che la base da cui la pellicola parte non sia bastevole della complessità della forma.