Nella nebbia

Nebbia

Le mie ginocchia colpiscono con forza l’asfalto. Non è possibile. Quello che ho davanti agli occhi non ha alcun senso. Cerco un appiglio, ma le mie mani trovano solo altro asfalto.

Vorrei non essere mai arrivata in questo borgo immerso nella nebbia. Avrei dovuto tirare dritto, rimanere sul treno fino a casa mia. Anzi, avrei dovuto rinunciare a questo viaggio sin dall’inizio. Eppure non avevo scelta. Se fossi rimasta anche solo un altro giorno seduta al tavolo in cucina, a rileggere quelle poche righe, mentre l’orologio tagliava in due i secondi con un boato secco…

Quella lettera fu l’inizio e la fine. Quando lessi il nome del mittente sprofondai nel terrore. Quando lessi il contenuto sprofondai nello sconforto. Mio marito era ufficialmente disperso in guerra. Nessun addio, nessun abbraccio. Svanito come un sogno alle prime luci del giorno, assieme a tutti i nostri progetti.

Ci misi due mesi ad alzarmi da quella sedia, a fare la valigia e partire per allontanarmi dalla solitudine. Era l’unico modo per riprendere il controllo della mia vita prima che il fiore dei miei anni appassisse. Eppure ora vorrei non averlo fatto, perché mi ha portato a questo momento.

Quando scesi dal treno fui accolta dalle campane. L’aria umida profumava di terra rivoltata. Un odore familiare, portato da una nebbia che mi avvolgeva morbidamente. Si alzava dalle campagne tappezzate di vigneti per poi insinuarsi nelle strade della cittadina, lungo i viottoli, fino alla piazza antistante la chiesa. Lì mi ritrovai dopo pochi minuti, seppur non conoscessi la direzione.

Piccole figure indistinte sbucavano dai portoni e dalle vie, camminando senza fretta verso il sagrato.

Una mano sul braccio mi fece girare. Una piccola anziana mi sorrideva teneramente.

«Buongiorno, andiamo mia cara» mi disse prendendomi sottobraccio.
Mi ritrovai a camminare al suo fianco, incapace di declinare l’invito. La compassione che sembrava luccicare nei suoi occhi mi impedì di domandare cosa significassero le sue lacrime. Poi salii l’ultimo gradino antistante la chiesa. L’epigrafe affissa alla bacheca mi colpì allo stomaco. Mio marito mi fissava da una vecchia foto, ricordandomi di partecipare alla sua messa di commemorazione. La nebbia rallentò ancora di più lo scorrere del tempo finché il parroco non mi scosse, richiamato dal mio muto grido d’angoscia.

«Adele, si sente bene?» mi chiese con preoccupazione.
Non risposi. Mi aggrappai a lui mentre il mio sguardo si aggrappava a quella fotografia, cercando disperatamente una risposta. Dopo averlo pianto per due mesi l’avevo ritrovato in questo paesino lontano da casa, vittima di un destino che non conoscevo.

«È da sola?» mi chiese il parroco. «Lasci che la accompagni a casa, terremo comunque la liturgia per suo marito, ma ora deve riposarsi.»
Solo allora mi scossi e lo guardai con stupore. Mi aveva appena chiamato per nome? Chi era? Come faceva a conoscermi? Glielo domandai.

Mi rispose con un debole sorriso, mentre mi conduceva oltre la piazza. «Non si preoccupi, tra poco sarà di nuovo a casa. Si fidi del Don.» Il suo viso mi parlava più delle sue parole. Qualcosa nel suo sguardo, nei suoi lineamenti mi indusse a non chiedere oltre. Mi lasciai alle spalle il brusio del sagrato. Presi d’istinto la via sulla destra. Nella mia testa il viso di mio marito si accavallava a quello del parroco, il mio viso si accavallava a quello dell’anziana che mi aveva preso sottobraccio e le domande si accavallavano le une sulle altre. Ora la seconda a sinistra. La nebbia si muoveva con me, sospingendomi lungo un percorso tracciato da antichi ricordi.

«Vedrà che suo figlio la sta aspettando.» La voce del don mi giungeva indistinta, il suo timbro apparteneva a decine di persone diverse.
Giusto dietro l’angolo, solo una decina di metri.

La prima cosa che vidi fu il cespuglio di rose contro la ringhiera. Il mio cespuglio di rose bianche. La mia ringhiera appena ridipinta. Il mio portoncino rosso. La mia casa. Caddi in ginocchio sull’asfalto.

E ora eccomi qua, di fronte ad una vita che riconosco ma non ricordo. Il respiro accelera per lo stupore. Il cancello si apre. Mio marito mi corre incontro.

«Mamma!» grida con un misto di preoccupazione e sollievo.
La nebbia cala più fitta, portando con sé l’oblio.

Mia madre giace nel suo letto. Le accarezzo la mano grinzosa. Alla fine è andato tutto bene. Quando non l’ho più trovata a casa, stamattina, sono corso fuori a cercarla. Avrei dovuto sapere che in qualche modo si sarebbe ricordata di papà, della sua messa. Di lui non ha mai perso memoria, anche se a volte confonde il mio viso col suo. Mi basta questo, essere uno lampo di luce nei suoi occhi, di tanto in tanto.

Respira tranquilla. Da qua sembra così. Spero stia sognando qualcosa di bello, qualcosa che da sveglia la turberebbe, le farebbe paura. Spero stia sognando di essere ancora giovane, in un tempo in cui stava creando i ricordi che ora le tengono compagnia nelle sue lunghe giornate di nebbia.

 

Questo racconto è stato scritto per un concorso di letteratura che prevedeva un limite di 5000 battute spazi inclusi.
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