C’era una volta, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, un bambino pallido e riccioluto che risponde al nome di Tim Burton, nato e cresciuto in una città ordinaria, in mezzo a casa ordinarie e tutte uguali, con persone ordinarie. Quella città, che spesso ritroveremo nel corso della sua vita, è Burbank, non troppo distante dalla Città degli Angeli e dagli “sfarzi” di Hollywood, ma al tempo stesso molto diversa.
Burbank sembrava essere isolata dal tempo e dallo spazio. Un luogo quasi immaginario dove le case hanno tutte la stessa forma e i colori pastello.
Le famiglie incarnano un immaginario di perfezione americana, quasi come se fossero state vomitate da qualche spot anni ’50. Le persone sono come di plastica, parlano, agiscono, pensano allo stesso modo. Una cittadina imbottita di silicone e sogno americano.
Un luogo dove il nostro bambino si è subito sentito l’estraneo, il diverso, nutrendo il suo disagio nel silenzio e nella solitudine. Al tempo stesso, questo permise al nostro piccolo protagonista troppo pallido e troppo silenzioso, di iniziare a creare un suo immaginario.
Si, perché in una città dove sembra quasi che nessuno abbia delle passioni, dei sogni, delle fantasie, una città priva di storia e cultura, dove forse nessuno conosceva nemmeno il significato di parole come musica, cinema, letteratura, cos’altro si può fare se non omologarsi oppure cercare il proprio posto sicuro? La propria comfort zone dove emergere, creare mondi controversi e contrari alle regole di quella cittadina troppo stretta e piatta.
Nelle estati più calde, infatti, il grande schermo di una sala cinematografica abbandonata era il posto perfetto per poter alimentare un immaginario tanto diverso quanto incredibilmente reale. Un mondo fatto di demoni buoni e mostri colorati. Fatto di diversi, di emarginati ingenui che cercano il proprio posto nel mondo, di speciali che non si fermano di fronte alla prima regola o alla prima forma.
Un immaginario che attingeva dal grande horror anni ’50, ’60 e ’70 e che prendeva forma attraverso il volto spigoloso e gli occhi brillanti dell’idolo di questo bambino, ovvero Vincent Price. Lo stesso Price che darà vita, nel 1982, a uno dei primi e più famosi cortometraggi di Tim Burton.
Burbank è quel tipico posto dove tutto sembra tranquillo e tutto sembra perfetto, ma è proprio questa sensazione che rendeva così insicuro e a disagio il piccolo Tim.
Ed è per questo che per quel bambino era così facile empatizzare con quel cinema, quei personaggi, quel tipo di storie, raffigurandosi come in un racconto di Poe, Intrappolato nella sua stessa casa dove, per qualche strano motivo, i genitori avevano deciso di murare le finestre della sua stanza, lasciando solo un piccolo spiraglio di luce.
Se Batman senza Gotham, Superman senza Metropolis e Spider-Man senza New York non sono nulla, cosa sarebbe Tim Burton senza Burbank?
Probabilmente non l’artista, il creatore di sogni e incubi, che adesso tanto amiamo (e ogni tanto odiamo) e che ha caratterizzato un cinema che non può non essere definito se non con il termine burtoniano.
Perchè partire proprio dall’infanzia? Perché l’infanzia per ognuno di noi rappresenta il momento in cui si “sedimentano le idee e il nostro io prende forma“, come dice l’autore Mark Salisbury.
Ed è stato proprio durante l’infanzia, dopo quei terrificanti anni in quella città di cartone e plastica, che prenderanno forma le visioni che daranno poi vita ai futuri progetti di Tim Burton.
Ci basti anche solo pensare ad Edward Mani di Forbice o alla differenza tra il mondo dei vivi e quello dei morti, rappresentato sia in Nightmare Before Christmas che in La Sposa Cadavere. A personaggi come lo stesso Edward o l’eccentrico regista Ed Wood, alle storie di Ed Bloom e alla insicurezze di Victor.
Dai nomi (Vincent e Victor, Edward ed Ed), passando per le citazioni (Frankenstein, Ed Wood), ai paesaggi ricreati, tutto ha un legame particolarmente stretto e particolare con la propria infanzia.
Questo perché, come abbiamo visto anche negli anni, Tim Burton quando si impunta su un progetto crea un vero e proprio legame affettivo con quella storia e con quel personaggio, sia che si tratti di un cortometraggio, di un film o anche di un videoclip (Bones e Here With Me dei The Killers ad esempio).
Un legame radicato e profondo che negli anni ha dato vita al tipico personaggio burtoniano; un personaggio contraddistinto da un certo dualismo: da una parte l’essere dei reietti messi ai margini della società, dall’altra la spinta a vivere nel proprio mondo.
E, se ci pensiamo un attimo su, questo non ci porta proprio a ritrovarci nella stessa figura di Tim Burton?
Le immagini non sono mai letterali,
perché sono sempre legate a delle sensazioni.
Questo non vuol dire che Tim Burton ha avuto un’infanzia terribile o segnata da chissà quali cose impensabili per un bambino.
Semplicemente la sua è stata un’infanzia ordinaria attraverso una mente straordinaria che sapeva di non sentirsi a suo agio all’interno del mondo in cui era stata collocata.
A quanti di noi è successo? E quanti di noi lo pensano ancora?
Un bambino solo, insicuro e piuttosto timido, non particolarmente incline alle relazioni sociali, che amava il cinema, il disegno e giocare nel suo mondo.
Ed è proprio in questo mondo che ha trovato nel suo immaginario un linguaggio universale rivolto a tutti i “bambini” come lui, facendoci sentire meno incompresi anche nel silenzio e in quella solitudine infantile.
Del resto, questo non deve essere un mondo necessariamente triste e terribile. Macabro non vuol dire per forza di cose deprimente; anzi, più volte Burton ci ha dato dimostrazione di come “i morti” siano assai più vitali dei vivi.
Nel gotico di Tim Burton e nel suo grottesco possiamo ritrovare una sorta di demistificazione che, in parte, riprende la cultura messicana de El Dia de los Muertos, ma più che esorcizzare la morte, Tim Burton cerca di esorcizzare la vita.
Il suo cinema si è sempre – o quasi, purtroppo – contraddistinto per questa sua analisi nei confronti della società. Analisi che non voleva per forza essere moralista, pedante o ricattare in qualche modo lo spettatore. I film di Tim Burton rappresentano la sua idea di società e di persone, il suo modo di fare e la sua ideologia.
Ha sempre cercato di rappresentare la realtà in tutte le sue sfumature, spesso con elementi di “morte” quelle che sono le cose più positive e con elementi più comuni, invece, le contraddizioni, l’ordinario, il finto, lo standard e le imposizioni di una società che vorrebbe inquadrare tutti allo stesso modo, dimenticandosi spesso e volentieri che oltre al bianco e al nero c’è una vasta gamma di colori.
Così come ho già fatto qualche mese fa con John Carpenter, voglio provare a fare con voi un viaggio nella carriera di Tim Burton attraverso alcune delle sue pellicole più famose, da quelle cult a quelle che hanno inevitabilmente segnato il capitolo più distaccato, e anche meno in armonia, con la storia del bambino di Burbank.
Potrebbe interessarti:
Dal disegno al film: l’inizio con Disney e l’arrivo di Vincent
Il mondo di Tim Burton prende forma con un Tim adolescente. All’età di quattordici anni, il futuro regista visionario inizia a prendere confidenza con il disegno. La sua è una tecnica imprecisa, alimentata dagli “incubi” dei suoi film preferiti, come quelli di Mario Bava o Roger Corman.
Personaggi spesso spigolosi, grotteschi e mai troppo definiti.
Sembrano quasi degli scarabocchi su carta, ma riescono a rappresentare molto bene le idee e le visioni del regista. Il disegno era diventata l’arma per trasformare il banale di quella cittadina in qualcosa di incredibile e diverso. Qualcosa che potesse farlo sentire vivo in un modo tutto suo.
E tutt’ora il mondo di Burton prende forma attraverso il disegno, lasciando il compito ad altri di tracciare la storia attraverso le parole, mai scrivendo da solo una sceneggiatura.
È il 1976 quando Tim Burton vince una borsa di studio per entrare al California Istitute of Arts, ovvero la scuola di disegnatori fondata dalla Disney per allargare la sua squadra. E tre anni dopo con il suo cortometraggio d’animazione, Stalk of the Celery Monster, Burton attira l’attenzione della Disney, e viene assunto.
Ma la casa di Topolino, come si sa, è una prigione per uno spirito macabro come Tim Burton che disegna scheletri dalla mattina alla sera.
L’esperienza di Red e Toby nemiciamici del 1981 è l’inizio della nascita di uno dei personaggi iconici di Tim Burton, ovvero Jack Skellington.
Infatti, tra i disegni per gli storyboard del film, Burton non faceva altro che disegnare sul tavolo o sui bordi delle tavole, i bozzetti di quello che sarebbe diventato nel 1993 Tim Burton’s the Nightmare Before Christmas.
Ovviamente l’estro di Burton non si sposa per nulla con quello di Disney, eppure nonostante i numerosi escamotage ingegnati dal regista per farsi cacciare o le continue idee rifiutate, Tim Burton resta “l’artista concettuale” di Disney, fino a quando i due nuovi e giovani dirigenti della casa di Topolino, Julie Hickson e Tom Wilhite, nel 1982 danno la possibilità a Burton di creare il suo primo vero cortometraggio che darà vita alla sua cifra stilistica: Vincent.
In un misto tra disegno e stop-motion, Vincent è tutto ciò che è Tim Burton ed è tutto ciò che sarà il cinema di Burton.
Un anno più tardi, dopo aver omaggiato Vincent Price, per Tim Burton è il momento di celebrare un altro suo grande idolo, ovvero Boris Karloff e il mito del mostro di Frankenstein, con un mediometraggio chiamato Frankenweenie che narra la storia di un bambino che, dopo la morte del suo cane, decide di portarlo in vita proprio come fece il Dottor Frankenstein nel romanzo di Mary Shelley. Frankenweenie pone ancora di più le basi del cinema di Tim Burton, della mitologia e dello stile sul quale fonda le sue radici.
Da un lato abbiamo la creazione di un immaginario dominato da creature particolari e ricorrenti, spesso mostruose, dall’altro un primo accenno di satira e ironia nei confronti della società con un occhio di riguardo, quasi addolcito, per tutto ciò che viene considerato diverso e strano.
Da Pee-wee’s Big Adventure a Batman: la fine degli anni ottanta, l’inizio di un modello
Dopo aver lasciato la Disney, Burton viene subito “preso” dalla Warner Bros. che gli propone un progetto particolare, ovvero Pee-wee’s Big Adventure.
Arrivato piuttosto tardi sui nostri schermi, precisamente nel 2008, Pee-wee rappresenta una nuova sfumatura del personaggio burtoniano, in questo caso un bambinone nel corpo di un adulto. Ritornano sempre quelle atmosfere in bilico tra sogno e realtà, alimentando l’intero racconto con la stranezza dei personaggi.
Questo film segnerà anche l’incontro della prima grande collaborazione e amicizia nel mondo cinematografico della carriera di Tim Burton, ovvero quella con il compositore Danny Elfman, che ritroveremo quasi in tutti i titoli del regista.
La musica di Elfman sarà uno dei primi escamotage utilizzati da Burton per poter rappresentare qualcosa che in pellicola non sarebbe stato possibile fare per mancanza di budget o strumenti più adatti.
Potrebbe interessarti:
Per quanto amato dal pubblico, Pee-Wee viene distrutto dalla critica e considerato come “la peggior commedia dell’anno”, ma per quanto Burton senta di essere stato colpito nell’orgoglio, questa diventa la giusta occasione per iniziare a fare sul serio senza avere il timore della pressione della stampa al varco del secondo lavoro.
Ed è proprio in questo momento che gli arriva una sceneggiatura da Michael McDowell che presentava:
Un film che ti fa sentire in pace con l’idea della morte.
Di fronte a Beetlejuice – Spiritello Porcello sembra di trovarsi proprio di fronte all’essenza di Tim Burton, dove morte, spavento e ironia sembrano andare a braccetto, componendosi in un ingrediente del tutto nuovo e inaspettato.
Un film che si muove sulla base della sovversione dei valori tradizionali, assestando un bel calcio a tutto ciò che c’è di ordinario e normale. L’infanzia di Burton che torna ancora una volta, avvicinandoci sempre di più a uno dei film simbolo del regista, Edward Mani di Forbice.
Una delle prime commedie dove i protagonisti muoiono a pochi minuti dall’inizio del film, l’humor nero è la chiave di lettura della pellicola e la malinconia verso la vita sembra essere un sentimento che aleggia come un ulteriore personaggio della storia.
Nei panni dello scorretto spiritello porcello, troviamo un irriverente ed inedito Michael Keaton, tra i primi attori feticcio di Tim Burton, assieme ad una giovanissima Winona Ryder, oltre ad Alec Baldwin e Geena Davis, nei panni della coppia protagonista Adam e Barbara Maitland.
Solo un anno dop ritroveremo Keaton nuovamente con Burton, nel 1989, per dare vita a Batman, proprio nei panni del pipistrello di Gotham. Burton crea un universo incredibilmente fumettoso e perfettamente in stile gotico, un mondo che ancora oggi viene messo a confronto e preso come contraltare alla trilogia del Cavaliere Oscuro di Nolan.
Batman è esattamente “l’eroe” che meglio incarna l’immaginario dei personaggi di Tim Burton.
Solitario, con un grande dolore dentro, legato ad un evento traumatico e che si rifugia spesso e volentieri nel buio. Un pipistrello. Un personaggio della notte.
Un personaggio diviso a metà, esattamente come gran parte dei personaggi del regista, affascinato non tanto dal fumetto in sé per sé (Burton non è mai stato un grande amante dei fumetti) quanto per lo più per i disegni e l’idea che Batman e Joker gli davano.
Alla colonna sonora Burton si avvale nuovamente di Danny Elfman che poi sarà quasi sempre la sua prima scelta. Ad alcune canzoni del film collaborò anche Prince.
Nonostante l’incertezza iniziale, soprattutto dei fan, Batman ebbe un incredibile successo, raccogliendo 100 milioni di dollari in soli dieci giorni, il miglior successo per Warner Bros. fino al 1993, anno in cui al cinema arrivò il Jurassic Park di Spielberg.
Il reietto e il gotico: Edward, Ed Wood e Jack Skellington
Gli anni novanta, fin dal 1990, sono una decade molto importante per Tim Burton. Sono gli anni in cui il regista inizia a farsi un vero nome, viene facilmente riconosciuto per stile e mood e i suoi personaggi diventano il simbolo di un cinema con protagonista il diverso e il gotico.
Massima espressione di questo cinema, e probabilmente di tutto il cinema di Burton, è Edward Mani di Forbice, il primo film che segnerà una lunga e duratura collaborazione con l’attore feticcio Johnny Depp. In questo periodo, Burton fonda la sua casa di produzione, la Tim Burton Productions, di cui Edward Mani di Forbice è stato il primo film.
Pur non essendo una pellicola autobiografica, il film si basa sull’immagine dell’infanzia del regista, a partire dalla stessa cittadina in cui è ambientata la storia, proseguendo per le ispirazioni che vanno dal romanzo gotico, come ancora una volta Frankenstein, alla favola come quella de La Bella e la Bestia, fino ad omaggiare ancora una volta il suo idolo Vincent Price che partecipò alle riprese del film.
Con Edward Mani di Forbice Burton da vita “all’adolescente gotico”, personaggio che rifiuta il conformismo e il modello familiare, un personaggio che non vuole rientrare all’interno di un gruppo di appartenenza e che diviene elemento di disturbo in un mondo tutto uguale.
Ed Edward con il suo vestito di pelle nera, la sua diversità e il suo pallore mortale, è proprio quell’elemento gotico che irrompe nella vita pastellosa di una città frivola e piatta.
Il personaggio di Edward è la perfetta personificazione del dualismo burtoniano: creativo e distruttivo, vorrebbe poter toccare gli altri ma invece non può, una condizione che Burton associa all’adolescenza e che rende il film una reazione alla categorizzazione sociale tipica del sistema scolastico americano.
Temi centrali del film sono l’immagine e la percezione e, secondo lui, Johnny Depp era perfetto per incarnare questa realtà perché la gente lo giudica basandosi sul suo aspetto esteriore senza andare più in profondità.
Edward da vita anche al mito del reietto, altra figura tipica della cinematografia di Burton. Figura che ritroveremo quattro anni dopo con il biopic sull’eccentrico regista Edward D. Wood Jr., definito “il peggior regista di tutti i tempi“.
Ed Wood diventa il manifesto di tutti i reietti del mondo del cinema e dello spettacolo, amati dal pubblico e poi dimenticati. I freaks di cui il Tim bambino si era tanto innamorato.
Da Bela Lugosi a Vampira, passando per miti come Orson Wells, arrivando allo stesso Ed Wood (interpretato da Johnny Depp), regista incompreso e per questo molto amato dallo stesso Burton che sente di condividere tanto con l’uomo.
Il film racconta il periodo di lavorazione dei tre film di Wood (Gle to Glenda, storia
autobiografica di un travestito interpretato dallo stesso regista sotto pseudonimo, Bride of the Monster e Plane 9 to Outer Space), incentrandosi sul rapporto Wood/Lugosi (relazione simile a quella tra Burton e Vincent Price).
Ed Wood stesso è essenzialmente un personaggio burtoniano: un incompreso, emarginato, che non viene apprezzato per quello che è davvero, ma continuamente discriminato.
Il film ebbe un enorme consenso da parte della critica, ma non a livello di pubblico e botteghino, Ed Wood ebbe la fine dell personaggio di cui parlava: un incompreso.
A cavallo tra questi due film prendono vita altre due pellicole molto importati per Burton, ovvero il seguito di Batman, Batman – Il Ritorno (a cui alla fine Burton ha dovuto cedere), e Tim Burton’s the Nightmare Before Christmas.
Iniziò tutto con un’estenuante lotta con Disney, che non voleva ridare i diritti del progetto a Burton, pur non essendo interessata a produrlo perché ritenuto troppo dark per il pubblico della Disney. Una volta trovato un compromesso, Burton non potè purtroppo seguire il film come regista, affidandolo al regista Henry Selick.
Per me Halloween è sempre stata la festa più bella. Il momento in cui tutte le regole vengono sospese e puoi diventare quel che ti pare.
È la fantasia a dettare le regole. è una festa spaventosa, ma in qualche modo divertente. Nessuno cerca di spaventare gli altri.
Piuttosto di divertirli con la propria mostruosità. Questo è lo spirito di Halloween. E anche di Nightmare.
Il film nasce letteralmente da una poesia che ispirò Burton nei suoi primi bozzetti del personaggi di Jack Skellington, Twas the Night Before Christmas di Clement Clarke Moore. L’adattamento venne affidato da Danny Elfman, partendo proprio dalla musica del film, voce di Jack nella versione originale.
Il film è eseguito con la tecnica del passo a 1, tecnica lunga e dispendiosa, ma per Burton necessaria. I film in stop-motion, secondo il regista, riescono ad arrivare lì dove l’animazione e la live action non può, conservando in sé un’energia e magia unica.
Jack Skellington prosegue sulla strada del personaggio reietto e incompreso, volendo diventare a tutti i costi il re del Natale perché stanco di essere quello delle zucche. Ovviamente i buoni propositi di Jack, oscuri alla maggior parte, faranno diventare la viglia di Natale un vero e proprio incubo.
Un film dove due dei momenti festivi più amati nel mondo americano si fondono e quasi confondono. Un film giudicato troppo cupo per i bambini, ma che ad oggi resta uno dei film più amati e tra i personaggi più venduti all’interno dei Disney Store. Ricordando che nel 2018 Jack, Sally, Zero e gli altri personaggi del film hanno compiuto 25 anni.
Da Mars Attacks! a La Sposa Cadavere: gli anni del successo
Siamo nel 1995, e dopo dei grandi successi, Burton devi riprendersi dal brutto colpo di Ed Wood. Decide di volersi buttare su qualcosa di nuovo, di diverso. Qualcosa che rappresenti la sua cifra stilistica, ma che al tempo stesso mostri qualcosa di nuovo e mai visto prima.
Prima di tutto il regista scioglie la Tim Burton Productions, per poi iniziare a lavorare ad un film ispirato Topps Trading Cards del 1962 della Bubbles Inc., assieme allo sceneggiatore Johnathan Gems e, nuovamente, con la colonna sonora di Danny Elfman.
Inizialmente Burton pensò di adattare in stop-motion anche Mars Attacks!, ma il dispendio economico sarebbe stato troppo grande, Warner non aveva tutto quel tempo e il primo tentativo non convinse nessuno, optando in questo modo per la computer grafica. Il film voleva essere qualcosa di leggero e fresco, qualcosa di colorato ed estremo.
In effetti Burton si lanciò in questo progetto, che come sottotrama e significato era decisamente meno profondo degli altri, spinto dall’unica voglia di riprendere la fantascienza degli anni ’50 (come La Terra contro i dischi volanti di Fred S. Sears o La guerra dei mondi di H.G. Wells) che tanto lo aveva colpito da bambino.
Inoltre, dopo Ed Wood e una serie di progetti che portavano il suo nome (come il famoso Superman Lives con protagonista Nicholas Cage) ma che non videro mai la luce del sole, il regista statunitense aveva bisogno di ridarsi la carica.
Il film vanta un cast di tutto rispetto, con Jack Nicholson, Pierce Brosnan, Michael J. Fox, Glenn Close, una giovane Natalie Portman, Danny DeVito, Sarah Jessica Parker e molti altri.
Nonostante questo, le buone intenzioni e una campagna pubblicitaria che prima spacciò il film come un blockbuster e poi come un film comico, Mars Attacks! lasciò tutti piuttosto indifferenti, non riuscendo a ritrovare nel film le note peculiari del cinema di Burton che, abbattuto ancora una volta, decise di prendersi un piccolo periodo di pausa.
Allontanatosi dalla regia, nel 1997 Burton pubblicò la raccolta illustrata di racconti in versi, Morte malinconica del bambino Ostrica e altre storie. Storie in bilico tra la comicità e la vena macabra del regista, che parlano delle angosce dei bambini e delle sofferenze dei ragazzini emarginati.
Il 1999 vede il ritorno di Burton alla regia con Il Mistero di Sleepy Hollow, progetto nel quale il regista si tuffò con enorme entusiasmo e che ancora oggi ricordiamo come una delle favole gotiche meglio riuscite del regista.
Il film vede nuovamente come protagonista Johnny Depp, questa volta al fianco di Christina Ricci, decisamente l’antitesi delle “solite ragazze gotiche” mostrate da Burton nei film precedenti.
Se Edward Mani di Forbice riflette l’incapacità di Burton a comunicare nel periodo dell’infanzia e Ed Wood è lo specchio della sua relazione con Vincent Price, Il Mistero di Sleepy Hollow rappresenta lo scontro fra Burton e il sistema hollywoodiano, ormai stanco degli insuccessi collezionati.
Un nuovo “arresto” Burton lo accusa nel 2001 dopo aver accettando di dirigere la rielaborazione del film Il pianeta delle scimmie del 1968.
A distanza di anni il regista, più che dirsi pentito, rivela di aver accettato di fare il film più preso dall’entusiasmo per il progetto che per il film in sé per sé. Comunque l’insuccesso fu relativo. Sebbene la critica lo ritiene un film dimenticabile, considerandolo un flop, la pellicola incassò 360 milioni di dollari in tutto il mondo.
Critica o non critica, Burton era comunque tornato sulla cresta dell’onda e il 2003 ci regala un’altra delle sue magnifiche pellicole, Big Fish. Ancora una volta un film che parla molto dello stesso Burton, soprattutto con il rapporto che c’è tra il protagonista e le storie fantastiche di suo padre.
Durante la produzione de Il Pianeta delle Scimmie, Burton aveva infatti perso sia il padre che la madre, e Big Fish rappresentò l’occasione per il regista di portare in scena il rapporto con queste due figure.
Big Fish, sebbene torni sulle tematiche centrali del cinema di Burton, rappresenta comunque l’inizio di un cambio di atmosfera. Un mood quasi più romantico e nostalgico, dove a volte la profondità delle relazioni sostituisce il macabro.
Atteggiamento ritenuto dalla stampa americana “più maturo”, come se finalmente Burton avesse abbandonato i mostroni e si fosse dedicato al vero cinema. Errore di calcolo facilmente fraintendibile, se ci si approccia al cinema di Burton con una certa superficialità.
I “mostri” di Burton, così come le creature nello stesso Big Fish, sono la rappresentazione distorta di una realtà ordinaria che se inquadrato con la lente delle straordinario, riesce ad arrivare in modo molto più efficace, rappresentando perfettamente la sottile critica, mossa sempre con ironia, del regista nei confronti del mondo circostante.
Comunque, a prescindere da come uno vuole o non vuole concepire il “cambio” di Burton, le atmosfere più sentite e sentimentali, quasi nostalgiche, si faranno sentire anche due anni dopo con il remake de La Fabbrica di Cioccolato.
La Fabbrica di Cioccolato segna un po’ il momento di tregua tra Burton e Hollywood, portando il regista a confrontarsi con una seconda opera tratta da un racconto di uno dei suoi autori preferiti, Rohal Dah.
Il libro era stato già trasposto in versione cinematografica nel 1971 da Mel Stuart con Gene Wilder nelle vesti di Willy Wonka. Burton accettò la proposta di Warner nel trasporre nuovamente il film, ma fece riscrivere lo script da John August (sceneggiatore di Big Fish).
La preparazione a La Fabbrica di Cioccolato fu una vera e propria full immersion nel mondo di Dahl per Burton, riscoprendosi molto simile all’autore sia per l’umorismo macabro che per il suo essere politically uncorrect.
Presto Willy Wonka divenne il tipico personaggio delle storie di Tim Burton, ma con l’aggiunta di un elemento di backstory per unire ancora di più regista al nuovo film, ovvero il rapporto difficile tra Wonka e suo padre.
Nel cast ritornerà ancora una volta Johnny Depp e anche la compagna del regista, Helena Boham Carter, incontrata sul set de Il pianeta delle scimmie e che durante la produzione di Big Fish diede alla luce il loro primo figlio.
Come per tutti i film di Burton, il set era assolutamente reale e non ricostruito in computer grafica, tecnica – all’epoca – non troppo amata dal regista. Aneddoto? Per la scena degli scoiattoli, Burton fece addestrare per cinque mesi degli scoiattoli veri pur di non ricorrere alla CGI. Ah… bei tempi!
Punta di diamante di quegli anni fu La Sposa Cadavere. Squadra che vince non si cambia? Mai detto fu più vero nel caso di Tim Burton, che ripescò alcuni dei suoi elementi chiave, attingendo dalle sue pellicole più iconiche, per portare al cinema una nuova pellicola d’animazione in stop motion incredibilmente amata e spettacolare.
Come nel caso di Nightmare Before Christmas, anche La Sposa Cadavere nasce da un’ispirazione, in questo caso non si tratta di una poesia ma di un vecchio racconto di origine europea trovato da Joe Ranft durante la lavorazione di Nightmare. Burton era rimasto affascinato dal racconto a tal punto da realizzare qualche schizzi perfetti per lo storyboard di un’ipotetica storia.
La sposa cadavere prese forma molti anni prima della sua rappresentazione su schermo, infatti il progetto rimase legato a Warner Bros. Ad occuparsi della sceneggiatura fu ancora una volta John August.
Ovviamente il film venne progettato fin da subito con la tecnica dello stop-motion, ma questa volta Burton dovette ad adattarsi anche all’avanzare delle nuove tecnologie; quindi, invece delle vecchie cineprese, il film venne girato con macchine fotografiche digitali.
Alice in Wonderland e gli anni ’10: l’inizio della fine
Purtroppo, come le storie ci insegnano, non tutto può sempre essere rosa e fiori. Nella vita, spesso e volentieri in un mondo così complicato come quello del cinema, è inevitabile scendere a compromessi. Lo hanno fatto tanti registi, certo, ma devo essere sincera, non so se a parlare sia più la fan che altro, da un outsider come Tim Burton non me lo sarei mai aspettato.
Dal 2010 ad oggi il regista visionario, creatore di incubi e sogni per un’intera generazione e che ha influenzato – o forse sarebbe meglio dire creato – un certo stile di regia, a tal punto che oramai con il termine burtoniano intendiamo “qualunque regista sia abbastanza cupo o eccentrico o contorto, o tutte e tre le cose insieme“, come dice Mark Salisbury nell’introduzione dell’autobiografia Burton Racconta Burton, si è perso lungo il sentiero.
Abbiamo evidenziato come il lavoro di Tim Burton si sia sempre basato su dei legami particolarmente intimi tra storia e personaggi, cercando di rappresentare pellicole quanto più vicine al suo mondo, alla sua immagine, alle sue passioni, compresi miti del passato o storie della sua infanzia.
Questo aspetto, in effetti, è rimasto anche in questi anni dove, tra alti e bassi, sicuramente Tim Burton ha continuato ad alimentare la sua popolarità, ma lo ha fatto scendendo a patti col diavolo, confezionando quelle pellicole di cui meno era attratto: i blockbuster.
Alice in Wonderland è solo l’inizio, sebbene resti il gradino più infimo e basso della carriera di Burton, di questa seconda fase che dura da quasi da nove anni.
Una fase caratterizzata da alti e bassi. Film apparentemente giusti, ma che alla fine della giostra si rivelano essere impersonali, poco approfonditi, quasi sciatti.
Sulla carta Alice in Wonderland, uno dei primissimi live action della Disney, poteva rappresentare in pieno l’universo di Burton, tra le sue visioni, le sue piccole follie e il suo mondo al contrario, ma tristemente la pellicola si rivela un minestrone di quanto più odiato dal regista, dove al primo posto spicca chinarsi alle regole della Disney – da sempre combattuta con fierezza – e l’abuso di una computer grafica disturbante (e non nel senso positivo del termine) e nauseante.
Da questo momento in poi è come se Tim Burton avesse del tutto perso l’orientamento, non riuscendo neanche più a trovare la giusta alchimia che, invece, aveva caratterizzato anche il rapporto con gli attori Johnny Depp ed Helena Bonham Carter.
Qualche avvisaglia la si era avuta già con Sweeney Todd, arrivato due anni dopo La Sposa Cadavere, e con protagonisti Depp – Carter. Il film metteva in scena l’adattamento dell’omonimo musical di Stephen Sondheim e Hugh Wheeler, a sua volta adattamento del dramma teatrale omonimo di George Dibdin Pitt del 1842.
Sebbene il film presentasse scenicamente e tematicamente i tratti salienti della cinematografia di Burton, probabilmente presentandosi come uno dei suoi film più cupi e oscuri, con dei costumi e delle scenografie da togliere letteralmente il fiato (quest’ultime realizzate da Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, vincendo l’Oscar), alla fine Sweeney Todd manca dello stesso mordente delle precedenti pellicole di Burton, perfino di quelle più deboli.
Alice si è quindi dimostrato il gradino più basso della carriera di Burton che, purtroppo, non è più riuscito a trovare la sincerità, la purezza di una storia fatta per il gusto di rappresentare il mondo di ombre, sfumature, mostri sotto al letto e uomini dalle mani di forbice.
Alti e bassi durante questi anni, riuscendo a vedere un unico spiraglio di luce con la versione animata in stop-motion, sempre in bianco e nero, di Frankenweenie, dove il regista statunitense riconquista – per poco tempo – i suoi ideali, la sua poetica, portando sullo schermo una storia tanto piccola quanto dal cuore grande.
Ritorna il mostro, gli idoli del passato da Frankenstein a Vincent Price, lo stile di un mondo tipicamente costruito sulla cinematografia passata, proprio quella della fine anni ottanta e inizio duemila di Burton.
Una pellicola che sa mettere una pezza a colore sulla parentesi precedente iniziata con Alice in Wonderland e continuata con l’altrettanto poco convincente – ma quanto meno volutamente grottesco – Dark Shadows.
Nel caso di Dark Shadow, appunto Burton parte da una passione, da qualcosa che ama, e cerca di mettere sullo schermo una commedia dark, un po’ favola, un po’ satira, che prende forma soprattutto con le interpretazioni di Johnny Depp ed Eva Green, nuova pupilla del regista che rivedremo sia in Miss Peregrine che presto nell’atteso Dumbo.
Eppure anche Dark Shadows non riesce davvero a scalfire. Non riesce a conquistare. Forse l’effetto è quanto più simile a quello provocato da Mars Attacks!, ma senza riuscire ad essere quel “piccolo cult di genere” che il paradossale film di fantascienza si è rivelato negli anni.
Dark Shadows è uno di quei film girati in questi anni da Burton con stanchezza, senza del vero entusiasmo, senza averci creduto fino in fondo, senza averci provato per davvero.
Il 2014 è l’anno di Big Eyes, probabilmente il film più anonimo e terribilmente lontano dalla regia di Burton.
Una storia poco sfruttata, girata in modo semplice, canonico, priva di sfumature, di sentimenti. Un compitino ben fatto che ci si aspetterebbe da un giovane regista e non certo da un autore del calibro e dalla mente come quella di Tim Burton, all’epoca all’attivo da quasi trent’anni.
Un film che a tratti potrebbe perfino essere piacevole, certo, se fate parte di quella piccola fascia di persone che non sa minimanete chi sia e cosa abbia fatto nella sua vita Tim Burton.
Giocosamente potremmo dire “un Big Fish” che non ce l’ha fatta, ma perché a differenza di Big Fish, Big Eyes non ha nemmeno quell’atmosfera sentimentale, nostalgica e comunque leggermente gotica tipica di un film maturo e profondo come è Big Fish.
Ormai delusi, affranti e anche affaticati dallo sperare ancora – un po’ come quando Ridley Scott ci promette un nuovo Alien e poi ci propina cose come Prometheus o Covenant – Tim Burton è un regista che si fa volere bene più per effetto nostalgia che per altro. In lui non si riesce più a trovare la voglia di un tempo, eppure… siamo dei sognatori. Continuiamo a essere un po’ quei bambini cresciuti all’ombra di un cinema di una cittadina color pastello.
Forse è proprio per questo che Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali sembrava essere il tavolino di prova, il film della svolta, del grande ritorno. La trilogia di Ramson Riggs sembrava essere il giusto racconto, la perfetta storia per un uomo come Tim Burton perso, sperduto come uno dei bambini di Peter Pan, che cerca affannosamente la via del ritorno senza però riuscirci per davvero.
C’è la storia, c’è un Eva Green perfetta per la parte, ci sono i mostri, ci sono gli speciali, il reietto e il diverso, c’è una metafora e distorsione della realtà importantissima. C’è una backstory alla base di questo racconto perfetta per Tim Burton che, però, ce la fa e non ce la fa. Ci prova, almeno questa volta. Ritornano i temi, ritorna l’atmosfera, il gotico e il grottesco.
Ritornao anche il cuore e i sentimenti, eppure tutto scalfisce unicamente la superficie. Non va mai fino in fondo. Pur non essendo una pellicola Disney, sembra quasi che il film resti ancorato a determinate regole troppo vicine a un politicamente corretto che, invece, da sempre è stato detestato dal regista.
Miss Peregrine è una lenta, lentissima, risalita del regista verso una vecchia cinematografia che sa ancora di contaminato, di poco sincero e troppo stanco. La vera redenzione, per paradosso, arriverà proprio con Dumbo?
In fondo, sono anni che Burton ci parla di questo progetto. Ci tiene. Lo vuole fare fortemente e questo suo tirare la corda ricorda non poco i suoi albori, la sua fermezza nel fare un certo tipo di cinema. Un live action che prima doveva essere in stop-motion. Poi è stato cancellato. Poi ripreso. Cancellato di nuovo.
E adesso, a distanza di meno di due mesi, siamo in attesa di un verdetto finale. Ammaliati dalle immagini, dai colori e dalle atmosfere, ma con la paura nel cuore che, ancora una volta, il caro e vecchio zio Tim ci stia solo regalando un miraggio di un tempo che ormai è stato e che, facciamocene una ragione, non tornerà più.
Però, “zio Tim”, io che sono stata una bambina “diversa”, cresciuta in una città troppo stretta, chiamata più volte strana, giudicata per i vestiti, i capelli o per quegli occhi troppo scuri, per i suoi gusti, per la sua mania di vivere troppo in un mondo immaginario fatto di ombre e vampiri, mostri e fantasmi, di sogni di cellulosa e cinema troppo piccoli, non riesco proprio a non darti fiducia, ancora e ancora e ancora una volta.
E dopo quasi seimila parole di quella che è stata la tua incredibile carriera fatti di luci e ombre, spero tanto che durante le riprese di questo tuo ultimo film ti sia ricordato di quel bambino riccioluto, magro e pallido cresciuto con Vincent Price ed Edgar Allan Poe.