La storia dai toni agrodolci di Carlo Collodi torna al cinema. Pinocchio, nella sua trasposizione diretta da Matteo Garrone, arriva in sala il 19 Dicembre, regalando un Natale nostalgico ai più grandi ed uno magico ai più piccini. Eppure non tutto sembra funzionare in questa trasposizione tanto favolistica quanto fin troppo compressa dalle leggi del mercato.
Matteo Garrone negli ultimi anni ha dimostrato di essere un regista estremamente creativo, con delle idee precise in testa e una cifra stilistica inconfondibile. Garrone è un sognatore, capace di passare dal fantasy nostrano con Il Racconto dei Racconti alla cronaca nera con Dogman. Di certo il coraggio a Garrone non manca e neanche il talento. È un regista capace di andare contro tutto e tutti, di sfidare i propri limiti e quelli del mercato, ed è forse per questo che, in fondo, le speranze nel suo Pinocchio erano alte.
Si, del resto Pinocchio non è certo una fiaba semplice. A dimostrarcelo c’è sempre stato non solo il romanzo del suo stesso autore, il fiorentino Carlo Collodi, ma anche l’iconica miniserie tv degli anni ’70 diretta da Luigi Comencini con (tra i tanti) Nino Manfredi, Gina Lollobrigida, Vittorio De Sica, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e all’epoca l’esordiente Andrea Balestri nei panni di Pinocchio.
La miniserie di Comencini, ancora oggi viva nei nostri ricordi, resta il miglior adattamento di Pinocchio, il burattino che tanto desiderava diventare un bambino vero.
Comencini dona un tocco tardo-neorealista al suo film, raccontando una povertà italiana, una disperazione che rende ancora più affamati ma anche bisognosi di miracoli e magie.
Un mondo visto dagli occhi di un “bimbo imperfetto” che assume la forma di animali, fate dai capelli turchini, campi dove far crescere gruzzoli d’oro, paesi dove è festa ogni giorno; al tempo stesso contrapposto al sacrificio di un padre, alla miseria di un’Italia ancora piegata, stanca, fredda, a volte ipocrita, altre volte vile, altre volte ancora misericordiosa.
Ed era proprio questa crudezza e fedeltà a rendere la trasposizione di Comencini così unica e, ancora oggi, insuperabile. A partire dalla sceneggiatura fino ad arrivare con la regia, continuando con gli attori e finendo con la colonna sonora, che molti di noi sanno ancora a memoria.
Garrone con il suo Pinocchio raccoglie la lezione di questo grande classico. Fin dalle prime inquadrature, dall’apertura del film con un Roberto Benigni che ci prometterà un crescendo continuo di emozioni nella parte di un Geppetto ritagliata perfettamente su di lui; Matteo Garrone sembra tenere molto in mente il film per televisione di Comencini.
La povertà, la solitudine, il bisogno di essere padre e il sacrificio ma anche quello di essere figlio; gli inevitabili errori di percorso e il dover arrivare ad un punto della propria esistenza consci di dover affrontare le proprie responsabilità, perché è proprio così che si diventa dei bambini veri.
Certo tutto questo non senza i dovuti traumi, dall’aspetto grottesco e macabro di alcuni personaggi, alla trasformazione di Pinocchio in asino; dai conigli becchini al gatto e volpe travestiti da assassini; nella storia originale anche nella morte della stessa Fata o nella tenera scena di Geppetto che nel freddo inverno vende casacca e panciotto pur di comprare un abbecedario al suo Pinocchio.
Aspetti che rendono quasi una favola gotica il romanzo di Collodi, perfetta per registi come Tim Burton o Guillermo Del Toro (che ancora insegue il sogno di realizzare il suo Pinocchio) o, appunto, come Matteo Garrone che già nel Racconto dei Racconti – nonostante gli inevitabili problemi di storia e stesura – aveva mostrato un certo fascino per un’estetica metaforica e dark.
Eppure nonostante questo aspetto si riesca perfettamente a cogliere durante la durata del film – incalzante e scorrevole – lasciandosi prendere per mano dai personaggi e dallo stesso giovane protagonista (Federico Ielapi), facendosi stringere il cuore emozionandosi e perdendosi anche nelle atmosfere nostalgiche ricreate dal regista romano, Pinocchio soffre inevitabilmente delle drammatiche e feroci leggi del mercato mainstream.
Il film di Natale strutturato appositamente per portare al cinema la famiglia.
Certo, ben venga, ma al tempo stesso questo rende parte della storia forzata, fin troppo buonista, perdendo l’aspetto più amaro tipico, invece, del racconto.
Aspetto di cui, invece, Garrone ne sarebbe assolutamente maestro, e ci basterebbe anche solo pensare al suo Dogman. Un grande regista di favole nere ma che, purtroppo, dopo una prima parte più sentita, ci appare inevitabilmente castrato da paletti di una produzione standard e poco coraggiosa.
A questo va ad aggiungersi anche una CGI particolarmente deludente e rattoppata, per non dire proprio cheap. Una computer grafica ed effettistica che non ha nulla a che vedere con il magistrale lavoro svolto ne Il Racconto dei Racconti dove Garrone si è totalmente affidato agli artisti di Makinarium. Probabilmente ancora scottati dalla delusione dell’esito al botteghino della pellicola, i fondi questa volta erano ben più risicati. Un vero peccato, a questo punto, non usare sempre il trucco prostetico, invece di gran effetto lì dove è stato adoperato. Avrebbe dato alla pellicola più originalità, più anima, differenziandola dal grande calderone di film colmi e stracolmi di effetistica sempre più mediocre e già vista.
Ancora più deludente della computer grafica, e forse la maggior nota negativa di un film comunque godibile nei suoi difetti, è la colonna sonora. Da un Premio Oscar come Dario Marianelli ci si aspettava un trionfo iconico di sonorità magiche e favolistiche, che accompagnino lo spettatore anche fuori dalla sala.
E invece Marianelli sembra puntare ad un motivetto spurio, un po’ banale. Orecchiabile, certo, ma non per questo simbolico o potente a tal punto da restare nell’immaginario. Sembra quasi che nel lavoro il compositore abbia impiegato circa l’1% delle sue abilità, se pensiamo poi ad opere come Espiazione, Kubo e La Spada Magica o V per Vendetta, giusto a citarne alcuni tra i più celebri.
Per carità, va dato il merito a Garrone di aver spazzato completamente via il disastro portato al cinema dallo stesso Benigni nel 2002, ma va anche detto che la pellicola non va mai molto oltre.
Il Pinocchio di Garrone ci appare bello, dolce, infantile, ma non porta nulla di nuovo e rimane solo “l’ennesima trasposizione di Pinocchio”.
L’emozione c’è, su questo statene sicuri. Molto farà anche il vostro rapporto con Pinocchio e quanto abbia influenzato la vostra infanzia quel tipo di immaginario – non di certo dettato dal Classico Disney – ma il merito va anche dato ai grandi interpreti, primo fra tutti Roberto Benigni.
Come detto prima, Benigni è la punta di diamante di quest’opera. Un Geppetto così vero non lo si vedeva dai tempi di Manfredi. Sentito, buono, dolce. Un po’ furbetto forse, ma solo per il bisogno di mettersi un pasto caldo nello stomaco. Un uomo che scava la scorza di una forma di formaggio pur di mangiare e che modella tra le mani quel ciocco di legno che tanto aveva impaurito Mastro Ciliegia, ma che per Geppetto è già diventato “il mi figliolo”, urlando la tenera gioia nel cuore della notte.
Il trasporto e l’empatia con Benigni, il pensiero di un uomo che si spinge “fino ai confini del mondo” pur di ritrovare il suo Pinocchio è tanto grande da coinvolgerci dall’inizio alla fine. Medesimo aspetto che ritroviamo anche in attori come Massimo Ceccherini, perfettamente disegnato nelle vesti di Volpe. Scaltro, ipocrita e furbissimo. Un po’ acciaccato e goffo, ma pur sempre una vecchia volpe. Uno dei ruoli che meglio veste all’attore fiorentino, facendo coppia con un Rocco Papaleo nelle vesti di un gatto un po’ troppo tonto, al tal punto da offuscare del tutto la minima interpretazione dell’attore.
Parlando di attori non sfruttati al massimo del loro potenziale, proprio come Papaleo, troviamo anche Gigi Proietti nel ruolo di Mangiafuoco. Parliamo uno dei più grandi attori e comici italiani, che rapisce immediatamente lo schermo, ma che al tempo stesso si deve districare in una parte che ha vita breve, lasciando un po’ di amaro in bocca alla fine del suo passaggio.
Sorprendente come sempre Massimiliano Gallo che, invece, si muove in ben due personaggi all’interno del film: il dottor Corvo e il direttore del Circo. Versatile, divertente, ironico e anche a seconda del personaggio un po’ ipocrita.
E sul finale abbiamo il nostro Pinocchio, l’esordiente Federico che riesce a strapparci di volta in volta un sorriso, a volte ad arrabbiarci, altre volte a trattenere il fiato, fino alla sequenza finale, forse una delle più riuscite e tenere del film, quando dopo tante peripezie ed aver imparato la lezione, dopo tanta, tanta fatica e sofferenza, il burattino di legno può finalmente addormentarsi per sempre tra le braccia della sua buona Fata, risvegliandosi questa volta nel corpo e nella carne di un bambino vero.
In conclusione, Pinocchio di Matteo Garrone è una favola, una favola per bambini, una favola per Natale. Una storia che ha ancora il potere di rendere gli occhi lucidi, ma che purtroppo non coglie l’occasione di essere qualcosa in più, di lasciare davvero il segno, mancando forse di coraggio e ribellione. Un film nostalgico e agrodolce, ma che alla fine della giostra è destinato ad essere solamente l’ennesima trasposizione di una storia che, la sua versione migliore cinematografica, continua ad averla vista unicamente negli anni settanta.