25 anni di Master of puppets

Ma se un album ha venduto qualcosa come 15 milioni di copie: nonostante non sia il mio genere musicale preferito, ma avrà qualcosa di buono al suo interno, o no?

Oggi, 3 marzo 2011, l’album Master of puppets dei Metallica compie 25 anni.

Uscito per la Elektra Records il 3 marzo 1986, l’album ha venduto qualcosa come 15 milioni di copie in tutto il mondo (come citato anche nel quote da un giornalista intervistato su Radio Capital qualche giorno fa).

L’album è entrato al 167esimo posto tra i “500 migliori album” della storia della musica a cura della rivista Rolling Stone (vedi qui) e addirittura al primo posto nella classifica “Best heavy metal album of all time” a cura di MusciRadar.com e Metal Hammer UK sui risultati di oltre 6000 votanti (vedi qui).

La scaletta (per chi non la conoscesse) è composta da:

1) Battery (Hetfield, Ulrich) – 5:12
2) Master of Puppets (Hetfield, Ulrich, Burton, Hammett) – 8:35
3) The Thing That Should Not Be (Hetfield, Ulrich, Hammett) – 6:36
4) Welcome Home (Sanitarium) (Hetfield, Ulrich, Hammett) – 6:27
5) Disposable Heroes (Hetfield, Ulrich, Hammett) – 8:16
6) Leper Messiah (Hetfield, Ulrich) – 5:40
7) Orion (Hetfield, Ulrich, Burton) – 8:27
8) Damage, Inc. (Hetfield, Ulrich, Burton, Hammett) – 5:32

…per un totale di 54’41” registrato interamente nei Sweet Silence Studios di Copenaghen. (anche in questo caso per chi non lo sapesse il batterista Lars Ulrich ha origini danesi)

L’album si trascina dietro anche una vera e propria “macchia nera” nella storia dei Metallica: il 27 settembre 1986, dopo aver suonato la sera prima a Stoccolma durante il Tour europeo di lancio di Master of puppets, il pullman su cui viaggiava il gruppo si ribaltò nei pressi di Ljungby, piccola cittadina svedese e il bassista Cliff Burton perse tragicamente la vita.

Ci sarebbero altre mille-e-una cosa da dire su ciò che ha significato quest’album per il panorama musicale mondiale ma credo che sia un ottimo modo per festeggiare questo anniversario leggendo lo splendido articolo che trovare sotto approfondimento, apparso su Metal Maniac del mese di febbraio 2011 a cura del giornalista Giorgio Fontana.

[more]1. Il punto di partenza è lo stesso per tutti: la realtà non è proprio come ti aspettavi. Non sei bello. Non sei figo. E come esci dalla culla sei fottuto.

Di fronte a un mondo incomprensibile e crudele, gruppi come i Blind Guardian o i Manowar consigliavano di chiudere gli occhi. Di lasciarsi trasportare verso reami di sogno, popolati da esseri fantastici: in un luogo dove il metal diventa fiaba narrata, non più cupa ma epica.
I Metallica, invece, hanno sempre chiesto l’esatto opposto. Che tu aprissi le tue palpebre fino all’estremo. Guardati attorno. Prendi coscienza. Fa schifo? Be’, è già qualcosa che tu l’abbia capito. E che tu abbia un mezzo per difenderti: la musica.

2. Il 1986 è un anno importante. La musica hard è diventata un fenomeno di massa, preda della mentalità pop: basta pensare a Bon Jovi e ai suoi cloni. Il thrash reagisce allora come può. Estremizzandosi. Trovando uno spazio più preciso, delle geometrie tutte sue. Le radici dei sottogeneri si separano e spingono sui rispettivi acceleratori. Quello stesso anno, gli Slayer contribuiscono all’evoluzione con un altro capolavoro: Reign in Blood.

Rispetto a questo condensato di furia, Master of Puppets ha qualcosa — ma solo qualcosa — del passo indietro. Gli Slayer condensano il vangelo del thrash primordiale: violenza sonora senza compromessi, accelerazioni incontrollabili, assoli come squarci di rasoio. Ma dal punto di vista dei contenuti, Reign in Blood è schiavo della banalità più trita. Lo splatter, il satanismo di facciata, la crudeltà grottesca. Manca di spessore. Manca totalmente di un pensiero di fondo.

Master of Puppets invece propone una concezione finalmente consapevole del metal. È un disco metafisico: perché si prende sul serio, e prende sul serio l’idea che vuole trasmettere: il mondo come un immenso cimitero, governato da una legge superiore e incomprensibile. Abbiamo così uno degli album più nichilisti della storia della musica, molto più del punk radicale. Non c’è retorica anarchica, qui, e nessun ghigno sguaiato. Niente A inscritte nel cerchio. I Metallica erigono a sistema una cattiveria sobria e controllata. Le liriche ci restituiscono la realtà per come è, nuda e cruda: secondo il filtro della follia, della paura, della droga, della guerra, della religione e della violenza.

Con questo, Master sferra un attacco decisivo alla mentalità pop di cui sopra. Hetfield appiccica l’adesivo “Kill Bon Jovi” sulla sua chitarra, e in questo gesto c’è qualcosa di più di uno scherzo. Ogni idea di facile fruizione viene negata, nel nome di un’intransigenza superiore — così come sarà per il primo grunge. La ribellione e il disagio sono cose dolenti, cruciali. E come tali devono essere celebrate.

3. E le canzoni? I due precedenti episodi dei Metallica proponevano delle sonorità ancora molto grezze — Kill’em All (1983) in particolare, con le sue influenze hardcore. Ora invece comincia l’epoca dell’art metal. La coscienza dell’ascoltatore viene liberata dall’idea che il casino e il rumore siano le componenti essenziali: l’heavy viene eletto a forma d’arte autentica, dotata di ragioni compositive complesse ma allo stesso tempo capaci di conservare tutta la rabbia degli esordi. In un equilibrio raro e proprio per questo irripetibile.

La struttura delle canzoni si fa così più distesa, e le durate si allungano senza tema di annoiare l’ascoltatore, perché la tensione non cala un istante, e lo spazio lasciato alla sperimentazione è ben distribuito. Nella title track si passa dall’uragano a 220 bpm della strofa e del ritornello, a una sezione melodica centrale, dove Hetfield ricama uno degli assoli più belli della sua carriera. “Welcome Home” dipinge il sonno delle coscienze con un arpeggio semplicissimo e insieme toccante. E la strumentale “Orion”, se possibile, è la dimostrazione che il metal può toccare vertici artistici di enorme spessore.
Ma poi — be’, poi le parole si fermano. Si fermano le considerazioni, la penna che ha scritto di categorie e pensiero cade a terra, ed è il momento di riascoltare per l’ennesima volta questo disco. Così, senza pregiudizi. Semplicemente. Come tanti anni fa. Con la stessa sensazione di entrare in un tunnel barocco e spietato. Le coperte sulla testa. La manopola del volume al massimo. Il petto che si stringe, e le labbra che si aprono e chiudono seguendo ritmi innati.

4. Heavy metal è un concetto multiforme ma relativamente compatto. Appare per la prima volta fra le righe di William Burroughs, nella Morbida Macchina e poi in Nova Express, dove è metafora della droga. Applicato alla musica, fu usato forse dal grande Lester Bangs. O forse da Sandy Pearlman. Chissà: le origini sono cose sfuggenti, che arretrano di fronte a ogni determinazione.

Questo concetto ha sempre veicolato immagini di velocità, ribellione, notte, fratellanza, cuoio, anticonformismo. Ma forse il suo vero nucleo giace un’immagine più indietro. Quella di un ragazzo chiuso in una stanza, negli Stati Uniti come nella vecchia Europa, diciamo un ragazzo coi capelli lunghi, generalmente magro, sepolto dai propri dischi e da poche altre cose. Poteva essere James Hetfield. Potevi essere tu. Un ragazzo per cui la vita è ancora qualcosa di difficile e inospitale, un luogo dove il desiderio viene costantemente deluso. Dove ci si sente inadeguati, smarriti, inutili.

Il metal era l’alchimia che prometteva di trasformare tutto questo in una condizione eroica. Non diversamente dai fumetti. L’idea era che la sfiga fosse una condanna, e che di fronte a questa condanna si poteva reagire. Picchiando un piede sul distorsore. Urlando in faccia al mondo che faceva schifo. Che la ragione era da questa parte della barricata.
Forse è per questo che i classici del metal sono ancora attuali, e non rimangono come semplici testimonianze di un’epoca. Perché, come ogni figlio del rock, il metal è intriso di inquietudine e disperazione. E l’adolescenza è uno stato eterno, che si nutre di questi sentimenti, con una purezza sconosciuta ad ogni altra età. Una purezza che sfiora sempre la banalità e il trito: ma che attraverso questa merda permane limpida. Splende. Perché dolorosamente reale.

Per questo, forse, si continuano a vedere sedicenni con le magliette dei Metallica. Coi capelli lunghi e l’aria schifata. Ce ne sono sempre meno, certo. I tempi cambiano. Ma loro sono ancora lì a testimoniare che quella musica ha un senso profondo.

Lo stesso senso che coglievo io.

Perché per un ragazzo come me, che non era sensibile ai richiami del fantasy e non voleva chiudere gli occhi, i Metallica erano la soluzione. Benché non fossi un metallaro, la loro visione del mondo iperrealista, furiosa e composta allo stesso tempo, era esattamente ciò di cui avevo bisogno. E Master of Puppets ne era la forma più compiuta. Qualcosa che considerava il disagio, la rabbia, come qualcosa di tremendamente serio. E lo resta anche ora, anche dopo venticinque anni.

Pull your strings, Master[/more]

Tanti auguri ad un album che personalmente mi ha cambiato la vita.

Fonti www.giorgiofontana.com | Wikipedia | www.rollingstone.com

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