Il 2018, tra l’uscita di Jurassic World: Fallen Kingdom e la celebrazione per le prime venticinque candeline soffiate, è stato un anno all’insegna del grande ritorno di fiamma per il leggendario film capostipite della serie. Cosa lo ha portato a raggiungere questo status di opera inestinguibile e come mai nessuno dei suoi sequel sembra tenergli testa?
Per ogni generazione c’è sempre un film che si erge come rappresentante storico del proprio modello culturale nonchè come prodotto d’intrattenimento indirizzato verso il non semplicissimo compito di accompagnare la crescita di chi, in quei momenti, inizia ad affacciarsi a un mondo tuttaltro che perduto.
Se, a grandi linee, questo lavoro è stato svolto da film come Guerre Stellari negli anni ‘70 o I Goonies negli anni ‘80, sicuramente gli anni ‘90 sono stati terreno fertile per un altro film che è considerato da molti come l’opera d’intrattenimento per eccellenza di quella decade: Jurassic Park.
Correva l’anno 1993, un anno di stallo in quello che era il periodo caldo della cosidetta Restaurazione dei lungometraggi Disney. Un frammento di spazio a cavallo tra Alladin (1992) e Il re leone (1994) che venne colmato da un film che avrebbe inesorabilmente cambiato le sorti del grande Cinema di massa.
Steven Spielberg presentò così al mondo il suo Jurassic Park, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Crichton, un’opera che nella sua grandiosità riusciva comunque a esprimersi attraverso immagini e concetti estramente semplici e di assoluto impatto.
Il parco di divertimenti più avanzato del mondo intero, integrato con le più recenti tecnologie. E non parlo di giostre e baracconi, quelle ce le hanno tutti – no! – noi abbiamo creato delle attrazioni biologiche viventi, così stupefacenti che cattureranno l’immaginazione dell’intero pianeta!
cit. John Hammond
La trama del film è ciò che di più basilare ma allo stesso tempo impegnativo ci possa essere: Il magnate John Hammond, a seguito di un incidente capitato a un suo dipendente, convince un paleontologo, una paleobotanica, un ‘caosolgo’ e un avvocato a seguirlo nel proprio parco di divertimenti situato a Isla Nubar, vicino il Costarica. Il team da lui assemblato dovrà supervisionare il luogo per permettere ai finanziatori di Hammond di avvallare il progetto.Tutto sembra abbastanza semplice e lineare se non fosse che le attrazioni di questo parco di divertimento altri non sono se non i dinosauri stessi riportati in vita dall’azienda di Hammond grazie all’ingegneria genetica.
Una volta fatta conoscenza della trama si può iniziare ad analizzare quelli che molto probabillmente sono stati i tre ingredienti fondamentali che, mescolati insieme, hanno portato il film a diventare un’opera di culto nel suo genere e annullato ogni possibile tentativo di ripercorrerne le gesta.
La Qualità artistica
Qualità artistica: Il primo elemento, anche se scontato e facilmente deducibile, è la qualità della produzione dietro al film. Se Jurassic Park è diventato quello che tutti noi conosciamo adesso è merito del suo regista, Steven Spielberg.
Nessun altro avrebbe potuto mostrare una considerevole sensibilità tecnica di fronte a un prodotto che da li in avanti sarebbe diventato il punto di riferimento per i film d’intrattenimento.
La maestria del cineasta americano si è sposata alla perfezione con l’incommensurabile talento del compositore John Williams e con la recitazione sopraffina di attori del calibro di Sam Neill, Laura Dern, Richard Attenbouogh e Jeff Goldblum. Ognuno di loro ha svolto il proprio lavoro in maniera sublime, restituendo così allo spettatore un ulteriore input di immedesimazione con la pellicola.
Tecnica ed Equilibrio
Tecnica ed Equilibrio: Uno dei fattori che ha contribuito maggiormente alla diffusione immediata di quell’aura sacra che circonda il film è senza dubbio il comparto riguardante gli effetti speciali e la computer grafica. Ovviamente non siamo di fronte al film che ha sperimentato per primo l’utilizzo della CGI.
Anzi, in passato ci sono stati illustri predecessori che ne hanno mostrato le grandi potenzialità. Basti pensare a Tron (1982) o al più vicino Terminator 2 (1991). Ma anche se non si è avvalso del ruolo di figlio primigenio, Jurassic Park ha avuto il merito fondamentale nella storia del Cinema di averne fatto un uso concretamente ‘tangibile’ e con effetti naturali nella messa in scena, favorendone così la diffusione a livello globale.
Di pari passo allo sviluppo e alla ramificazione del comparto tecnico, si è venuto a creare anche una sorte di naturale equilibrio tra i vari elementi alla base della struttura del film. Un equilibrio rintracciabile formalmente nell’utilizzo appunto della computer grafica che non è mai andata oltre la soglia critica del ‘fittizio’.
Dinosauri in animatronic e in CGI, infatti, si sono alternati in modo del tutto armonioso durante la pellicola senza mai lasciar scoperto il fianco a una resa visiva eccessivamente irreale o, in modo inverso, anacronisticamente troppo legata a una componente scenica ulteriormente datata.
Se permette, le dico io qual è il problema insito al potere scientifico che state usando qui: ehm… non ci è voluta nessuna disciplina per ottenerlo.
Voi… voi avete letto quello che altri hanno fatto e di lì siete partiti, non sono conoscenze dirette, quindi non vi assumente nessuna responsabilità… per quello.
Siete saliti sulle spalle di altri per ottenere un risultato il più rapidamente possibile, e una volta ottenuto questo risultato voi… voi lo avete brevettato, impacchettato, ficcato in una scatoletta di plastica e ora… lo vendete, volete venderlo.
cit. Ian Malcolm
Ma l’equilibrio non si è fermato al solo comparto tecnico. Il film, infatti, vive lungo una sottile linea di sospensione narrativa che non viene mai stravolta da un eccessivo tono drammatico o caricaturale. I dialoghi tra i protagonisti sono sempre ben dosati e non rifugiano mai in un facile ammicamento nei confronti del pubblico (situazioni che invece si sono ricreate spesso duranti i sequel).
Ne sono una dimostrazione i conflittuali discorsi tenuti in ambito etico dai personaggi durante la rinomata sequenza della cena in cui Jeff Goldblum, su tutti, espone i propri dubbi sulla ricerca scientifca, o – sempre con protagonista l’attore de La mosca (1986) – la breve e promiscua tensione sessuale venutasi a creare tra Ian Malcolm e la dottoressa Sattler, situazioni che appunto non hanno avuto bisogno di sfociare in una hybris narrativa.
Singolarità
La natura singolare e irripetibile di Jurassic Park che non ha permesso e non permette tuttora a nessun altro prodotto di sfuggire dal proprio campo gravitazionale.
Anche questa volta non ci troviamo di fronte a qualcosa che non era mai apparso prima. I dinosauri non sono stati esclusiva di Spielberg, così come non lo era stata la computer grafica.
Ma quello che ci ha mostrato il regista non è stato un tentativo di approccio con un nuovo elemento cinematografico, bensì la riconciliazione con uno di quelli più antichi: lo stupore.
E chi meglio dei dinosauri poteva rappresentare simbolicamente questa sensazione nel modo migliore possibile? Esseri antichi, di cui non si è mai potuto fare esperienza diretta ma che con la loro rappresentazione colossale invadono le fantasie di tutti noi.
Stupirsi, meravigliarsi di fronte a qualcosa di unico che non si è mai visto prima o che è rimasto a lungo sepolto per poter riemergere un’unica e travolgente volta. Il tutto moltiplicato in modo esponenziale dalla mano di Spielberg che ha saputo caricare di tensione ogni singola scena fino a farle deflagrare nelle sequenze più concitate.
Nel momento stesso della sua uscita Jurassic Park si è chiuso in modo quasi automatico in una sfera di incorruttibilità che lo ha estratto da una dimensione temporale lineare per consegnarlo ai ricordi inalterati dello spettatore, allo stesso modo in cui il DNA dei dinosauri è rimasto immutabile dentro la resina cristallizata.
Una sensazione così portentosa e unica nei suoi meccanismi di rievocazione non può quindi essere soggetta a un lavoro di serializzazione. Motivo per cui nessun sequel di Jurassic Park riesce anche solo lontanamente ad avvicinarsi al film originale.
È strutturalmente impossibile. Ne è una dimostrazione Il mondo perduto (1997) primo sequel narrativo girato sempre da Spielberg e che nonostante ciò non ha colto nel segno come il suo fratello maggiore.
Questa linea esegetica viene parzialmente in soccorso anche dell’ultimo film del franchise, ovvero Jurassic World: Fallen Kingdom. È bene sottolineare come nessuna giustificazione sia legittima nei confronti di un prodotto che non sia in grado di rispecchiare le aspettative di pubblico e critica, ma allo stesso tempo sarebbe controproducente non guardare a questi film consapevoli della missione impossibile che sono chiamati a svolgere.
The lost World, Jurassic Park III (2001), Jurassic World (2015) e appunto Fallen Kingdom prendono parte a una maratona che fin da subito li colloca in una situazione di deficienza.
Parlare al pubblico di “stupore” utilizzando come simbologia visiva i dinosauri è qualcosa che può manifestarsi emotivamente solo una volta.
Così come una sola volta si è realmente bambini o ci si sforza di ricordarsi come tali. Un po come quando un mago svela il proprio trucco più grande. Con Jurassic Park, Spielberg ha mostrato a tutti noi cos’è che muove i fili dietro il palcoscenico.
Lo abbiamo visto, ce ne siamo innamorati e adesso lo conserviamo gelosamente dentro di noi. E se quella sensazione non riesce più a ripresentarsi perché unica e improponibile proprio come i dinosauri stessi, non possiamo incolpare nessuno.