La recensione di Predator: Hunting Grounds, il nuovo titolo multiplayer 4vs1 sviluppato da IllFonic e disponibile su PlayStation 4 e PC Windows.
Scrivere la recensione di Predator: Hunting Grounds senza conoscere a pieno il franchise di riferimento non è semplice e forse nemmeno possibile. Per questo la scelta di una recensione speciale, a quattro mani, per un titolo che in realtà è tutto meno che speciale, valido e particolarmente interessante.
Con me a scrivere questo pezzo c’è quindi anche il nostro Giovanni “Zethone” Zaccaria, che mi darà una mano con il suo punto di vista da fan della serie in primo luogo per tutto quello che concerne l’immaginario. D’altronde Il gioco sviluppato da Illfonic è palesemente portato avanti con un occhio per gli appassionati della creatura approdata sul grande schermo nel 1987, con il film di McTiernan, diventato cult all’interno del cinema d’azione e in generale all’interno della cultura pop.
Per quanto posso anticiparvi prettamente sul piano della giocabilità, Predator: Hunting Grounds è un titolo multiplayer 4vs1 che raggiunge a malapena la sufficienza, complice soprattutto un livello di pulizia tecnica del gioco davvero non degno, una certa assenza di equilibrio in partita, una progressione poco convincente e una complessiva penuria di contenuti su ogni versante. Questo nonostante diverse meccaniche riuscite/intelligenti e un’esperienza che può risultare anche divertente in gruppo.
Predator: Hunting Grounds è disponibile su PlayStation 4 e PC Windows dallo scorso 24 aprile.
Il punto di vista di un fan (Giovanni Zeth Castle)
Per quanto tempo i fan di Predator hanno aspettato un titolo veramente valido dedicato agli yautja, la razza di cacciatori più letali dell’universo, che non coinvolgesse i (seppur affascinanti) “cugini” xenomorfi?
Il brand Alien Vs. Predator, pur con tutta l’attrattiva insita nella forza dei due franchise e alcuni titoli davvero riusciti (e parliamo comunque di tre titoli sul totale – i due sviluppati da Rebellion nel 1999 e nel 2010 e quello di Monolith del 2001), è stato spremuto fin troppo, senza un degno sostegno cinematografico.
Eppure la forza di Predator è grande, il fascino esercitato sui fan è davvero notevole, nonostante un destino cinematografico abbastanza drammatico; se l’originale Predator di John McTiernan è un film a dir poco leggendario e Predators di Robert Rodriguez risulta mediamente accettabile, Predator 2 e The Predator meritano più di una menzione nel Grande Tomo della Vergogna Sempiterna.
La scorza di uno yautja è dura, durissima
Ma come vi dicevo la scorza di uno yautja è dura, durissima. Dark Horse Comics, da sempre licenziataria per i fumetti su Predator, ha continuato a far uscire serie su serie, a partire dal 1989, regalando anche ottimi momenti narrativi. Per non parlare di quel primo seminale Predator Concrete Jungle (lo trovate all’interno di Predator 30° Anniversario edito da SaldaPress), in cui lo sceneggiatore Mark Verheiden ci aveva visto giustissimo nell’ambientare il sequel del film di McTiernan nella giungla urbana newyorkese con protagonista il fratello di Dutch/Schwarzenegger, che tanto ricordava Dolph Lundgren.
Sopravvivere a film orribili, videogiochi brutti e derive spesso poco ispirate non è cosa da tutti. Quindi la mia aspettativa per questo titolo era piuttosto elevata e giustificata, stante il mio assoluto amore per il personaggio e per il primo film.
Finalmente Predator nella sua essenza: uno scenario selvaggio, un gruppo di militari addestrati intenti a compiere una missione, guerriglieri e terroristi a complicare le cose e un dannato alieno alto due metri pronto a riempire la propria astronave di trofei.
Lo spirito c’è tutto. L’atmosfera, le citazioni e i richiami (più o meno) graditi ai film e ai fumetti. Il Predator fa quello che deve fare, ha gli equipaggiamenti giusti e nonostante la sua potenza sanguina. E “se può essere ferito, può essere ucciso” diceva l’ex governatore della California.
I Marines purtroppo non hanno personalità, non ci sono cut scene con dialoghi spacconi alla Jesse Ventura e le battute ad effetto (“Gli ho sparato dritto addosso 20 caricatori dell’M60, li ho vuotati. Niente di questa Terra sarebbe sopravvissuto”), e questo mi infastidisce, almeno fino a che non inizio a sparare a quella sorta di illusione ottica che mi pare di aver intravisto tra gli alberi. Ma su questo ci arrivo tra un po’.
Sull’intero franchise di Predator c’è una maledizione
Il mio compito in questa recensione è soprattutto quello di contestualizzare il titolo nel suo universo narrativo e per quanto i difetti del gioco siano tremendamente grandi ed evidenti, Predator Hunting Grounds, a livello di spirito e fedeltà al franchise è probabilmente il miglior titolo mai creato con uno yautja come unico protagonista (e sottolineo, in questa affermazione escludo i gemellaggi con gli xenomorfi figli di H.R. Giger).
Questo va a confermare la mia teoria che ci sia una maledizione sull’intero franchise di Predator.
Perché non avere inserito una modalità campagna?
Punto primo: perché diavolo non c’è una modalità campagna, anche breve? Mi sarei accontentato di quattro, cinque ore di gioco che ripercorressero le vicende del primo film, nei panni di Dutch (o di uno della sua squadra) e dello Yautja, con doppio percorso narrativo, formula già usata molte volte nei videogiochi e quindi di certo non una cosa inedita o impossibile.
Questo è imperdonabile, specie per un titolo che ha come principale target un pubblico fatto di fan irriducibili che ogni volta che sentono “ticchettare” pensano che un Predator li stia agguantando.
Vi immaginate poter rivivere la scena del combattimento finale tra Schwarzy e l’alieno con i dreadlocks (ops, predlocks)?
Punto secondo: perché possiamo disporre di mille personalizzazioni dell’alieno o dei soldati e per le ambientazioni abbiamo solo tre mappe noiose?
Va bene il rispetto per l’opera originale, ma si sente troppo la mancanza di una location urbana (per richiamare il sequel di Predator, quello fumettistico eh, non l’abominio filmico di Stephen Hopkins) e in generale di una maggiore scelta negli ambienti e di condizioni climatiche (buio, pioggia, neve ecc).
Punto terzo: per quanto la sfida umani-yautja, con il ribaltamento dei ruoli preda e cacciatore, sia il fulcro di Predator, perché non si è pensato di allargare il gameplay anche ad altri esponenti della razza aliena caccia teste? (Con conseguente aumento del numero di giocatori Fireteam, ndr).
Con questa prospettiva lo spessore del gioco sarebbe stato di certo migliorato sia in co-op che nel confronto vero e proprio. E poi i Predator sono litigiosi per natura, cosa che avrebbe potuto offrire persino qualche spunto in più nella risoluzione delle partite.
Infine, parlandoci chiaro, se hai una storia del brand così costellata di insuccessi cinematografici e videoludici, dove forse solo la parte fumettistica si salva (e di certo non tutta), perché diavolo sviluppare in fretta e furia un titolo che finalmente aveva imbroccato lo spirito giusto?
Perché diciamocelo, al netto di tutti i problemi tecnici enormi, una volta che si è in squadra e si comincia a pattugliare l’ambiente nei panni del Fireteam Zero il gioco sa essere divertente.
Quando l’ho testato con Simone e gli amici di Multiplayer, non posso negare di essermi divertito, cercando di individuare il Predator tra gli alberi, attento al minimo suono e sparando all’impazzata verso qualcosa che poteva essere anche solo frutto della mia immaginazione.
L’esperienza in squadra sa regalare momenti di divertimento interessanti
Da fan posso anche sorvolare sulla ripetitività delle missioni o sulla stupidità congenita dei nemici controllati da intelligenza artificiale che ci si pareranno contro. Io voglio la testa del maledetto alieno, tutta la mia concentrazione è rivolta a quel singolo momento in cui lo individuerò. E l’esperienza in squadra sa regalare dei momenti di divertimento interessanti.
Giocare nei panni del Predator è decisamente meno immediato, ma col passare dei match sa essere appagante piombare addosso ai poveri soldati intenti a chiudere valvole, analizzare componenti chimici e trafugare panetti di coca.
Insomma, mi sento frustrato
Insomma, mi sento frustrato. Anche stavolta, noi fan dell’alieno mascherato ci siamo giocati la possibilità di avere un degno titolo che ci ripagasse di tanti anni di sofferenze. Lo dice uno che ha consumato Mortal Kombat XL per poter giocare nei panni del Predator e conosce il personaggio a memoria.
Ma in mezzo alla grafica scadente (la prima cosa che ho affermato è stata: “ma è una beta che gira su PS3?”), il feedback imbarazzante delle armi e le scelte striminzite, mi sento di poter dire, col cuore in mano, che qualche sprazzo di luce c’è.
Accanimento terapeutico forse, ma la sfida coi propri amici può essere divertente
Accanimento terapeutico forse, ma la sfida coi propri amici può essere divertente specie dopo il raggiungimento di un certo livello e lo sblocco di nuovi equipaggiamenti per entrambe le fazioni; inoltre va detto che in base al personaggio che intendiamo utilizzare Predator Hunting Grounds si presenta come due esperienze completamente differenti, uno FPS puro in co-op e un gioco in terza persona con momenti hack-n-slash.
E ribadisco che, ripensando alla storia dei tanti videogiochi del passato legati al franchise (qualcuno si ricorda il terribile Alien Vs. Predator del 1993 per SNES sviluppato da Activision? No? Beh cliccate qui), stavolta il gioco sviluppato da IllFonic aveva assolutamente centrato lo spirito e la dinamica giusta per un gioco su Predator. Non è cosa da poco.
Il punto vista disinteressato (Simone)
A seguire l’analisi di Giovanni concentrata su tutto quello che tocca l’evidente anima fan service del gioco, è tempo di dedicarsi esclusivamente all’analisi nello specifico della formula ludica e dello stato tecnico del titolo. Allora, partiamo da un po’ di informazioni semplici per capire quello di cui stiamo parlando.
Predator: Hunting Grounds è un titolo multiplayer asimmetrico 4vs1, dove appunto quattro giocatori prendono i panni dei membri della squadra d’assalto Fireteam, mentre invece un giocatore si trova a controllare il Predator, che come la controparte cinematografica si piazza come il principale incubo del team avversario.
Il gameplay in prima persona dalla parte del Fireteam non è nulla di particolarmente nuovo, si entra in partita in un punto della mappa, si completa una serie di obiettivi (trova quello, attiva quell’altro, interagisci con determinato oggetto, distruggi qualcosa, ecc.) e una volta terminato si va al punto di estrazione e si fugge, terminando la missione con successo. Il tutto ovviamente ostacolati sia dal Predator, sia da ondate di nemici controllati dall’intelligenza artificiale (forse chiamarla così è un complimento).
Come Predator l’obiettivo primario è massacrare tutti i membri della squadra del Fireteam
Come Predator invece l’obiettivo primario è massacrare tutti i membri della squadra Fireteam, azzerandone la salute e infine eseguendo una finisher per assicurarsi l’uccisione e per acquisire teschio e colonna come trofeo. Ovviamente allo Yautja appartiene tutta una serie specifica di meccaniche, che lo rendono più temibile ovviamente di un singolo soldato Fireteam.
In primo luogo l’alieno vanta una velocità maggiore accoppiata con un balzo sulla distanza, consumando vigore (stamina), poi la capacità, utilizzando la barra dell’energia, di diventare invisibile (o quasi), di passare in visuale termica e di colpire dalla distanza con raggi energetici tramite la plasmacaster.
Il Predator tra l’altro non si muove come i comuni mortali, ma può facilmente interagire con la base degli alberi per raggiungerne i rami e spostarsi così su un livello superiore rispetto a quello degli altri giocatori; il prezzo da pagare è che in questo caso il movimento è in pratica su binari, scriptato, non intuitivo e decisamente scomodo.
Continuando, se un membro Fireteam può solo affidarsi a kit medici et similia per evitare di soccombere, lo stesso può fare il Predator con i propri, ma in extremis – attraverso un’abilità dal lunghissimo tempo di ricarica – può in aggiunta ritirarsi e infine curarsi, rimanendo addirittura immune ai danni per un tempo limitato. Questo, certo, a patto che in tutto ciò non venga seguito dai giocatori avversari che ne vedono le tracce di sangue fluorescente (come nel film originale, esatto).
Come Predator potete comunque sperare nell’ultima risata
Non solo, se come Predator doveste arrivare al definitivo game over, potete comunque sperare in un’ultima risata (letteralmente, di nuovo un riferimento all’originale): potete scegliere l’autodistruzione e mettere così a rischio i soldati. Questi avranno quindi due opzioni: scappare all’esterno dell’area di esplosione, oppure rischiare e disinnescare il corpo con una buona dose d’ansia distillata. Non riuscire nel tentativo porta al fallimento della missione, conservare e proteggere il corpo termina automaticamente la partita e assegna diversi bonus extra a fine partita.
Il lavoro a livello di design come titolo su licenza non è da buttare
Come detto in partenza dunque diverse idee decisamente riuscite, estratte dal bacino del franchise e rielaborate per essere declinate alle esigenze di un genere specifico di un diverso medium. Il lavoro a livello di design, come titolo su licenza su un piano iper – macroscopico, non è quindi da buttare, e anzi ha diversi guizzi che possono sorprendere quando si muovono i primi passi.
I mille problemi emergono quando si va ad analizzare il gioco avvicinando un minimo lo sguardo. Il primo, più evidente, riguarda la resa tecnica, a dir poco insufficiente su una macchina come PlayStation 4 Pro. Un aliasing evidente è perennemente a schermo, sui classici bordi, mentre sulla distanza la complessità della fitta vegetazione porta come naturale il problema ad esplodere in un pesante flickering.
Questo è un qualcosa da non sottovalutare specie quando si cerca di identificare e colpire il Predator dalla distanza, e non aiuta nemmeno la palette cromatica parecchio uniforme, che sottolinea il pasticcio grafico oltre quanto già palese.
Hunting Grounds su console non riesce mai a confermare una performance stabile
Nonostante questo, Hunting Grounds su console non riesce nemmeno a reggere i 30 frame per secondo (nemmeno i 60, essendo per metà uno shooter in prima persona), non presentando mai (mai veramente eh) una performance stabile e con cali estremamente sensibili che flagellano il gioco in particolare nei momenti più concitati.
C’è anche da mettere in conto il numero allucinante di errori/mancanze nelle animazioni, l’assenza totale di un movimento/interazione basilare in un FPS come l’arrampicata sulla sporgenza e l’intelligenza artificiale dei nemici senza appello, tra le altre cose.
Le mappe sono super anonime e indistinguibili
Inoltre, non che ci sia bisogno di dirlo, le mappe sono super anonime e indistinguibili per design e direzione artistica una dall’altra, con asset di bassa qualità e super riciclati, con risultato un impatto nauseante più o meno sempre simile a sé stesso. Giungla somma a giungla, con altra giungla.
E con questo mi riallaccio anche alla questione contenuti. Predator: Hunting Grounds vende al lancio un pacchetto a quaranta euro (con la speranza di un supporto futuro gratuito, oltre alle patch correttive) con solo tre location e una singola modalità, e le uniche scelte rimangono quelle Predator/Fireteam e lobby privata/pubblica. Il pericolo monotonia con una penuria tale in quanto a varietà fa presto ad arrivare, e la cosa certo non è ostacolata dalla progressione messa in piedi.
Il titolo di Illfonic ha due linee di progressione diverse, una in senso lato relativa a skin/modifiche estetiche, con la valuta del veritanio e loot box (per ora non c’è integrazione con valuta reale), l’altra invece in senso stretto relativa allo sblocco di classi, accessori, armi e talenti. La personalizzazione estetica del Fireteam è chiaramente un plus messo tanto per, sciatto e molto limitato, crivellato da alcuni elementi sovrapprezzo che ne evidenziano la volontà di allungare il brodo.
L’avanzamento con l’esperienza è invece molto veloce e immediato, ma il range di diverse classi, sia per il Predator, sia per il Fireteam, non riesce a giustificare la necessità di una scelta ragionata. Le variazioni (specie ridotte) della velocità di movimento e della stamina sono quasi ininfluenti nel flusso del gameplay, cosa che rende una classe leggera davvero poco appetibile rispetto a quella bilanciata/pesante; e questo vale per entrambe le metà del multiplayer asimmetrico. A chiudere la parentesi, la personalizzazione e la rosa delle armi è piuttosto ridicola ed estremamente sempliciotta per il genere.
Gli equilibri di Predator: Hunting Grounds mi sembrano abbastanza sbilanciati a favore del Fireteam
Per ultimo, prima di chiudere, per quanto possibile dire da questo test relativamente breve, gli equilibri di Predator: Hunting Grounds mi sembrano abbastanza sbilanciati a favore del Fireteam. Un team decentemente affiatato di giocatori alle prima armi, coordinato in chat vocale, è infatti in grado di gestire tranquillamente – al netto di qualche eccezione – la minaccia dell’alieno, e conto sulle dita di una mano le volte in cui ho subito game over come soldato al di fuori dell’autodistruzione.
Confido comunque nella capacità di Illfonic di bilanciare a dovere nei prossimi giorni, come già ha iniziato a fare con la patch 1.06 pubblicata una volta ultimata questa recensione, pure se sarebbe stato opportuno evitare autentiche ingenuità al lancio.
Non riesco tuttavia a scrollarmi il dubbio che il problema di cui sopra nasca pure a priori dal design dell’unica modalità presente. Il Predator con mille accortezze deve scovare e uccidere uno a uno membri di una squadra da quattro, che se intelligente non si dividerà mai e cercherà sempre di essere compatta. Il Fireteam all’opposto ha il coltello dalla parte del manico e richiede un impegno molto minore, essendo il suo obiettivo primario la missione per obiettivi e dunque potendosi limitare a gestire le pessime fasi PvE – che distraggono poco e non richiedono alcun tipo di impegno strategico – e a tenere nel mentre a distanza (o abbattere, se possibile) lo Yautja.
In conclusione, giocare a Predator: Hunting Grounds risulta divertente a primo acchito e continua a risultarlo per diverso tempo specialmente se si gioca sempre in un party di amici coordinato come nel mio caso, ma ritengo sia davvero inevitabile l’insorgere della ripetitività. L’offerta di Illfonic prova timidamente a strutturare un’offerta che possa mantenere l’attenzione del giocatore, ma la verità è che appare utopico pensare che la formula allo stato attuale possa sostenersi e funzionare sul lungo periodo, con la conseguente urgenza di massicce iniezioni (spero gratuite anche dopo la prima) di contenuti.
Fosse solo per questo il voto in calce a questo pezzo sarebbe di sicuro leggermente più alto, ma lo stato puramente tecnico con cui è arrivato il titolo Illfonic al lancio su PlayStation 4 Pro – a quaranta euro – non è accettabile (immagino su console base il disastro), come ho evidenziato nel dettaglio sopra, e fa strano pensare che a pubblicare qui sia stata proprio Sony.
- Grande attenzione per il materiale e le atmosfere originali
- Molte delle meccaniche sono molto intelligenti e sono buone traduzioni ludiche della serie cinematografica
- L'esperienza in gruppo alla fine risulta divertente
- Rimane il gioco più degno mai sviluppato su Predator
- Tecnicamente inaccettabile su PlayStation 4 Pro
- La progressione a tutto tondo è molto scarna e non convince assolutamente, come la personalizzazione estetica del Fireteam
- Una squadra ben coordinata può nella maggior parte dei casi gestire facilmente il Predator, non solo a causa del bilanciamento
- Le pessime fasi PvE distraggono poco e non richiedono alcun impegno
- Al lancio una sola modalità e tre mappe anonime e indistinguibili