A partire dal 2035 l’industria automotive non potrà più vendere automobili a motore endotermico in Unione Europea. Per la precisione, il pacchetto Fit 55 impone l’obbligo di vendere esclusivamente auto ad emissioni zero. Un divieto che vale per le nuove immatricolazioni, mentre nulla si dice (per ora) sullo stop alla circolazione delle auto a benzina e diesel già immatricolate.

Di fatto il Green Deal europeo segna la morte dei motori a combustione interna, spianando la strada ad un’unica soluzione: le auto elettriche. Banalmente perché alternative valide non se ne vedono all’orizzonte (non entro il 2035, quantomeno) e i produttori hanno destinato il grosso dei loro investimenti allo sviluppo di soluzioni elettriche.

Gli EV occupano ancora una posizione relativamente (ma sempre meno) marginale all’interno del mercato automotive, e anche le proposte completamente elettriche continuano ad essere una voce timida all’interno delle line-up dei produttori. Nonostante lo scenario sia in rapidissima evoluzione, anche trai dirigenti dell’automotive c’è chi ha iniziato a chiedersi apertamente e pubblicamente se l’Unione Europea abbia fatto il proverbiale passo più lungo della gamba. Solamente lo scorso ottobre Carlos Tavares ha, ad esempio, contestato l’idea che entro il 2035 le auto elettriche raggiungeranno la parità di prezzo con quelle a motore endotermico. Il rischio – spiega il N.1 di Stellantis – è che si tagli fuori la maggioranza della popolazione dalla possibilità di acquistare un’auto nuova. «Il divieto potrebbe avere conseguenze sociali impossibili da governare, se neghi alla classe media la libertà di movimento andrai incontro a problemi di natura sociale di estrema gravità».

A fargli compagnia c’è soltanto Akio Toyoda, che in passato aveva fatto proclami di tenore ancora più allarmistico, suggerendo che la transizione all’elettrico rischierebbe di bruciare milioni di posti di lavoro solamente in Giappone. Due voci isolate, schiacciate dal consenso pressoché unanime di tutti gli altri produttori. A partire da Volkswagen, che forse più di tutti è sulla buona strada per vincere la fetta più grande del market share del futuro mercato ‘EV only‘ (e che dunque ha tutti i motivi del mondo per schierarsi dalla parte della politica europea).

 

I sostenitori della “neutralità tecnologica”

A scanso di equivoci, nessuno mette in discussione l’urgenza di un cambiamento che porti l’Europa (come il resto del mondo) a ridurre al numero più vicino allo zero possibile le emissioni di CO2. Ne va della sopravvivenza dell’umanità. Nessuno (quantomeno di ragionevole) dubita nemmeno delle potenzialità dell’elettrico, che ha ormai dimostrato profonda e completa maturità sotto molteplici aspetti.

Piuttosto, c’è chi si interroga se una cesura netta come quella decisa dall’UE sia una buona idea. In rapporto ai tempi dilatati dello sviluppo tecnologico e delle trasformazioni nel campo dell’automotive, il 2035 è dietro l’angolo. Possibile che non si possa immaginare una deadline più in là nel tempo? Con obiettivi graduali e sempre più ambiziosi resi possibili dal supporto alle tecnologie ibride e a motori endotermici e carburanti di nuova generazione?

E siamo sicurissimi che puntare tutto su una sola tecnologia non esponga l’Europa a gravissime vulnerabilità (quali lo diremo tra poco)?

Fatta salva l’esigenza imperativa di ridurre le emissioni, con sempre meno timidezza sono nati diversi appelli alla «neutralità tecnologica», un approccio più flessibile e meno dogmatico alle sfide della mobilità sostenibile. La sintesi di questa corrente di pensiero può essere così descritta: va benissimo l’elettrico, purché in un paniere di altre tecnologie e soluzioni che, in concerto, possano portarci all’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050.

La sintesi di questa corrente di pensiero può essere così descritta: va benissimo l’elettrico, purché in un paniere di altre tecnologie e soluzioni che, in concerto, possano portarci all’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050.

Il rischio – spiegano i sostenitori di questo approccio – è che ci si innamori di uno strumento, finendo per dimenticarsi del vero obiettivo: portare a zero le emissioni di CO2. In altre parole, si chiedono sempre più voci eterodosse, qual è l’ambizione? Sostituire i motori endotermici con la propulsione elettrica per il gusto di farlo, oppure ridurre l’inquinamento? E se è vero che è proprio quest’ultimo lo scopo che ci siamo dati, perché si è deciso aprioristicamente di ignorare altre possibili soluzioni?

Da qui parte dunque il coro di sempre più voci nelle istituzioni, nell’automotive e anche nel mondo del giornalismo. Di questa idea è ad esempio il vicedirettore di Radio 24 Sebastiano Barisoni, che durante la sua trasmissione Focus Economia punzecchia frequentemente gli intervistati del settore, invitando gli ascoltatori ad un approccio scettico nei confronti della narrazione che ha individuato nell’elettrico la prossima rivoluzione della mobilità (e per questo si è meritato una lettera aperta dai toni critici firmata dal blog vaielettrico.it).

Federico Milo, docente del Politecnico di Torino, contesta addirittura l’idea che le auto elettriche porteranno ad un azzeramento delle emissioni. «Al contrario! – ha spiegato a ForbesPotrebbero aumentare le emissioni di CO2 se prendiamo in considerazione l’intero ciclo di produzione delle auto e delle batterie». E continua: «Il divieto ai motori endotermici è una follia, non contribuisce alla riduzione del gas serra e avrà un impatto drammatico sull’economia dell’UE».

Rimaniamo sempre in Italia, dove recentemente il N.2 di Confindustria Brescia, Maro Gnutti, si è chiesto – in un’intervista rilasciata al Corriere – se il recente scandalo di corruzione del Qatargate non ci debba far guardare con occhi diversi un approccio tanto ideologico e irremovibile quanto quello dell’UE nei confronti dell’elettrico. «Non vorrei – ha detto – che l’accanimento ideologico dimostrato da Bruxelles nei confronti del motore elettrico sia figlio di un disegno ben preciso, cioè di pressioni da parte di nazioni che hanno interesse di approfittare dei ritardi e delle debolezze del comparto automotive italiano». Siamo nel campo delle dietrologie, quindi lasciamo perdere volentieri. Ci interessa di più un altro punto dell’intervista: «In Italia, per raggiungere l’obiettivo di 8 milioni di auto elettriche in circolazione, occorrerebbe un piano di incentivazione da 30 miliardi, praticamente una finanziaria, la vedo difficile». Insomma, anche per Gnutti il prezzo della transizione elettrica sarà proibitivo per le classi meno abbienti.

E ancora: «L’Italia è per la neutralità tecnologica, bisogna coniugare l’obiettivo ambientale con le necessità produttive, economiche, e anche sociali». Questa volta la voce è quella di Gilberto Pichetto, Ministro all’ambiente del Governo Meloni, anche lui convinto che le auto elettriche debbano essere affiancate da biocarburanti e altre tecnologie in fase di sviluppo.

Perché l’all in sull’elettrico spaventa così tante persone?

Come abbiamo visto, il grosso delle perplessità si concentrano sul rischio che la rivoluzione elettrica possa lasciare fuori una grande fetta di consumatori. Oggi i veicoli elettrici continuano a venire proposti a prezzi significativamente più impegnativi delle loro controparti a motore endotermico e questo dipende in larga parte dai costi delle batterie (per almeno il 40%, secondo una stima di Volkswagen).

E se il costo delle batterie smettesse di scendere?

Per il momento l’industria si è trincerata dietro ad una vaga promessa di un progressivo crollo dei prezzi man mano che la ricerca farà progressi e che le case automobilistiche riusciranno a trovare un nuovo equilibrio nei loro processi di economia di scala (grazie all’aumento dei volumi di produzione). Ed effettivamente il trend è questo: il costo di produzione delle batterie è sceso negli anni in maniera piuttosto costante. Ma se così non fosse? Se il prezzo non scendesse con i ritmi che fino a pochi anni fa davamo per scontati? Ad esempio nel 2021 – rilevava Bloomberg – era stato registrato un calo del prezzo medio per kWh del 6%, quando però gli analisti si aspettavano un crollo del 9% base annua. L’obiettivo è stato mancato di tre punti portando l’edizione italiana di InsideEVs a pubblicare un articolo dal titolo provocatorio “E se il costo delle batterie smettesse di scendere?“. Il 2022, per via dell’aumento generale dei prezzi delle materie prime, non è andato tanto meglio.

Sempre Bloomberg ci rassicura spiegandoci che le previsioni sul medio-lungo periodo rimangono invariate: entro il 2030, sostengono gli esperti, assisteremo ad un dimezzamento del costo medio per kWh. Ma facendo gli avvocati del diavolo, insistiamo: e se così non fosse? Via di incentivi e sussidi pagati dal contribuente, ovviamente. I 30 miliardi di euro (di minimo) ipotizzati poco sopra da Gnutti. Praticamente un nuovo piano Marshall per consentire anche ai ceti meno abbienti di passare alle auto ad emissioni zero. E questo lo diciamo con ottimismo, esiste pur sempre il rischio che lo Stato ignori la questione o non possa permettersi (per limiti di bilancio) un intervento ambizioso e radicale come quello che servirebbe, escludendo milioni di persone dal privilegio di avere un’auto di proprietà (lo scenario iper-pessimistico delineato da Tavares).

Sempre la questione delle batterie solleva un tema ancora più impegnativo e ancora più allarmante. Sono tre le filiere chiave associate alla produzione delle batterie: semiconduttori, batterie (appunto) e minerali critici, senza i quali non si possono produrre nessuno dei primi due. L’Europa non ha la leadership in nessuna delle tre filiere. Chi ce l’ha? A questa domanda risponde un focus dell’ISPI firmato da Davide Tentori:

La ina occupa una posizione strategica nella parte più a monte dell’intera filiera dell’auto elettrica, controllando quasi totalmente il settore dei minerali critici: Pechino, infatti, ha in mano il 55% delle miniere e dei giacimenti mondiali e l’85% della capacità di raffinazione di queste risorse. Ma non solo: la quota di mercato globale relativa alla produzione di batterie detenuta dalla Cina equivale al 35%.

Il rischio diventa dunque quello di consegnarci nelle fauci di Pechino, abbandonando una dipendenza con tutti i suoi limiti (ma alla quale siamo ben abituati e in cui in un certo senso ci troviamo a nostro agio) per sostituirla con un’altra ben più insidiosa e pregna di incognite. Tentori continua così:

Ecco perché la Repubblica popolare potrebbe esercitare una forte influenza geopolitica rispetto agli altri due grandi poli produttori, Stati Uniti ed Europa, che si trovano inevitabilmente a dover rincorrere Pechino, in grado di controllare sia il lato dell’offerta ma anche della domanda di auto elettriche: è infatti il più grande mercato in termini di veicoli acquistati

Aggiungiamo una terza questione. Siamo davvero pronti all’elettrificazione dei consumi e dei trasporti? Chi più e chi meno. L’Italia appartiene al club dei meno e la guerra in Ucraina ce lo ha dimostrato con estrema violenza. L’assenza di una sovranità energetica e la dipendenza dai gas naturali per la produzione di energia hanno portato ad un innalzamento del costo delle bollette che ha colpito in pieno i proprietari di auto elettriche (ve ne abbiamo parlato qui). Non sappiamo nemmeno con precisione cosa succederà quando oltre 22 milioni di veicoli verranno collegati simultaneamente alla rete elettrica, e c’è poi la questione del freddo invernale, che ha un impatto notevole sulle performance degli EV, riducendone l’autonomia e dilatando i tempi di ricarica.

Ma abbiamo alternative?

La supplica di prendere in considerazione una pluralità di altre tecnologie per vincere le sfide della mobilità sostenibile nasce da qui. Ma se non (solo) alle auto elettriche, allora a quali altre tecnologie dovremmo affidarci?

Senza ironia: bella domanda. Il braccio di ferro tra oltranzisti dell’elettrico e sostenitori della cosiddetta neutralità tecnologica parte da qui. Con tutti i loro limiti, i veicoli elettrici sono già tra noi e la tecnologia è sufficientemente matura da renderla pronta per la produzione di massa. Lo stesso non si può dire per tutto quel paniere di alternative caldeggiate dai critici dell’approccio all-in sull’elettrico.

ENI è leader mondiale nella ricerca e sviluppo nel campo dei biocarburanti (cioè carburanti prodotti dagli scarti dei rifiuti organici): nel 2018 a Gela è sorta una bioraffineria sperimentale che produce un bio olio che può essere destinato al trasporto marittimo; il processo di produzione consente di recuperare il 60% di acqua che, depurata, può poi essere reintrodotta nei cicli produttivi. Il carburante viene ricavato dai rifiuti comuni, oltre che dagli scarti organici dell’industria agroalimentare e della grande distribuzione. Nel 2022 a Porto Marghera, in Comune di Venezia, è nata un’altra bioraffineria con le medesime ambizioni. ENI chiama questo processo Waste to Fuel.

Solamente pochi giorni fa, Porsche ha annunciato di aver rifornito per la prima volta un veicolo (una 911 d’epoca) con il suo carburante sintetico (o eFuel) proprietario, frutto di due anni di ricerca e sviluppo e un investimento di diversi milioni di euro. Il carburante sintetico di Porsche, ad emissioni zero, è il prodotto di un complesso processo che, semplificando, richiede la scissione dell’acqua in idrogeno e ossigeno. Un processo che impiega moltissima energia ed ha attualmente dei costi elevati. Porsche spera di riuscire a produrre 55 milioni di litri di eFuel all’anno entro il 2025 ed anche raggiungendo questi volumi di produzione un litro di carburante dovrebbe comunque costare in media 2 dollari, cioè molto di più dei carburanti tradizionali. Le ambizioni di Porsche si scontrano con lo scoglio delle normative europee e di alcuni stati americani, che non prevedono esenzioni per gli eFuel, considerati alla stregua dei carburanti ad alte emissioni.

Ci sono poi le pile a combustibile (fuel cell), cioè le cosiddette auto ad idrogeno. Alcune soluzioni sperimentali sono già su strada. Rimaniamo a Venezia, dove il Comune ha acquistato 82 autobus ad idrogeno per il servizio di trasporto su terra ferma. A pochi passi dal Parco di San Giuliano, Eni ha aperto distributore di carburanti anche per l’idrogeno, uno dei più grandi in Europa.

Alcuni sostenitori della neutralità tecnologica, ad ogni modo, sostengono che anche i motori diesel di nuova generazione e le auto ibride possano contribuire a giocare un ruolo prezioso nella corsa per abbassare le emissioni di CO2, fornendo un valido aiuto fintanto che la politica e l’industria non saranno in grado di smussare le criticità dell’elettrico. Il problema è che la deadline fissata per il 2035 di fatto esclude che ci possano essere ibride e diesel di prossima generazione: nessuno ci sta investendo più nulla. Del resto, non avrebbe senso contando che entrambe queste soluzioni verranno messe fuori legge tra appena 12 anni. Riprendendo il gergo da casinò: les jeux sont faits, la politica ha scelto già il vincitore. Speriamo che abbia fatto bene i suoi conti.