Il terzo giorno della XI Festa del Cinema di Roma vede protagonista Nate Parker, il quale esordisce alla regia con il potente e storico The Birth of a Nation, basato sulla storia vera dello schiavo afroamericano Nat Turner, e già tra i preferiti della tanto agognata cinquina dei prossimi Oscars.
Presentato per la prima volta il 25 Gennaio 2016 al Sundance Film Festival, vincitore del Gran Premio della Giuria, e successivamente al recente Toronto Film Festival, The Birth of a Nation segna l’incredibile esordio alla regia dell’attore Nate Parker.
Di film sulla schiavitù ce ne sono tanti e, forse, perfino troppi. Una delle tematiche più amate dall’Academy e spesso farcite di stereotipi, storie già viste e personaggi privi di caratterizzazioni tali da far entrare realmente in empatia lo spettatore.
Lo abbiamo già visto due anni fa con il 12 Anni Schiavo di Steve McQuenn, vincitore del Premio Oscar come Miglior Film, pellicola premiata più per il tema che per la reale bellezza del film in sé per sé. Un film ricco di grossi nomi ma povero di “buone” intenzioni.
E a un primo sguardo sembra che Nate Parker con il suo The Birth of a Nation voglia puntare proprio su quello, aprendo con una frase d’effetto di Thomas Jefferson seguito dalla tanto temuta frase “tratto da una storia vera”.
Senza ombra di dubbio quella di The Birth of a Nation è una storia vera, la storia del giovane afroamericano Nat Turner, il quale guidò, negli anni trenta dell’ottocento nella Contea di Southampton in Virginia, la prima vera rivolta degli schiavi contro il padrone bianco.
Eppure Nate Parker sa bene come far ricredere immediatamente lo spettatore, spiazzandolo con una pellicola dall’immagine visiva simbolica e potente, dalla narrazione concreta e scorrevole, che sa dosare benissimo ironia e drammaticità. Lo stesso titolo, infatti, è un ironico riferimento all’omonimo film muto del 1915 di David Griffith che glorifica il Ku Klux Klan.
Siamo nel 1809 e Nat Turner è un bambino nero come tanti bambini neri, costretto a lavorare nelle piantagioni di cotone delle contee americane per i ricchi, o quasi, proprietari terrieri.
Eppure Nat, a differenza di tanti bambini, è un bambino speciale. Un predestinato. Intelligente e sveglio, al quale viene insegnato a leggere e scrivere dalla stessa moglie del padrone per il quale la famiglia di Nat lavora.
Alla morte del padrone, Nat è costretto a tornare nei campi. Eppure non prova alcun rancore. Determinato e coscienzioso, Nat lavora accanto a sua madre, fortemente credente nella parola di Dio e in tutto ciò che le sacre scritture recitano.
Negli anni Nat, interpretato dallo stesso Nate Parker, diventa un appoggio per la sua colonia e perfino per il suo padrone, il giovane e insicuro Samuel (Armie Hammer), erede delle piantagioni di suo padre.
Il suo far umile e devoto, la sua bravura nel predicare la parola di Dio e riuscire a placare gli animi, fa di Nat un uomo da seguire. E, in fondo, nel paradosso di essere schiavo, le colonie di Samuel vengono trattate con rispetto e umanità. Non tutti, però hanno questa fortuna. La siccità rende i campi aridi, secchi, sterili. Questo comporta una scarsa produzione di cibo e cotone, quindi poco commercio e zero guadagno, portando sul lastrico i grandi padroni terrieri che non possono dare da mangiare ai propri schiavi, ma li sfruttano con maggiore forza.
Questo clima inizia a generare vari disordini e ammutinamenti. La fama di Nat come predicatore viene conosciuta in fretta, ed essendo anche Samuel in seria difficoltà economica, decide di fare il giro della contea portando con sé Nat per predicare la parola di Dio nel peggior modo possibile: a pagamento e secondo il volere degli schiavisti.
Nat si accorgerà presto dell’immensa sofferenza che regna oltre i terreni di Samuel. Violenza, brutalità, bestialità. Gli schiavi sono carne da cannone unicamente da sfruttare, per poi liberarsene solo quando le schiene sono spezzate e le ossa si staccano a causa della cartilagine consumata.
Nate Turner inizia a sentirsi un giullare. Uno schiavo come tanti, sfruttato per la sua intelligenza, costretto a infangare la sua unica ancora di salvezza: la fede. E sarà proprio la fede, una nuova rilettura e interpretazione della parola di Dio, a guidare Nat, investito più da un moto di folle esaltazione religiosa che da un concreto e razionale senso di rivalsa, verso una crociata senza precedenti.
Una ribellione di 48 ore che segnò la morte di oltre sessanta schiavisti bianchi, ma che portò un fortissimo periodo di odio nei confronti di tutti i neri. Eppure il gesto di Nat, per quanto gli americani abbiano tentato in tutti i modi di demistificarlo, distruggendo perfino il corpo dell’uomo, è rimasto vivido negli occhi delle generazioni più giovani, le stesse che anni dopo, avrebbero guidato i primi movimenti di reale cambiamento per uno dei popoli più tormentati della storia.
Nate Parker firma con The Birth of a Nation una pellicola difficile, diversa dalle precedenti, ed estremamente potente.
Un film ricco di un simbolismo religioso, marcatamente accentuato ed esaltato, che raffigura Nat Turner come il Cristo dei neri, pronto a sacrificarsi pur di lasciare un simbolo, una coscienza, la volontà e il coraggio di essere uomini e donne libere.
The Birth of a Nation dosa perfettamente immagini e parole, suoni e silenzi, rendendo la pellicola perfettamente armoniosa e mai sovraccarica di elementi. Nate Parker fa sì che ogni scena sia necessaria e ben inserita all’interno del quadro storico e narrativo del film, dosando elementi reali con quelli più romanzati.
Ottimo è il bilanciamento tra ironia e drammaticità, già ripreso dal titolo, che viene ripetuto costantemente nel film, soprattutto per i primi quarantacinque minuti. Nel paradosso, nella violenza e follia di quel periodo oscuro, Parker riesce a far ridere lo spettatore con i suoi personaggi, per poi colpirlo ferocemente con una seconda parte che non lascia scampo.
Esattamente come per Nat, per sua moglie Cherry e per lo stesso Samuel, tutto ciò che di bello c’è stato, viene spazzato improvvisamente via da una sofferenza feroce. Una rabbia che cresce velocemente dentro il protagonista, divorandolo a tal punto da divenire un’altra persona. Un uomo stanco di ubbidire, di recitare la parte della persona libera. Un uomo desideroso fino in fondo di liberare la sua gente dalla follia dell’uomo bianco, ma che si perde nel suo stesso idilliaco immaginario deviato, in parte, dalla fede.
Nate Parker fa uso di un’immagine molto potente, dominata in un primo momento da tinte più calde ma che progressivamente lasciano spazio a sfumature tendenti allo scuro e allo sporco.
Inquadrature lunghe ma d’effetto. Un montaggio bilanciato e che rincorre bene la suspense e i momenti di violenza più forti, i quali trovano la loro massima espressione nell’ultima parte della pellicola.
Lo spettatore è dentro la narrazione, immerso e complice del quadro più devastante che Parker mette in scena, senza risparmiarsi di un colpo.
The Birth of a Nation è un pugno in pieno stomaco. Una pugnalata al cuore. Una pellicola capace di sfoderare un ventaglio di emozioni in cui lo spettatore si perde. Dalla rabbia al dolore, dal senso di colpa all’annichilimento totale.
Una pellicola, in parte, necessaria, importante e complessa. Sarà difficile non sentirne parlare in futuro.
The Birth of a Nation sarà in tutte le sale cinematografiche italiane dal 19 Gennaio 2017.