Dopo Walt Disney le reinterpretazioni di Pinocchio sono state diverse in ambito di animazione. Nessuna ha saputo raggiungere la qualità di Burbank negli anni, provando sempre strade più complesse e in qualche modo fedeli all’opera di Collodi.
Avete mai provato a chiedere a un americano o a un giapponese chi è l’autore della storia di Pinocchio? La maggior parte di essi vi risponderà “Walt Disney”. Perché con il suo secondo Classico, distribuito al cinema nel 1940, pochi mesi prima dell’uscita di Fantasia, il cineasta di Chicago aveva riscritto una storia che fino a quel momento conoscevamo molto bene in Italia e in Europa, ma che nel Nuovo Continente era arrivata solo grazie a uno spettacolo teatrale del 1937, a Los Angeles. L’intuizione che ebbe Walt quando decise di acquistarne i diritti gli permise di impossessarsi di una proprietà intellettuale unica, che dopo ottant’anni ci permette di ricollegare a quell’immaginario tirolese voluto da Disney l’intera storia di Pinocchio.
Essere italiani ci ha permesso di godere a pieno di quanto realizzato e scritto da Carlo Collodi e persino chi non è avvezzo al recupero di romanzi datati ha saputo approcciare l’epopea picaresca grazie ai numerosi film che sono stati realizzati negli anni per raccontare la storia di Pinocchio. Anche l’animazione, in questo ambito, si è attivata per far sì che la marionetta prendesse vita in numerose altre forme e non solo in Italia, dove a muoversi per primo fu Giuliano Cenci, il Disney italiano, ma anche in Giappone, dove gli esperimenti furono diversi.
L’ordine fascista di contrastare Disney
Ancor prima di Disney fu proprio l’Italia a muoversi per poter raccontare con un film d’animazione la storia di Pinocchio: si tratta di una vicenda molto singolare, della quale il cineasta americano era a conoscenza, perché nel 1936 Umberto Spano e Raoul Verdini si mossero per far sì che Collodi venisse riprodotto al cinema. Il lavoro, che aveva il nome de Le avventure di Pinocchio, non venne mai completato sia per assenza di fondi che per evidenti difficoltà produttive dovute alle condizioni non del tutto chiare legate alla CAIR, la Cartoni Animati Italiani Roma.
Alfredo Rocco, politico noto alla giurisprudenza per aver messo il proprio nome sul Codice di procedura penale, nonché al Codice penale tuttora in vigore in Italia.
La curiosità circa questo tentativo era che l’idea di dover contrastare lo strapotere di Disney era partita da Alfredo Rocco, politico noto alla giurisprudenza per aver messo il proprio nome sul Codice di procedura penale, nonché al Codice penale tuttora in vigore in Italia. La CAIR ebbe vita breve e cessò la propria attività nell’arco di un anno, una volta terminati i finanziamenti, impedendo a Verdini di portare a termine il proprio lavoro.
Quattro anni dopo toccò a Ben Sharpsteen e Hamilton Luske realizzare il secondo Classico di Walt Disney, ma questa è storia nota. Meno nota è l’opera di Ivan Ivanov-Vano, che nel 1959, dieci anni prima che l’Italia si muovesse nuovamente nella direzione di Verdini, fece il proprio Pinocchio sovietico. Diversamente, però, dalle altre versioni, questa di Ivanov-Vano prendeva spunto dal romanzo di Tolstoj intitolato La piccola chiave d’oro, pubblicato nel 1936. La storia del romanziere russo era molto simile a quella di Collodi, almeno fino all’incontro con Mangiafuoco.
Stampa Alternativa pubblicò questa versione del romanzo nel 1984 col titolo Il compagno Pinocchio, facendo arrivare in Italia una storia pregna di magia e di esoterismo, oltre ad avere un risvolto incentrato sul lavoro e sull’imprenditoria che portava Burattino – il protagonista – a mettere in scena spettacoli di marionette con l’obiettivo di vendicarsi del trattamento subito da Carabas (Mangiafuoco). L’opera di Tolstoj in Russia è, negli anni, diventata un pilastro della cultura popolare, scavalcando di gran lunga quella di Collodi, così come il cartone animato di Ivanov-Vano ha saputo farsi strada come principale reinterpretazione della storia di Pinocchio in Russia.
Giuliano Cenci, il Disney italiano
Poi, finalmente, arriviamo all’opera più coraggiosa e intraprendente, quella messa in piedi da Giuliano Cenci, per molti ritenuto il Walt Disney italiano. Siamo nel 1971, a cantare la meravigliosa canzone che fa da tappeto musicale ai titoli di testa c’è il camaleontico Renato Rascel, e alla storia contribuirono Mario e Antonio Lorenzini, nipoti di Collodi che intervennero per far sì che Cenci potesse rispettare, da toscano a toscano, lo spirito dell’opera originale. Il regista italiano, che si occupò anche della sceneggiatura e del montaggio, intitolò la sua opera Un burattino di nome Pinocchio, realizzando il cartone animato in full animation a passo due, proprio come aveva fatto Disney.
Servirono 500.000 disegni per dare vita al film, tra disegni su carta e una verticale cinematografica che Guido Cenci, padre di Giuliano, ricreò per l’occasione dopo quella che aveva usato per il Carosello. Per ispirazione, dall’opera di Disney venne utilizzato anche il rotoscopio, creazione appartenente a Max Fleischer. L’intera operazione costò a Cenci 470 milioni di lire dell’epoca e sette anni dopo il film arrivò anche negli Stati Uniti.
L’insuccesso dell’opera fu legato a una terribile vicenda di distribuzione che colpì Cenci, impossibilitato a distribuire il proprio film in Spagna, in Brasile e persino in Lombardia, rendendogli infattibile una proiezione nazionale, ma solo regionale, che lo relegò a un flop mostruoso, nonostante il capolavoro messo in piedi per l’epoca.
Cenci fu impossibilitato a distribuire il proprio film in Spagna, in Brasile e persino in Lombardia, rendendogli infattibile una proiezione nazionale, ma solo regionale
Nel 1987 Hal Sutherland realizzò un sequel di Pinocchio, per rispondere alla domanda su che cosa sarebbe accaduto al burattino dopo l’essere diventato un bambino vero: un anno dopo, quindi, la storia di Geppetto e della Fata Turchina, insieme al Grillo Parlante, continua, in una vicenda non memorabile, ma passata alla storia col nome de I sogni di Pinocchio, oltre a una importantissima causa con la Disney, vinta dalla Filmation.
È nel 2004, però, che arriva il primo film in CGI su Pinocchio con Pinocchio 3000, realizzato in Francia da Daniel Robichaud per racontare la città di Scamboville. Un film non memorabile, della durata di appena un’ora, con l’obiettivo di andare a raccontare le vicende del burattino di legno in una chiave robotica, con Geppetto nei panni di un inventore, abitante di una Casa interamente automatizzata.
Dal Giappone la reinterpretazione episodica
Nel frattempo, però, anche il Giappone, come avevamo detto in apertura, stava scoprendo il fascino di Pinocchio, per lo più con le serie televisive animate. Nel 1972, mentre in Italia Luigi Comencini raccontava il suo burattino in sei puntate, con lo sceneggiato andato in onda sulla Rai, la Tatsunoko Production realizzava Kashi no Ki Mokku, Le nuove avventure di Pinocchio: una versione molto più drammatica dell’opera di Collodi e del suo burattino, che è in questa versione è in grado di comprendere anche il linguaggio degli animali. Il Pinocchio di Hiroshi Saito e di Shigeo Koshi, invece, rappresenta sicuramente l’esperimento giapponese più noto e più riuscito.
La sigla italiana, in questo caso, era stata cantata da una giovanissima Cristina D’Avena, alla sua prima sigla mentre era ancora una studentessa liceale a Bologna. La Nippon Animation realizzò un’opera molto più allegra, gioviale, soprattutto nei colori, come già la sigla faceva immaginare e ipotizzare: sebbene la storia fosse quella di Collodi, la voglia di introdurre degli elementi più pittoreschi, come ad esempio la gatta Giulietta e il picchio Rocco, resero l’intera storia molto più divertente e adatta per un pubblico giovane. Lo stesso burattino era molto più espressivo, con un berretto rosso e un naso molto meno accentuato, cercando di lavorare in funzione di quanto fatto da Disney anche nel 1940, ossia creare un personaggio gradevole al pubblico.
La Nippon Animation realizzò un’opera molto più allegra, gioviale, soprattutto nei colori, come già la sigla faceva immaginare e ipotizzare
Arriviamo così ai tempi molto più recenti del Pinocchio di Enzo D’Alò del 2012 e anche al Bentornato Pinocchio di Orlando Corradi del 2007, una riproposizione di un sequel sulla falsa riga di quanto fatto da nel 1987 dalla Filmation con I sogni di Pinocchio. La Russia, infine, ci ha riprovato lo scorso anno con Pinocchio: A True Story, in cui il burattino è un abile acrobata che si accompagna al suo cavallo Tebaldo: una rivisitazione cavalleresca che porta Pinocchio a voler salvare Bella per diventare un umano. Tanta magia, come d’altronde accaduto già nella versione di Ivanov-Vano, per una storia che dopo cent’anni non ha smesso di ispirare ed emozionare, come ha dimostrato Guillermo Del Toro.