Nell’attesa di notizie sul misterioso Let It Die, nuovo titolo di Grasshopper Manifacture, ripercorriamo insieme le avventure di Travis Touchdown in No More Heroes.
No More Heroes è una delle produzioni più famose sviluppate dagli studi di Grasshopper Manifacture e, insieme a Killer 7, il titolo che più di tutti ha fatto conoscere al mondo intero il malato genio creativo del game designer Gōichi Suda.
La via dell’otaku
Travis Touchdown è un otaku (versione in chiave nipponica molto più estrema del nostro concetto di nerd, se preferite). È un ragazzo che vive sull’orlo della povertà nella misera stanza di un motel, il No More Heroes.
Ha le pareti della camera coperte di poster di lottatori di wrestling e personaggi dei fumetti, non cova grandi ambizioni, non ha una fidanzata e vive di quei pochi soldi che si guadagna con qualche lavoretto qua e là.
La sua vita però, cambia improvvisamente quando vincendo un’asta online si aggiudica una “beam katana”, una spada laser in pieno stile Guerre Stellari.
Con il nuovo giocattolo tra le mani e la necessità costante di recuperare un po’ di soldi per videogiochi e video di wrestling, Travis accetta così un impiego ben retribuito che non necessita di particolari prerequisiti: l’assassino a pagamento.
Il primo incarico che il giovane otaku porta diligentemente a termine è l’uccisione di Helter Skelter, successo che permette a Travis di guadagnare l’undicesima posizione all’interno della United Assassins Association, un’organizzazione di assassini.
Diventato a sua volta un bersaglio per i colleghi intenti a scalare la classifica, il nostro protagonista decide quindi di puntare con fermezza alla prima posizione.
Non è però solamente per orgoglio e denaro che Travis tenta la pericolosa scalata, la persona che organizza gli incontri infatti, è una giovane, avvenente e misteriosa donna di nome Silvia Christel, una bionda mozzafiato che gli fa letteralmente perdere la testa.
Quale metodo migliore per conquistarla se non dimostrarle di essere il numero uno?
No More Heroes inizia da qui, e se vi sembra che la premessa sia del tutto folle e senza senso, sappiate che il gioco creato dal genio visionario di Gōichi Suda e la sua Grasshopper Manufacture è tutta un’ascesa di quella stravaganza e pazzia che solo un autore che viene considerato da molti il Tarantino dei videogiochi può essere in grado di partorire.
All’interno del mix di azione, violenza e stile spiccatamente trash proprio del titolo però, troviamo una profondità culturale e artistica che sorprende e lascia senza fiato.
Pulp game
Il vero fulcro del gioco sono senza dubbio alcuno i 10 temibili killer che precedono Travis in graduatoria. Ogni aspetto del gameplay è finalizzato infatti a prepararci adeguatamente allo scontro con la decade di boss.
Dovremo lavorare per guadagnare il denaro che ci servirà per acquistare power-up, allenarci per migliorare le abilità di scontro corpo a corpo e fiondarci a testa bassa verso lo scontro successivo, inoltrandoci in svariate ambientazioni pullulanti di scagnozzi da fare a fette con la nostra lucente beam katana, fino ad arrivare al cospetto del vero e unico obiettivo.
Ognuno dei killer è caratterizzato in maniera squisitamente sublime, e dispone di un particolare e unico stile di combattimento.
Carpirne i segreti e i punti deboli è quindi fondamentale per sopravvivere ai duelli mortali, che ricordano spesso i violenti, ma allo stesso tempo romantici scontri faccia a faccia dei samurai del periodo Meiji.
Il primo elemento che dimostra quindi l’arte grezza e provocatoria del titolo di Suda51 è proprio la caratterizzazione di personaggi, ambientazione e sonoro, che spruzzano stile Punk, animazione giapponese e cultura pop da ogni singolo pixel.
Il citazionismo esasperato alla cinematografia fantascientifica e ai vecchi B-Movie, alla musica punk rock inglese e pop americana, al mondo del wrestling e del videogioco stesso poi, palesano un solido e consapevole rimando alla pop generation, la generazione di ragazzi che crebbe in Giappone nel secondo dopoguerra.
Un periodo questo di profondo cambiamento per il paese dei samurai e che vede la cultura americana e occidentale tutta, insinuarsi con vigore nelle strade e nelle case del Sol Levante.
Rivincita di un otaku
Lo stesso Travis è poi un otaku, una delle sottoculture più discusse e denigrate della cultura giapponese moderna. Un argomento questo che mai ci aspetteremmo venisse affrontato in un videogioco tutto frenesia e sangue.
Il geniale game designer nipponico trasforma così lo stereotipo del nerd solo, strano e socialmente inetto in un letale assassino palestrato che riceve le attenzioni di una bionda da infarto, urlando così a modo suo al mondo come la cultura otaku sia formata anche e soprattutto da persone che hanno o possono avere un’invidiabile vita sociale.
Ancora una volta quindi le linee di codice di No More Heroes nascondono un rimando al mondo reale, un messaggio di denuncia e ribellione verso la società nipponica e non solo, stravolgono la superficiale impronta di divertimento spensierato della produzione in un’opera più profonda, articolata e contemplativa.
La coscienza di Travis
Quello che innalza veramente la produzione Grasshopper allo stato dell’opera d’arte interattiva però, è la geniale capacità di Gōichi Suda di giocare con il medium videoludico stesso, con il suo passato e presente, con i diversi generi e relativi cliché, rompendo i canoni d’interazione gioco/giocatore e denunciando allo stesso tempo più o meno velatamente le direzioni che certi rami dell’industria hanno intrapreso negli ultimi anni, oltre alla poca riconoscenza artistica del settore da parte degli organi d’informazione e di censura.
Ecco quindi che Santa Destroy, la città fittizia in cui il gioco è ambientato, diventa un vasto spazio semivuoto che non serve ad altro se non a collegare un punto d’interesse ad un altro, facendo così il verso a quelle produzioni multimilionarie che fanno della vastità di territorio liberamente esplorabile una bandiera, ma che non danno molto in termini di varietà di gameplay e profondità artistica.
Sul finire dell’avventura Travis rende addirittura volontariamente incomprensibile un dialogo tra se stesso e un altro personaggio, dicendo poi che se avesse fatto sentire quelle parole, l’età consigliata al pubblico per il gioco sarebbe sicuramente finita per essere ancora più alta.
Touchdown è quindi consapevole di essere il protagonista di un videogioco, e si rapporta così direttamente al giocatore rompendo la cosiddetta quarta parete, parlando e “comunicando” con lui, rovesciando il logico rapporto tra gioco e giocatore come faceva Pirandello con il teatro, come Lucio Fontana nella pittura.
Le sensazioni che derivano da questo espediente sono a tratti sconcertanti per chi tiene il pad in mano, che si trova infatti più volte spiazzato nel rendersi conto di essere concretamente coinvolto nell’esperienza ludica.
Mash-up videoludico
L’abilità di Suda51 nello sfruttare ogni caratteristica del prodotto videoludico non si ferma però ai soli espedienti narrativi, anche grafica e gameplay infatti vengono continuamente smontati dei loro paradigmi classici.
La grezza grafica 3D nella quale ci immergiamo nel corso dell’avventura si fonde così con elementi in pixel-art 8 bit; diversi generi tipici dei coin-op anni ’80 e ’90 fanno improvvisa irruzione sotto forma di minigame o di fugace sequenza nell’avventura principale, e gracchianti melodie in chip music si alternano ai moderni e ricercati brani del soundtrack.
Il tutto fuso assieme con una strabiliante e ammaliante armonia.
Divertimento, ma anche riflessione
Filosofia orientale e credo samurai si uniscono a cultura punk e pop, il “nonsense” e le esagerazioni stilistiche tipicamente nipponiche vanno a braccetto con una profonda e ricercata componente artistica, critica e riflessiva.
Generi ed elementi grafici di stili ed epoche diverse si fondono all’interno dello stesso universo di gioco.
In No More Heroes c’è tutto questo e molto di più, è un titolo grezzo, folle, superficiale e ricercato al tempo stesso. Ha un carattere unico e inconfondibile, ma che potrebbe anche far storcere il naso ai più a causa delle diverse lacune che affliggono grafica e gameplay.
Se credete che siano tutte causa di scelte poco felici o di uno sviluppo poco accorto però, non avete probabilmente capito fino in fondo la geniale arte di Gōichi Suda.