La recensione di The Furnace, il film diretto da Roderick MacKay, presentato nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia, ci porta nell’Australia del XIX secoli, tra cammellieri, cercatori d’oro e aborigeni.
La storia dei nativi americani la conosciamo tutti e sappiamo anche quanto terribile e devastante sia stata. Forse, però, non tutti conoscono la storia degli aborigeni australiani e dei cammellieri che, a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, l’impero britannico importò assieme ai cammelli dall’Afghanistan, dall’India e dalla Persia per esplorare l’interno del deserto australiano. La recensione di The Furnace del regista Roderick MacKay, western old school presentato nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia, ci porta ad esplorare una parte della storia australiana completamente sconosciuta ma incredibilmente affascinante (e anche toccante), tutta dal punto di vista di un giovanissimo cammelliere che si ritrova a compiere un viaggio fisico e psicologico alla ricerca delle proprie radici, legami e valori della vita.
Nel film si respira l’intenzione pura e genuina da parte del giovanissimo regista nel narrare una storia dimenticata
Nel film si respira l’intenzione pura e genuina da parte del giovanissimo regista nel narrare una storia dimenticata, spronando a portare in auge più film di generi diversi sul senso di identità australiana. Infatti, molti degli stessi co-nazionali di MacKay non sanno che i cammelli e i cammellieri dell’epoca furono essenziali per il costituire la nazione allo stato attuale.
The Furnace da questo punto di vista è, infatti, una rivisitazione della mitologia di frontiera. All’epoca questi camellieri islamici, sikh e indù costituivano la principale forma di esplorazione e di trasporto merci tra le colonie e i campi dei minatori d’oro. Inoltre, siamo in pieno periodo della caccia all’oro, dove sempre più mercenari si uccidevano tra loro e derubavano per poter prendere i lingotti della Regina e fonderli nuovamente per poi ricavarci del denaro sporco.
A questo, infatti, servivano i duri militari di frontiera che, con la scusa di rappresentare la legge, abusavano del loro potere alla ricerca, a loro volta, dell’oro. Ma andiamo per gradi.
Il vecchio west ma in Australia
Come detto prima, The Furnace rappresenta senza ombra di dubbio un vero e proprio western, ponendo ovviamente le giuste differenze: aborigeni al posto degli apache o lakote; i soldati di sua maestà prendono il posto di cavalleggeri e sceriffi; mercenari e cowboy sostanzialmente simili ma dall’identità profondamente diversa.
In tutto questo vanno aggiunti i cammellieri, protagonisti fra i tanti di questa pellicola, in particolar modo l’afgano Hanif – interpretato dal giovane Ahmed Malek – ingenuo, giovane e inesperto che si ritrova a vivere un’esistenza lontana dalla sua terra. Sempre alla ricerca di legami, di famiglia, di un luogo da chiamare casa, ma che improvvisamente si ritroverà completamente da solo.
Non è facile la vita nel deserto, soprattutto quando non si è un “uomo bianco”. Hanif lo dovrà scontare a suo spese e, proprio per questo, deciderà di aiutare un vecchio mercenario ferito di nome Mal (David Wenham) che porta con sé due lingotti d’oro con il marchio della corona.
Questa improbabile coppia si ritroverà a compiere un road trip tra gli imprevisti del deserto, portando a riflettere lo spettatore dell’importanza del banalissimo meccanismo della causa – effetto.
Ogni azione porta ad una conseguenze, ed ogni conseguenza ha un peso o un prezzo da saldare. Mal questo lo sa bene, che sembra essere costantemente ossessionato dal fantasma della morte; e lo stesso Hanif non è da meno, cacciato dal gruppo di aborigeni che fino a quel momento gli aveva dato il privilegio di avere un luogo da chiamare “casa”.
A complicare il viaggio dei due ci sarà anche una piccolo gruppo di forze armate della regina che risponde agli ordini del Sergente Shaw (Jay Ryan), intenzionato a trovare i lingotti rubati e punire chi ha osato di tale affronto.
Alla ricerca dell’umanità
Il mondo di The Furnace è un mondo selvaggio, violento e spietato. Un mondo dove ognuno agisce unicamente per i propri interessi, abusando di potere e venendo corrotto unicamente dalla sete dell’oro.
Un mondo di schiavitù dove a vigere è la legge del più forte e non c’è tempo per legami, valori. Non c’è più tempo per essere ancora considerati degli esseri umani.
Sotto il cielo stellato delle fredde notti nel deserto o sotto il sole cocente del mattino, spingendo i suoi cammelli, Hanif è un’anima in pena, sperduta e pura, che si ritroverà ben presto a macchiarsi le mani di sangue, a perdere tutto prima di capire che quello che aveva da sempre agognato, in fondo, era sotto il suo naso.
Non sono i legami di sangue a fare la famiglia, ma spesso nella vita la famiglia la si sceglie, ed è quella che da un senso al valore e all’importanza della vita stessa.
Il percorso doloroso, intenso ed intimo di Hanif, si rifletterà anche su tutti gli altri personaggi
Il percorso doloroso, intenso ed intimo di Hanif, si rifletterà anche su tutti gli altri personaggi che, alla fine della pellicola, si ritroveranno a perdere tutto, compreso il senno, prima di comprendere a quanto hanno rinunciato. Prima di comprendere quanta poca importanza si ha dato, fino a quel momento, ai sentimenti, alle cose e persone per le quali vale davvero la pena combattere. E da questo punto di vista, in un’epoca dove siamo troppo impegnati a vivere per noi stessi e a non guardare più in là del nostro naso, The Furnace si rivela essere un film incredibilmente attuale.
E su questo scenario gli unici a mostrare un senso di umanità, onore e unione sono proprio i nativi, isolati dalla corruzione del mondo moderno, dalla fame e sete dell’oro, ma ancora capaci di guardare le stesse ed emozionarsi. Di vivere in funzione delle persone, dei compagni, dei fratelli, della natura e non dei beni materiali.
Il western che incontra l’Australia
In The Furnace viene mostrato un carosello di personaggi provenienti da numerose etnie: sikh, azeri, cinesi, afgani, nativi africani, curdi, persiani. Al contrario di quanto mostrato da sempre dal cinema western, questa rivisitazione australiana va ben oltre il semplice concetto e scontro tra “bianchi e nativi”, aprendo ad un affascinante e suggestivo squarcio storico dimenticato o, molto più semplicemente, sconosciuto.
Sebbene non manchino i riferimenti del cinema western classico, come John Ford e Sergio Leone, Roderick MacKay riesce a creare un vero e proprio ponte tra ciò che ha fatto scuola e qualcosa di nuovo.
La regia è pulita, precisa ed asciutta. Scorrevole nella sua forma e sostanza, così come anche la sceneggiatura di quello che, alla fine, è a tutti gli effetti un vero e proprio road movie. Inoltre i bellissimi paesaggi, altri protagonisti fondamentali di questa pellicola, vengono esaltati da una fotografia calda e avvolgente, curata dai direttori della fotografia Michael McDermott e Bonnie Elliott.
Certo, lo svolgimento della trama non sarà dei più originali e quasi sicuramente The Furnace non sarà un film che vi farà strappare i capelli, ma al tempo stesso la pellicola riesce comunque sia ad affascinare e conquistare, proprio grazie ai personaggi che MacKay decide di mettere sullo schermo e il periodo storico preso in esame.
Non un film di intenti ma di sentimenti
Non particolarmente efficace nell’esasperare le scene drammatiche, la violenza e la morte, il regista australiano sposta il tutto su di un piano decisamente più emotivo e psicologico, spronando lo spettatore ad empatizzare con il giovane protagonista.
Complice è anche la natura che svolge un ruolo fondamentale, madre e matrigna al tempo stesso. Protegge e ferisce e diviene protagonista di quello che è un racconto che usa come pretesto la storia di un giovane ragazzo senza radici, per poter invece approfondire un periodo storico poco conosciuto ma molto interessante.
Approfondire la storia di una terra, le sue origine e quelle di chi la popolava, come l’ha cambiata e anche come l’ha condizionata.
Il regista non vuole sorprendere con scene d’effetto o chissà quali grandi sparatorie, vuole invece discendere nell’animo dei suoi personaggi, nella loro solitudine, dolore ed esasperazione; nella paura che porta a compiere gesti folli, a perdere passo dopo passo un pezzo di anima per poi restare, letteralmente (vista la grande quantità presente nei luoghi dove è stato girato il film), con un pugno di mosche in mano.
Il selvaggio west di MacKay è un selvaggio più spirituale
Il selvaggio west di MacKay è un selvaggio più spirituale, quasi intrinseco e che meno si mostra sullo schermo ma che più si riflette nello sguardo dei differenti personaggi, in particolar modo in quello di Ahmed Malek, vero grande protagonista di questo film.
La sua performance è intensa, sincera e anche forse un po’ ingenua proprio come il suo personaggio. Non c’è mai la volontà di dover necessariamente ricattare lo spettatore per farlo commuovere, per farlo rattristare per l’infelice destino del personaggio che, comunque, saprà come ritrovare la strada; piuttosto c’è un realismo di fondo che accompagna la crescita di questo giovanissimo ragazzo.
Una lancia va spezzata anche a favore di un dolorante e moribondo, tra lo sprezzante e il simpatico, David Whenham, il quale viene rappresentato quasi come se fosse il simbolo di un Paese visto dall’Impero meramente come una colonia penitenziaria.
Viscerale, profondo. Il personaggio di Mal ha quello sdegno e indifferenza nei confronti della vita tipica di chi non ha nulla da perdere ma che sa di star mentendo a se stesso. Si, perché si aggrappa, in fondo, con le unghie e con i denti alla vita, almeno fino al raggiungimento della redenzione. Mal affronta a sua volta, sebbene in maniera diversa, un viaggio di crescita, di riflessione su quanto ha fatto, su chi è stato e su chi non sarà. Sulle colpe che macchiano la sua anima e sul bisogno di soffocare il dolore, i rimorsi ed i rimpianti. E in tutto questo Whenham è davvero straordinario, fungendo da contraltare alla fragilità più esasperata del suo giovane compagno. In fondo, l’incontro-scontro tra i due è l’anima pulsante di questo film che tenta di mettere a confronto culture differenti e approcci nei confronti della vita.
In conclusione della recensione di The Furnace, possiamo dire che il giovane regista Roderick MacKay firma un’opera prima non perfetta ma incalzante, interessante. Un’opera sincera ed onesta, che sa come appassionare ed incuriosire lo spettatore, divenendo un ottimo tavolino di prova per lavori futuri più complessi ed entusiasmanti.