Aspettando l’ultimo round – 5

prettygirl

Non esiste onore senza una coscienza immacolata, bisogna essere belli, alti, svegli e sempre coraggiosi. In un certo senso, il mondo ti fotte.

“Senta, probabilmente avrete fatto delle ricerche sul mio conto e sapete già chi sono e che tipo di vita conduco, ma voglio essere franco con lei: non so davvero di cosa stia parlando. Non c’era nessun pacco nella mia cassetta delle lettere, un tizio mi ha chiamato sul cellulare e mi ha chiesto del plico, poi mi ha dato un appuntamento nel posto dove il suo bodyguard mi ha messo KO. Sono stato legato e picchiato e ora lei mi sta interrogando, e io non so neanche chi siete. Siamo al primo piano – dissi guardando la finestra – mi basterebbe lanciarmi contro il vetro, correre e chiamare aiuto.”

Il vecchio non si scompose più di tanto, ma io continuai la mia arringa.
“Le propongo un patto. Ora io esco di qui senza che nessuno cerchi di fermarmi e io mi dimentico di questa storia, di Paolo, del plico e del cimitero e della sua faccia. D’accordo?”

Il telefono squillò proprio mentre il mio anziano carceriere distorceva la faccia in una smorfia di derisione e disapprovazione rivolta nei miei confronti. Con monosillabi sottili e flautati rispose alle domande dell’interlocutore all’altro capo, poi tornò a me. Aveva un’espressione diversa.
Qualcuno in alto aveva detto.

“Mi scusi – sibilò sorridendo – …la sua è un’ottima offerta, ma io gliene propongo una migliore”

Mise le mani in un cassetto; tremai. Una Beretta? Una Luger? Una Colt? Cosa avrebbe tirato fuori dalla scrivania? Non poteva freddarmi su un tappeto così antico, così costoso, così rosso. Persi qualche nanogrammo di tensione sentendo la fine avvicinarsi.
Lo vidi armeggiare con quelle mani scarne ed ossute tra decine di fogli immacolati fino a quando estrasse un libretto delle giustificazioni e scrisse qualcosa con una penna stilografica.

“Facciamo così. Questo è un assegno, lo prenda, intendiamo sdebitarci per il disturbo arrecatole. È evidente che c’è stato uno scambio di persona; tuttavia, se venisse a sapere dov’è quella lettera la prego di farsi vivo. Chiami questo numero. Su, prenda. Ho detto prenda. Arrivederci”.

Non sapevo se essere felice o no, soprattutto mi tartassava un dubbio: o io ero un affarista nato o mi era sfuggito qualcosa. Il vecchio mi porse un foglietto e l’assegno e poi chiamò il suo fido, muto assistente, che m’accompagnò alla porta. Arrivati all’ingresso Paolo si girò verso di me, mi passò la mano sulla spalla e prima di avvertire la pressione delle sue dita ero già addormentato, steso, sognante, sul suo gigantesco metacarpo.

Buio. Stava diventando un’abitudine, e non mi piaceva affatto. Non ero legato, alzai le mani e mi toccai il viso; non avevo fasce attorno agli occhi, e così lentamente delle luci iniziarono a farsi vive; fiammelle crepitanti, calde, timide. Probabilmente candele, nell’immediata lontananza.
Ci vollero poche decine di secondi per riacquistare del tutto la vista. Avevo forse sognato tutto? Certo, chissà che diavolo mi era preso. Infreddolito dall’angoscia misi le mani in tasca e mi accorsi dei due pezzi di carta, ma mi mancò il coraggio di estrarli per controllare meglio: poteva essere una realtà che non mi piaceva.
Mi era capitata la stessa sensazione qualche altra volta, di notte, da bambino: sognavo di diventare cieco e quando mi svegliavo in preda agli incubi non volevo accendere la luce. Non ce la facevo; le mie manine rattrappite si contorcevano disperate sotto le coperte di lana grezza in cerca di aiuto, un aiuto che prontamente arrivava col Sole del mattino. Il Sole faceva sì che non ci fosse mai un ultimo round, col suo ciclico riproporsi che, in un modo o nell’altro, mi infondeva sicurezza come se mi dicesse “c’è sempre una seconda occasione”.

Sull’orlo della nevrosi mi guardai attorno, ed ebbi la conferma che cercavo: candele. Panche di legno. Puzza di muffa e di incenso. Ero dentro una chiesa, senza dubbio. Il crocifisso che mi guardava pensieroso mentre cercavo di svignarmela confermò la mia ipotesi. Piccolo problema, le gambe ancora scosse non risposero al loro controllo e franai sulla nuda pietra del pavimento, nello stesso modo in cui immaginavo sarebbe caduto a terra un crociato ferito. Ma io ero ateo o giù di lì.

“CHI C’È???” tuonò una voce dalla sagrestia. Ne venne fuori un prete alto ed anziano, con barba bianca in dotazione e rosario a ripetizione automatica. Gandalf il grigio avrei detto, se non fosse stato per il saio color marrone penitenza, e per un viso che ne diceva più di quante volesse raccontarne.

“Mi scusi – oddio, com’è che si diceva…prete..don…ah si si – padre, non mi sento molto bene ed ho inciampato nella panca mentre andavo via. Saprebbe dirmi da quanto tempo sono qui dentro? Ho perso la nozione del tempo – effettivamente l’odore dell’incenso mi faceva questo effetto – e credo si sia fatto tardi“
“Non saprei, ti vedo ora per la prima volta. Sei caduto? Ti sei fatto male?”
“Non credo, solo mi sento un po’ confuso. Forse è meglio che torni a casa… arrivederci padre”
“Arrivederci figliolo” disse il saggio, con l’aria di saperla davvero lunga.

Uscii dalla chiesa e piuttosto sorpreso mi ritrovai in piazza San Francesco. Era stata una bella mossa lasciarmi addormentato dentro una chiesa: non sapevo come c’ero arrivato, che ora fosse e come avrebbe reagito lo specchio vedendomi. E viceversa. Non era stato un vagheggiamento della mia mente, tutto era successo nella realtà ed ora ero stordito, dolorante, un inconsapevole burattino mosso da assurdi e potenti fili.

Mi sedetti su una panchina e mi presi il capo tra le mani, dovevo pensare.
Non lo facevo più da tempo, non c’ero più abituato, mi scatenava un gran mal di testa: ma dovevo provarci. Stilare una scheda di quanto era successo. Un plico mi era stato recapitato per errore. Qualcuno era interessato al suo contenuto, quindi doveva essere qualcosa di un valore relativo. Nelle mie mani non doveva valere nulla, dal momento che ero ancora vivo e tutto sommato in buone condizioni. Per il vecchio che mi aveva fatto rapire invece doveva rappresentare una fortuna. Poi però mi aveva lasciato andare. Qualcuno aveva cercato di avvertirmi, forse la stessa persona che aveva tolto la busta dalla mia cassetta delle lettere.
Avevo fatto la conoscenza di un nerboruto e pingue energumeno piuttosto abile nella difesa personale, di un anziano uomo d’affari spietato e senza scrupoli e di un placido frate francescano che era uscito dalla sagrestia per entrare a far parte di quel teatrino ai limiti del credibile.

Decisi di dimenticare tutto, visto che la polizia non mi avrebbe mai dato retta e non sapevo neanche chi accusare. Probabilmente avevo a che fare con una grossa multinazionale, avrei fatto bene a starmene zitto e a far finta di niente, ciononostante mi tenni in tasca quello che forse era un assegno, e mi alzai in piedi.

Occristo!” esclamai sul sagrato, sentendomi subito colpevole come Baggio dopo il rigore del ‘94: mi ero scordato della cena con Chiara. Il cielo nero e stellato tradiva l’imprecisione del tempo, potevano essere le 17 o le 23 dello stesso giorno. La nebbia assaporava le strade lambendone l’umidità con la lingua vaporosa mentre procedeva diretta sul mio corpo sfatto.
Mi tastai le costole. Avevo con me il cellulare, lo tirai fuori dalla tasca sinistra e controllai l’ora. 20:30, esultò il display. Dopo una corsa affannosa per raggiungere la sua fermata, l’autobus 19 mi portò a destinazione in 10 minuti netti. Casa mia era in perfetto disordine, cioè esattamente come l’avevo lasciata quando ero uscito; dei miei coinquilini nessuna traccia, forse avevano anche loro un assegno in tasca, a quell’ora. Chissà.

“Dai cazzo, doccia velocissima”, mi dissi dirigendomi verso il bagno. Era pazzesco, tutto era successo in un modo così normale che lo shock e i colpi presi vennero via con sole due passate bollenti. Forse troppo bollenti; il mio andrologo avrebbe avuto presto qualcosa su cui lavorare. Ma non era quello il momento per pensarci.
Questo è quanto successe nei minuti che seguirono:

20:50, vestiti e deodorante
20:55, ero ancora in tempo, ancora in tempo
20:57, l’autobus numero 19 mi strizzò l’occhio e mi caricò starnutendo benzina e nitrendo carbonio
21:17, l’appartamento di Chiara, quarto piano, mi guardava dall’alto in basso sfidando la mia giornata e il mio ritardo, nonché la mia camminata scimmiesca.

Citofono. Voce angelica.

“Chi è?”
“Lo sai chi è”, risposta standard da uomo affamato. Scale. Porta, l’ultimo profumato baluardo della sua castità virginale.
E Chiara aprì la porta sorridendo.

 

 

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