La nostra recensione di Soul, il nuovo capolavoro Pixar che apre la Festa del Cinema di Roma, in netto anticipo rispetto al suo arrivo su Disney+.
Inizio questa recensione di Soul senza usare particolari mezzi termini: ho letteralmente adorato l’ultimo parto Pixar, che si piazza probabilmente – parlando a caldo – come uno dei migliori film dello studio, se non proprio il migliore in assoluto, con il titolo conteso da Toy Story 3, Up e Wall-E.
Appena uscito dalla sala per la proiezione in occasione dell’apertura della Festa del Cinema di Roma, è difficile scrollarsi di dosso l’impatto emotivo e tematico del film di Docter. Soul è un film che chiaramente vuole estendere il percorso aperto con Inside Out, ma nel farlo passa dalla psiche all’anima, e in questa transizione acquista tanto calore e trasporto che mancava al precedente, se si escludono determinati momenti (ad esempio il celebre abbandono di Bing Bong).
Sono cento minuti praticamente perfetti, che riescono a divertire spesso e commuovere genuinamente, racchiudendo in una struttura semplice e consolidata (quella del viaggio dell’eroe) un discorso così profondo da toccare ogni corda del vissuto individuale.
L’ultima produzione Pixar porta con sé il più grande pregio dei migliori film d’animazione, la capacità di rendersi godibile per un pubblico infantile e risultare estremamente stratificato e ricco di significato per un pubblico adulto, nonostante forse in questo caso la bilancia è molto più pendente verso la seconda categoria.
Prima di continuare, vi ricordo che Soul arriverà su Disney+ a Natale, senza la necessità di un accesso VIP come nel caso di Mulan, ma semplicemente inserito all’interno del catalogo; segno della contingenza attuale come dei tempi che cambiano, con un’uscita simile che salterà totalmente il passaggio in sala.
Detto questo, metto chiaro e tondo che questa non è né la sede, né l’occasione, per discutere della distribuzione del film, in questa recensione si parlerà solo ed esclusivamente della qualità immensa di un gioiello come Soul, lasciando da parte ogni questione a possibili futuri editoriali e approfondimenti.
Soul vede come protagonista Joe Gardner, un insegnante di musica delle scuole medie, con il sogno di inseguire la propria passione per il jazz e svincolarsi totalmente da quella che considera una vita triste, di compromesso, lontana da ambizioni ben diverse. Un bel giorno, grazie ad un suo ex studente, Joe è pronto ad esaudire il suo sogno di esibirsi col piano insieme ad altri musicisti affermati, legittimandosi definitivamente e dando quindi una svolta alla propria esistenza (in teoria).
Le cose tuttavia non vanno per il verso giusto, e a causa dell’entusiasmo ingenuo e di un tombino aperto, Joe finisce in coma/all’altro mondo, ritrovandosi poi sul lungo ed inesorabile percorso che porta al Grande Oltre, una sorta di grande luce abbacinante che attende serenamente le anime dopo questo passaggio nel limbo.
Non capace di accettare un destino così improvviso, Joe compie un atto di ribellione, finendo nel Grande Prima, il luogo metafisico dove nascono e vengono plasmate le anime prima di approdare sulla Terra in un bambino. Lì l’insegnante conosce 22, un’anima in potenza che non comprende proprio l’attrattiva della vita, preferendole lo stato immateriale presente. I due per una serie di motivi sviluppano uno strano rapporto, e la progressiva curiosità di 22 spinge il duo verso situazioni improbabili che finiscono per aprire gli occhi di entrambi.
Nonostante come scritto sopra il racconto di Soul prenda binari immediati da seguire, a livello macroscopico, è vero pure che la sensibilità con cui vengono trattati diversi temi, la capacità di sintesi del linguaggio, sia nel visivo che lato script, l’incredibile lavoro artistico e il felicissimo connubio con la musica sono gli elementi che fanno concretamente la differenza.
In poco più di un’ora e mezza, Soul tratta con una lucidità impressionante dell’incertezza umana nel dare un senso alla propria esistenza, dell’assenza di passione e di passioni che ci permettono di toccare il nostro io più profondo e poi si traducono in ossessioni, della necessità di arrivare a compromessi con la propria indole essendo comunque felici, della scoperta del vivere più puro, il vivere meravigliato di ogni attimo, in un entusiasmo saturo di gioia che oltrepassa lo schermo.
Soul ricorda molto American Beauty di Sam Mendes
Sorprendentemente, e ci tengo a sottolinearlo in questa recensione di Soul, il film di Docter ricorda moltissimo un altro capolavoro, quello di Sam Mendes, ovvero American Beauty, che già appunto proponeva – seppure in direzioni totalmente diverse, focalizzate su un’idea di estetica – il totale godere della realtà in sé stessa: d’altronde siamo fortunati già solo perché assistiamo ogni giorno ai piccoli miracoli delle piccole cose (che spesso stupidamente ignoriamo), come siamo fortunati perché siamo in grado di amare e di provare emozioni.
Sotto questa ottica, persino il movimento di una busta di plastica riesce ad incantare, e una particolare scena di Soul potrebbe essere un chiaro riferimento al momento forse più cult della straordinaria dichiarazione di estetica di Mendes. Se amate il film del ’99, troverete molti punti di contatto.
Non solo, il nuovo pargolo Pixar è anche molto brillante nel parlare della nostra ingenuità nel vivere in funzione di uno scopo, continuamente in affanno credendo che ad un obiettivo si associ una svolta per una vita che non vediamo epica o abbastanza memorabile.
Soul affronta la nostra ingenuità nel vivere in funzione di uno scopo
E così, persi in idealismi (non a caso in Soul ci sono tanti divertenti riferimenti diretti a grandi pensatori, scienziati e personaggi della nostra storia), sogni di gloria e ambizioni viviamo in apnea, credendo che la vita vera sia sempre un oltre, e non il quotidiano da cui finiamo per alienarci. Parlo di quello strano approccio del vivere per step, in un continuo percorso che ci spinge con fare subdolo in avanti, e di quella strana sensazione di vuoto che segue quando ci rendiamo conto che quel sogno non è così splendido quanto credevamo, quando ci rendiamo che le difficoltà sono sempre lo stesse, e non esiste formula magica o svolta miracolosa per risolverle od esserne al di sopra.
Dovremmo forse accettare il saliscendi di ogni giorno per quello che è, ritrovare la capacità di vedere al di fuori del nostro egocentrismo e contattare noi stessi anche solo con un petalo trasportato dal vento, o con un tramonto impressionante che ci ricorda quanto siamo fortunati anche solo nello stare al mondo; forse il nostro più grande peccato è dimenticarcene ogni giorno.
Questo calore ritrovato si percepisce spesso nella fotografia di Soul, che quando estranea ai momenti più astratti del film è sempre molto calda e vibrante di colore, specie quando si suona il jazz, quasi frangenti usciti fuori da La La Land. La direzione artistica del film, invece, straordinaria, risponde alla creazione dell’immaginario più brillante – anche per densità di temi e complessità allegorica – mai portato avanti dallo studio.
L’impatto visivo non è mai banale, determinate scene sono clamorose per scelte cromatiche e intuizioni varie, muovendosi ad esempio tra le forme astratte del character design delle creature quantiche e le forme deliziose delle anime, tra gli ambienti bucolici e asettici/razionali del Grande Prima e l’essenzialità sacra del limbo prima del Grande Dopo, passando per il totale delirio delle transizioni dimensionali (che a tratti fa molto finale di 2001 in bianco e nero, perdonate il confronto).
Va sottolineato in questa recensione di Soul come colonna sonora sia ovviamente un elemento chiave della riuscita del film, sia in chiave intradiegetica (come elemento del racconto), sia in chiave extradiegetica (all’esterno), e al jazz, come in generale alla musica e al piano, sono affidati alcuni dei momenti più potenti a livello emotivo del film.
É anche molto riconoscibile il tocco di Trent Reznor e Atticus Ross in buona parte della OST di Soul (la parte jazz è stata composta da Jon Batiste), specie se avete visto uno qualsiasi degli ultimi film di Fincher o se avete ad esempio visto Watchmen di HBO; l’approccio è diverso, la firma è la stessa.
Ricollegandomi in questa recensione di Soul all’incredibile legame di empatia che riesce a creare il film e relativo trasporto emotivo, difficilmente riuscirete a scrollarvi di dosso le ultime battute del film, un salto di maturità e di accettazione pacifica dell’esistenza e del suo decorso, un atto di fede verso una scintilla che non è ambizione o scopo, ma un contatto con il vivere stesso, quell’amore genuino provato quando si vede il sole sorgere o ci si trova davanti a dei fuochi d’artificio, il suonare librandosi in un altro mondo, lo sguardo di una madre, una torta deliziosa, un petalo, l’abbraccio di un padre.
Soul è uno dei più grandi capolavori di animazione che ho avuto il piacere di vedere nella mia vita, nonché uno dei più grandi film di uno studio già immenso come Pixar. Il film di Pete Docter vi divertirà e commuoverà sempre con intelligenza, sfruttando un soggetto rivelatosi davvero una miniera d’oro.
Siamo come un pesce che cerca l’oceano non sapendo di nuotarci dentro.