Hayao Miyazaki ha confezionato il suo film più criptico, il più metaforico. Non sarà l’ultimo – si pensa – ma intanto è sicuramente l’ultimo in ordine cronologico, il più recente. Arrivato al cinema anche in Italia il primo gennaio, ha già dimostrato quanto sia l’affetto del pubblico dello Stivale nei confronti del cineasta giapponese, un artista il cui nome viaggia a una velocità superiore rispetto ai suoi pitch. D’altronde de Il ragazzo e l’Airone non si sapeva nulla, nemmeno la trama, tantomeno Studio Ghibli ha intessuto una campagna pubblicitaria tale da permetterci di far crescere l’hype: non ce n’era bisogno, perché dopo 10 anni volevamo un nuovo film di Miyazaki e lo abbiamo avuto. Con tutti i pro e i contro, là dove i secondi sono rappresentati dalla difficoltà di interpretazione di un film che non sarà accessibile a tutti. Non lo è perché i riferimenti alla filmografia precedente sono tanti, perché c’è tanto da conoscere, soprattutto dal regista stesso, ma allo stesso abbisogniamo anche di una conoscenza trasversale non tanto dell’audiovisivo, ma dell’arte in generale, spaziando dalla pittura alla letteratura. Abbiamo provato a mettere insieme i vari pezzi ed eccoci qui, a raccontarvi tutto ciò che possiamo sviscerare de Il ragazzo e l’Airone.

L’Airone

Nella mitologia, si parla di psicopompo, una parola che nasce dal greco antico e rappresenta l’unione della persona psyche (anima) e pompos (colui che manda): si tratta, quindi, di una divinità che fa da traghettatore, così come era Caronte nell’Inferno di Dante, così come era Osiride per gli EGizi o Charun per gli Etruschi. Gli aironi in Giappone ha, nella tradizione, un significato che riconduce il loro legame agli spiriti, agli dei, nonché alla morte e al passaggio a un altro mondo. Il Kojiki, l’opera letteraria più antica del Giappone, risalente al 712, contiene una storia riguardante un principe che muore mentre è lontano dalla sua abitazione, trasformandosi in un uccello bianco: non viene fatta menzione di un airone, ma la descrizione ci riconduce proprio dinanzi a un uccello cenerino, che di per sé viene raffigurato spesso come messaggero degli dei e simbolo di trapasso.

Non mancano rappresentazioni nel folklore giapponese, soprattutto per quanto riguarda il teatro Noh, di aironi bianchi, che si differenziano da quelli di altri colori: l’aosagi, di colore azzurro, insieme al goisagi, quello notturno, hanno una presenza molto più inquietante rispetto a quello candido di colore bianco e in qualche modo, nella sua rappresentazione, Miyazaki ha voluto inseguire questa inquietudine. Figlia anche del fatto che al suo interno l’airone celi un uomo non di bell’aspetto. L’Airone diventa così simbolo di traghettatore da un mondo all’altro, che potrebbe non essere necessariamente un condottiero verso la morte, bensì da un mondo reale a uno sovrannaturale. Condurci nel contesto della morte sarebbe facile, perché all’età di 83 anni Miyazaki potrebbe essere afflitto da pensieri sulla fine della propria vita, ma potrebbe essere troppo semplicistica come lettura, mentre risulta più affascinante la chiave legata al fatto che il prozio di Mahito dica all’Airone di dovergli fare da guida nel suo viaggio.

Mahito – il Prozio – Miyazaki

La figura di Hayao Miyazaki può essere ritrovata in almeno due personaggi contestualmente. È facile accostarlo a Mahito Maki, il protagonista, per una serie di elementi che vanno a ricalcare la vita stessa del regista. Miyazaki era figlio di un ingegnere aeronautico, proprietario insieme al fratello della Miyazaki Airplane, azienda specializzata nella produzione di timoni per i caccia Mitsubishi A6M e che permise all’intera famiglia di vivere in condizioni agiate tanto durante la guerra che successivamente. Gli aerei erano già stati centrali nella trama di Si alza il vento, ma tornano qui con una presenza meno ingombrante: si capisce che Shoichi Maki, il padre del protagonista, lavora in una fabbrica che segue le vicende aeronautiche e che non vuole che la produzione si interrompa durante la guerra: la loro condizione, sicuramente agiata, ha permesso alla famiglia di evadere da Tokyo durante la Seconda guerra mondiale e di rifugiarsi in una magione in campagna, con tanto di servitù al seguito. Un altro elemento che ha caratterizzato la vita di Miyazaki è legato al fatto che della sua infanzia ricorda in modo molto aspro i bombardamenti durante la guerra: nel 1944 la sua famiglia fu costretta a evacuare prima a Utsunomiya e poi a Kanuma, per provare a trovare serenità durante il periodo bellico. In ultima istanza, la madre di Hayao – Yoshiko – soffrì dal 1947 al 1955 di tubercolosi spinale, malattia che la costrinse a letto prima in ospedale e poi a casa, immaginiamo costretta in un ambiente controllato, al quale non era possibile accedere. Un’analogia a quanto accade a Natsuko, la zia di Mahito, e al tabù della sala parto all’interno della torre.

Molto più ostico, invece, il parallelismo con il Prozio: l’uomo si ritrova ad aver creato un ambiente ipoteticamente sano, costruito di 13 elementi (i film di Miyazaki sono 12, compreso questo, quindi la simbologia potrebbe avvicinarsi, ma non sovrapporsi), all’interno dei quali non ci sono guerre, non ci sono malattie e non ci sono preoccupazioni, se non un normale corso degli eventi. Toshio Suzuki, produttore del film, ha parlato di un legame che spinge il Prozio verso la figura di Isao Takahata, co-fondatore di Studio Ghibli insieme a Miyazaki e regista col quale il sodalizio fu fondamentale per l’artista giapponese, scoperto proprio da Takahata. Nel film, l’uomo è in cerca di un erede e il bivio ci pone dinanzi a una doppia scelta: se l’erede è stato individuato in Mahito, al quale viene chiesto di adoperarsi per mettere in ordine il mondo, allora potrebbe trattarsi di un passaggio di testimone da un regista all’altro; nel caso in cui, invece, volessimo interpretare il tutto come un tentativo disperato, adesso, di Miyazaki di affidare a qualcuno la sua arte dovremmo rivedere la posizione di Mahito, che non potrebbe più essere qualcuno a cui lo Studio Ghibli andrà. D’altronde lo stesso figlio di Miyazaki non è stato, a oggi, in grado di raccogliere l’eredità del padre. In tutto questo, inoltre, il Re dei parrocchetti arriva per distruggere l’intero mondo costruito, come una figura esterna ed estranea a tutto, ma intenzionato solo a salvaguardare la natura dei propri simili e dei propri seguaci.

In alternativa, essendo il film dedicato al nipote di Miyazaki, Mahito potrebbe essere proprio questi, mentre il prozio tornerebbe a essere il regista. Insomma, una metafora che può avere numerose letture, andandosi a incollare in quella che più riteniamo opportuno per il nostro gusto personale: d’altronde non esiste mai una lettura univoca di ciò che vediamo e che ammiriamo.

L’inferno di Dante

Il terzo canto dell’Inferno della Commedia di Dante Alighieri inizia così: “Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina podestate, la somma sapienza e ‘l primo amore”. Quando Mahito decide di seguire il richiamo dell’Airone ed entrare nella torre vede dinanzi a sé un’iscrizione che recita “fecemi la divina podestate”. Podestate, sapienza e amore sono gli attribuiti della Trinità, con la potenza che è attribuita a Dio, la sapienza al Figlio e l’amore è lo Spirito Santo. Con questa iscrizione Miyazaki vuole dare il benvenuto al protagonista del film in quello che potrebbe essere un inferno dantesco, un insieme di gironi che contengono al loro interno diverse tipologie di persone e di condannati, tutti lì collocati per volere della potenza divina. Allo stesso tempo potrebbe essere un riferimento a sé stesso, come se la sua arte non sia altro che una volontà di Dio stesso: d’altronde Miyazaki è un laureato in scienze politiche che si è avvicinato al manga e all’animazione soltanto in un secondo momento della propria vita, forse proprio dopo una folgorazione divina. Mahito, nel mentre, affronta un percorso che equivale all’attraversamento di una terra oscura, all’interno della quale ha una guida – Virgilio/Airone – e incrocia un mondo all’interno del quale scopre tutti aspetti nuovi, oltre a incontrare persone che aveva già conosciuto sotto un’altra veste nel mondo di sopra.

La simbologia dei quadri

Sono due i quadri che vengono subito in mente durante la visione de Il ragazzo e l’airone. Il primo è legato a Il castello dei Pirenei, un olio su tela di René Magritte del 1959, che traeva ispirazione dall’isola di Laputa apparsa ne I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift. Un riferimento molto caro a Miyazaki, che nel 1986 ha realizzato uno dei suoi film proprio con riferimento all’isola e usando la medesima rappresentazione grafica appartenuta a Magritte. Un secondo quadro è l’isola dei morti di Arnold Bocklin, che tra il 1880 e il 1886 realizzò cinque diverse versioni della medesima immagine, pregna di simbolismo. Il quadro stesso ha, all’interno del proprio specchio d’acqua, una piccola imbarcazione che si avvicina all’isola dei morti, condotta da un conducente, un psicopompo, chiaramente ispirato da Caronte e – in questo caso – dall’Airone di Miyazaki. A prua della nave c’è una misteriosa figura vestita di bianco, che potrebbe essere un’anima o semplicemente una persona simbolicamente pura, candida: un sincero, che è il significato del nome di Mahito. C’è tanta simbologia che ricollega la narrazione alla morte, all’essere traghettato verso un nuovo mondo, ancora una volta a ribadire quella che potrebbe essere la concezione di uno Miyazaki afflitto dall’età che avanza e dal voler andare a godersi una meritata pensione.

E quello spirito della tomba, che non si fa vedere, ma che non dev’essere svegliato, quella porta stessa che viene sfondata dai pellicani, cela qualcosa che non ci è dato sapere e che non possiamo andare a scoprire. Sappiamo solo che dobbiamo essere lontani nel momento in cui si sveglierà e deciderà di farsi vedere e notare. D’altronde non ci è concesso sapere cosa si cela nella morte.

E voi come vivrete?

Chiudiamo con l’inevitabile considerazione finale dedicata al romanzo E voi come vivrete? Si tratta di un’opera del 1937 alla quale Il ragazzo e l’Airone avrebbe dovuto ispirarsi. Scritto da Genzaburo Yoshino, segue la storia di un ragazzo di 15 anni, Junichi Honda, conosciuto come Coper, reduce dal dover affrontare la morte di suo padre e il conseguente trasferimento a casa dello zio, per volontà della madre. Si tratta di un romanzo di formazione, che Miyazaki ha usato come punto di partenza, ma che per lo stesso regista rappresenta un elemento fondamentale per la propria formazione. Mahito, tra l’altro, ha con sé una copia del libro, che tra l’altro gli lascia proprio la madre defunta all’inizio del film stesso: quella che ha con sé, però, è una versione diversa da quella commercializzata nel ’37 e che in Italia è stata stampata per la prima volta pochi anni fa. Il romanzo terminava con una domanda da parte dell’autore che interrogava il lettore su come avrebbe deciso di affrontare la propria vita da quel momento in poi, in funzione di quanto appreso durante l’esperienza di vita presso lo zio: lo stesso film di Miyazaki potrebbe nascondere un medesimo messaggio, dopo il viaggio all’interno della torre, alla scoperta di quel mondo che potrebbe identificarsi come una selva oscura da esplorare e da visitare con più attenzione per il futuro. D’altronde Mahito, a differenza della madre di ritorno dal viaggio, non ha dimenticato ciò che ha vissuto e potrà trarne tesoro per il suo futuro.