La teoria percettiva di Young–Helmholtz

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Rieccoci alla terza puntata di questa rubrica sui colori!

Previously on Colorama: episode uàn and episode .

Nell’ultima puntata eravamo rimasti al giro di boa tra il ‘700 e l’800, con le incongruenze che la teoria dei colori di Goethe aveva trovato nell’ottica di Newton, incongruenze rimaste ancora senza una reale spiegazione scientifica.
Nel secolo che stava iniziando, si sarebbe tentato di analizzare e risolvere alcuni di questi misteri.

La teoria tricromatica di Young

Ai primi dell’800, il medico inglese Thomas Young, partendo dall'idea di Descartes della costruzione dell’immagine all’interno dell’occhio, si rese conto dell’inutilità e dell’impossibilità pratica dell’esistenza di infiniti fotorecettori.

Era infatti quasi impossibile, proprio per l’esiguità della superficie della retina, che in ogni punto potessero esistere tante particelle diverse quanti i colori discriminati dall’occhio.

Teorizzò quindi l’esistenza di tre soli tipi di recettori, associati ai tre colori primari pittorici: giallo, magenta, e ciano.
Se i pittori riuscivano, infatti, a partire da una tavolozza molto limitata ricreando quasi ogni colore, anche l’occhio avrebbe potuto fare altrettanto: esattamente come nelle mescolanze di colori dei pittori, i tre tipi di fotorecettori, ognuno sensibile ad un colore primario, rilevavano tre diversi stimoli (da cui il nome di modello tristimolo), che il cervello poi univa generando il colore.

Young fu anche il primo a fornire un’interpretazione corretta del disturbo conosciuto come Daltonismo, e cioè che mancava uno dei tre tipi di fotorecettori per il colore.

Gli sviluppi di Helmholtz

Verso la metà dell’800, il fisico tedesco Hermann von Helmholtz riprese ed approfondì la teoria di Young, che prese il nome combinato dei due scienziati.

Helmholtz espresse ciò che Young aveva definito genericamente come “colori” in funzione delle lunghezze d’onda della luce riflessa: ognuno dei tre tipi di coni retinici era sensibile solo ad una certa fascia di lunghezze d’onda ed assorbiva solo la componente della luce che in quella fascia era compresa.
In tal modo, una luce con lunghezza d’onda sui 450nm (blu) avrebbe stimolato i coni retinici di tipo S (short) sensibili a quelle lunghezze d’onda, e non quelli di tipo M (medium) o L (long), generando così la sensazione del blu.

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Sensibilità dei tre tipi di coni retinici alle diverse lunghezze d’onda della luce.
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Helmholtz introdusse anche le differenze tra luci e pigmenti, e tra sintesi additiva e sintesi sottrattiva (concetti che approfondiremo più avanti), evidenziando come il comportamento dell’occhio non era in realtà uguale al modo in cui si mescolavano i colori dei pittori: i colori primari che Young aveva ipotizzato, non erano quelli della tavolozza, ma il rosso, il verde e il blu, primari della sintesi additiva.

Se si era arrivati ad una spiegazione semplice ed elegante della visione, che conciliava la fisica di Newton con la filosofia dell’immagine costruita nell’occhio di Goethe, restavano tuttavia molti aspetti ancora inspiegati.

I colori non spettrali

Il mistero del viola (da non confondere col violetto, esso si appartenente allo spettro visibile), ad esempio, era ancora da chiarire. Come poteva l’occhio vedere un colore non esistente tra i colori spettrali?

La spiegazione più ovvia, alla luce della nuova teoria, era che il cervello, ricevendo contemporaneamente uno stimolo sui soli due recettori del blu e del rosso (ovvero una luce blu, con lunghezza d’onda sui 430 nm, e una rossa, 650 nm), non riuscisse a trovare nessuna lunghezza d’onda dominante tra quelle appartenenti allo spettro, e interpretasse la combinazione generando un nuovo colore, il viola.

Variando poi le proporzioni dei due colori estremi dello spettro visibile, il rosso e il violetto, si otteneva tutta una gamma di colori non spettrali, detti porpore, tra cui anche il magenta.

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Si poteva quindi modificare il modello cromatico di Newton, che come abbiamo già visto si era dimostrato incompleto, aggiungendo questi “nuovi” colori generati dall’occhio stesso.

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A sinistra: la ruota dei colori originale di Newton, con i soli colori spettrali. A destra: la ruota dei colori modificata con l’aggiunta dei colori non spettrali, e delle lunghezze d’onda della luce.
 
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Se l’idea appariva funzionale ed elegante, tuttavia, mancava ancora qualsiasi riscontro effettivo che ne confermasse la validità.

I fenomeni ancora inspiegati

Anche il problema esposto dettagliatamente dal chimico francese Michel-Eugene Chevreul, non aveva ancora avuto risposta.
Chevreul, studiando le combinazioni di colori sui capi di abbigliamento prodotti dall’azienda per la quale lavorava, osservò, come Goethe in precedenza, che due colori adiacenti vengono percepiti dall’occhio in maniera diversa da come sono realmente, influenzandosi a vicenda.
In particolare, ognuno tendeva a tingere l’altro del proprio colore complementare. Un giallo ad esempio, tendeva a colorare leggermente di blu i colori adiacenti, e se accostato ad un verde, tendeva a tingersi leggermente di magenta.
Chevreul definì questo fenomeno come contrasto simultaneo.

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Esempio di contrasto simultaneo: i due pallini e i due semicerchi hanno esattamente lo stesso colore (controllate su photoshop, scettici! ). Tuttavia, fissando per alcuni secondi il pallino destro, sembrerà leggermente più rosso di quello sinistro. Allo stesso modo il semicerchio destro risulterà piu scuro del sinistro.
 
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Analogamente, Chevreul osservò che se l’occhio fissa per un certo tempo (almeno 15-20 secondi) un’immagine fortemente colorata, guardando successivamente su uno sfondo bianco si ha l’impressione di continuare a vedere la stessa immagine, del colore complementare a quello reale. Questo fenomeno di contrasto successivo per Chevreul, seguiva le stesse leggi del contrasto simultaneo.

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Esempio di contrasto successivo: fissando per 15-20 secondi la croce gialla in campo blu, e spostando poi lo sguardo nella zona bianca centrale, sembrerà di vedere un alone con una croce blu in campo giallo. Analogamente, con l’immagine destra, vedremo una croce verde in campo rosso.
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Ma erano fenomeni puramente percettivi, o una reale interazione fisica tra le luci riflesse dai colori?

Restava poi da spiegare il fenomeno della costanza percettiva.
Lo stesso Helmholtz, infatti, era ben consapevole che i colori degli oggetti si mantengono costanti anche nonostante notevoli differenze di lunghezza d’onda della luce incidente. Costanti al punto che possiamo sempre classificarli e sapere cosa stiamo guardando.

Chiunque, infatti, è in grado di distinguere un verde da un rosso, anche in condizioni di scarsa illuminazione, o passando dalla luce solare alla luce artificiale di una lampadina, dove le lunghezze d’onda dei raggi riflessi dall’oggetto che stiamo guardando, cambiano considerevolmente.

L’occhio, sembrava quindi costruire un mondo percettivo stabile, a partire da un flusso sensoriale caotico, che cambiava in continuazione, e ciò non si poteva spiegare con una semplice corrispondenza diretta tra il segnale tristimolo dei fotorecettori e il cervello.

Doveva esserci una ulteriore fase di elaborazione intermedia.

Solo nella seconda metà del ‘900 però, si sarebbe giunti a comprendere appieno i meccanismi della percezione visiva, come vedremo nella prossima puntata.

Hasta pronto! :)

Fonti:

Il colore dei colori“, Pietro Simondo, 1990
Anatomy of the visual system
Colori e visione
Dispense prof. Battaglini
National Geographic, Edizione italiana, Novembre 2006 (contiene un articolo sulla Evo-Devo che illustra anche l’evoluzione dell’occhio)

[Colorama] e’ una rubrica a cura di @gigiopix sui colori e sulla percezione visiva.

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