Vorrei aprire la recensione della prima parte della sesta stagione di Better Call Saul (probabilmente la miglior serie Netflix degli ultimi anni) con una scena in particolare.
Siamo nel bagno della casa più inaccessibile di Albuquerque, talmente intrisa da quel senso di controllo maniacale che è in primis del suo proprietario, da essere non solo protetta 24 ore su 24 da guardie armate, ma anche costantemente osservata da una casa adiacente, sede di un di sistema di videosorveglianza degno della CIA, con tanto di coppia da pubblicità come specchietto per le allodole come inquilini e tunnel sotterraneo iperblindato come via di fuga alternativa. Ecco, nel bagno di quella casa, centro esistenziale di pianificazione, pulizia e geometrico esistenzialismo, colui che ha tutto sotto controllo non può fare a meno di cedere alla propria ansia, conscio che qualcosa potrebbe arrivare a minacciarlo persino nel suo tempio di vita calcolata. Una miccia di ribellione che porterà infine ad una trasformazione della situazione vigente.
Niente più e niente di meno di ciò che capita a chi è partecipe di un “gioco di attesa“, come puntualmente ricorda all’uomo che tutto controlla il suo fido braccio destro.
Questa è la formula di serialità che fece le fortune di Breakig Bad e che Vince Gilligan e Peter Gould hanno riproposto nella loro ultima creatura: una logorante partita a scacchi al cardiopalma tra la terribile e inaspettata fluidità della vita e il tentativo di indirizzarla secondo la propria volontà. Una cornice che non fa altro che riproporsi in tutte le relazioni tra i personaggi, ampliando sempre di più uno straordinariamente assemblato mosaico di tensivo gioco delle parti.
Come una serie di gabbie d’orate di splendido rigore rappresentativo, pronte ad essere disintegrate da un improvviso e spietato evento catartico, liberatorio e ineluttabile.
Ormai sempre più vicino.
I primi 7 episodi dell’ultima stagione di Better Call Saul sono disponibili sullo streamer di rosso vestito, le ultime 6 arrivano l’11 luglio.
L’importanza della dualità
Il cuore di Better Call Saul sta nella sua narrazione lenta, metodica e imprevedibile, intrisa di una maestria tensiva degna dei maestri del thriller e forte di una messa in scena simmetrica, potente ed elegante. Il suo intero meccanismo emotivo e drammaturgico funziona sempre con lo sviluppo di una coppia, ognuna presa come un nucleo avente un suo arco a se stante e che solo negli snodi fondamentali della trama di fondo si va ad intrecciare con quelli degli altri.
Certo, la serie prevede anche un fine ping pong temporale che si aggancia alla sua natura di opera ibrida: prequel e spin-off, ma anche di fatto sequel, di una storia precedente che ha calamitato le attenzioni della maggior parte degli spettatori al momento della sua nascita. Un’idea che si inserisce perfettamente nella struttura di cui sopra e che non solo permette, ma addirittura amplifica, lo spazio riservato a ciò che è il traino reale dello sceneggiato: lo sviluppo dei suoi personaggi.
Sempre a due a due, ovviamente, chi rimane senza partner è perduto.
Lo testimoniano soprattutto (e giustamente, direi) Kim (Rhea Seehorn) e Jim/Saul (Bob Odenkirk), riunitisi dopo lo spavento dovuto all’affaire Lalo Salamanca (Tony Dalton) e ora intenti a riprendere la loro vendetta da dove l’avevano lasciata. Nessuno come loro nella serie è stato fautore del destino dell’altro, giocando sempre più su un terreno scivoloso.
Lo testimoniano Michael (Jonathan Banks) e Nacho (Michael Mando), riproposizione di un opportuno (per entrambi) rapporto padre/figlio che ha permesso loro di allontanarsi dalle rispettive schiavitù e ricollocarsi all’interno della propria vita.
Lo testimoniano Gustavo Fring (Giancarlo Esposito) ed Hector Salamanca (Mark Margolis), i due estremi lungo il quale la scacchiera è disposta, opposti sotto tutti i punti di vista, ma animati dalla stessa volontà di controllo.
Lo testimoniano, di fatto, i trascorsi tutte queste coppie, arrivate ad incontrarsi al termine di un processo di selezione che li ha visti scambiarsi compagni più e più volte in un continuo scambio di interdipendenze che, illudendoli di poterli far vincere l’uno sull’altro, li ha portati a cambiare nel loro complesso senza che neanche se rendessero conto.
Lo confessa, per la prima volta, persino la serie, non solo per la riproposizione visiva di continui duelli, ma anche con i titoli delle varie puntate (fateci caso).
Era ora, no?
E poi, in fin dei conti, due sono anche le menti che l’hanno ideata.
L’ultima svolta
Il flashforward stavolta è a colori e sembra uscito da un mafia movie, la trasformazione di Jimmy ormai è completa e siamo solo in attesa di ciò che lo porterà a divenire il Saul Goodman che ha sopperito all’assenza della sua partner con un progressivo lasciarsi andare ad ogni tipo di eccessi, ben lontani dall’impegno morale che ha comunque contraddistinto i suoi ideali di vita.
Due indizi in quella casa per noi irriconoscibile: La macchina del tempo di H. G. Weels e il tappo di Zafiro Añejo, souvenir di una serata dei furono Jimmy e Kim.
Tanto basta, si torna indietro.
Lalo è sopravvissuto, anche se nessuno lo sa per certo e l’unica prova del coinvolgimento di Fring al suo attentato è Nacho, ora in pieno territorio nemico e stretto nella morsa dei Salamanca, già sulle sue tracce. Dall’altra parte del confine Saul si lecca le ferite e tenta di rimettere insieme i pezzi prima di chiudere definitivamente i conti con il passato, aiutato da una rediviva signora Goodman, spietata e fredda come mai prima d’ora. All’orizzonte però un’ombra si allunga minacciosa, l’abbiamo detto che Lalo è sopravvissuto?
Il caos calmo prima dell’ultima svolta, narrato con una precisione chirurgica che ha il primo compito di preservare la poetica della serie, minacciata da una scossa tensiva costante, che opera sotto traccia e che provoca il rigore di un lavoro che si sta rilevando a suo modo perfetto, in vista del traguardo finale.
Concludiamo la recensione della prima parte della sesta stagione di Better Call Saul invitandovi a recuperare le puntate e dandovi appuntamento tra qualche settimana per il gran finale. Non vediamo l’ora, ma non vorremmo arrivasse mai.
I sette episodi della prima parte della sesta stagione di Better Call Saul sono disponibili su Netflix.
I 7 episodi che compongono la prima parte della sesta stagione di Better Call Saul sono disponibili su Netflix. La serie spin-off /prequel di Breaking Bad, ideata da Vince Gilligan e Peter Gould, è arrivata a concludere la prima parte del suo ultimo giro di boa, confermando tutto ciò che di buono ci ha riservato in questi anni, compresa la prova corale del meraviglioso cast composto da Bob Odenkirk, Rhea Seehorn, Michael Mando, Patrick Fabian, Jonathan Banks, Giancarlo Esposito e Tony Dalton. Il gioco tensivo che ha alimentato l'emotività dell'elegante e lento incedere della struttura della serie tutta è ancora più forte, data la fine che sta ormai per arrivare, condizione che porta il prodotto a scoprire ancora più le sue carte, rivelando ed anche esaltando i meccanismi su cui sono stati costruiti gli archi di sviluppo dei personaggi, sia dal punto di vista della scrittura che da quello visivo. Un inesorabile conto alla rovescia verso la detonazione definitiva, quella in grado di far saltare il banco e di mostrare la strada finale verso la tanto attesa meta. Dispiace però molto che manchino solo 6 episodi.
- Un'eleganza e un rigore della messa in scena uniche nel panorama seriale.
- Il solito, straordinario, sviluppo dei personaggi.
- Il gioco tensivo che muove tutto il meccanismo della trama e che poi sorprende ogni volta.
- La consueta meravigliosa prova di tutto il cast.
- È solo la prima parte.
- È la prima parte dell'ultima stagione.