La zona d’interesse, la recensione: il paradiso del male

La zona d'interesse

Jonathan Glazer è uno di quei registi che difficilmente farebbe un film brutto anche dovesse avere la mano sinistra legata dietro la schiena. Quindi è uno di quelli di cui lo spettatore si può (forse si deve) fidare. La sua è una poetica cinematografica molto forte, sia dal punto di vista tematico che estetico. Camera fissa, carrelli orizzontali, scientifica composizione dell’immagine, elementi di un cinema analitico che si interessa alla dissezione dell’uomo, in quanto essere sociale e al contempo animale cresciuto in cattività.

Nella recensione de La zona d’interesse, in sala dal 22 febbraio 2024 con I Wonder Pictures, premiato a Cannes 76 con il Grand Prix Speciale della Giuria e presentato in anteprima all’18esima edizione della Festa del Cinema di Roma, sezione Best Of, vi parliamo di una tappa importante, stavolta firmata A24, nel percorso di ricerca audiovisiva del cineasta londinese.

Jonathan Glazer è uno di quei registi che difficilmente farebbe un film brutto anche dovesse avere la mano sinistra legata dietro la schiena.

Per l’occasione torna ad adattare un romanzo come fu per Under The Skin (in quel caso molto liberamente), prendono spunto dall’omonimo libro del 2014 scritto da Martin Amis che si occupava di una vicenda legata alla famiglia di Rudolf Höß, membro di spicco delle SS e famoso per essere stato il primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz. A lui si devono la sua rapida costruzione e l’impiego del gas Zyklon B nelle camere apposite per semplificare e velocizzare le uccisioni.

Glazer pesca dalla carta stampata e mette in scena sul grande schermo un controcampo portentoso non solo dell’orrore dell’Olocausto, ma anche del cinema (e che cinema!) che lo ha rappresentato nel corso degli anni mettendone il dramma e il peso al centro della camera. Una trovata veramente straordinaria che gli permette di generare un cortocircuito tra i concetti di paradiso e inferno, vita e morte, attraverso la creazione di un ambiente così artificiale da far dubitare della sua veridicità, che è ciò che permea lo spettatore quando vede dei nazisti vivere con serenità il proprio operato quotidiano.

“La casa che abbiamo sempre sognato”

L’area d’interesse (o Interessengebiet) era l’appellativo con cui veniva chiamato il lembo di terra di circa 25 miglia situato intorno al campo di Auschwitz. Da lì è impossibile vedere cosa succeda all’interno a causa di un alto muro di cinta che lo delimita e che fa da confine con l’esterno.

Glazer prende questa area e la delimita ulteriormente, concentrandosi sulla zona che interessa a lui, che poi ha una dimensione doppia, perché essa è sia la casa della famiglia Höß, dove il cineasta si è recato più e  più volte prima dell’inizio delle riprese (è tra l’altro possibile visitarla tuttora in quanto museo dell’Olocausto), sia come essi vivano la vicinanza ad un apocalisse quotidiano.

L’area d’interesse (o Interessengebiet) era come l’appellativo con cui veniva chiamato il lembo di terra di circa 25 miglia situato intorno al campo di Auschwitz.

La zona d'interesse

Per rimanere il più attaccato possibile alla realtà il regista ha ricostruito fedelmente l’abitazione e, per evidenziare l’aspetto più scientifico del suo cinema, ha deciso di piazzare al suo interno diverse videocamere fisse per permettere agli attori di muoversi liberamente all’interno di essa. Un’idea geniale per mettere in scena un dramma borghese nazionalsocialista da cameretta, che in realtà non arriva mai a fondo alla destrutturazione dell’istituzione, perché non mira mai alla messa fuoco della crisi dei valori che la sostengono, ma alla riproposizione alla famosa banalità raccontata in uno dei libri più importanti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

La trama è infatti fondamentalmente sintetizzabile come “il comandante è costretto a trasferirsi per motivi lavorativi dalla casa dove ha sempre sognato di vivere insieme alla moglie, la quale decide infatti di opporsi allo spostamento dell’uomo e di rimanere dov’è, così da crescere al meglio i suoi figli.” Tutto ciò che è importante accade appena qualche passo più in là.

L’interesse dell’altrove

Di fatto tutto quello che avviene ne La zona di interesse, così come tutto ciò che ne muove la costruzione, è legato all’esaltazione della forza del contrasto.

Quello che viene concesso vedere allo spettatore è solo ciò che deve risultare innaturale, distante, illogico, straniante, alieno, finto. Anche quando c’è la possibilità di entrare dall’altra parte del muro lo si fa in modo visivamente ribaltato e accompagnato da un parlato che rimanda sempre all’invenzione, al racconto favolistico. La realtà è irreale. Forse Glazer ce lo aveva scritto in un pezzo di carta che teneva nel taschino mentre girava il film.

Una versione non credibile della Storia. La Storia, la vera Storia, si svolge in dei luoghi di cui il cineasta decide di non occuparsi per andare nell’altrove, nel dietro le quinte logistico, dove si cela il vero orrore per lo spettatore, cioè quello che lo fa sentire incapace di orientarsi.

Di fatto tutto quello che avviene ne La zona di interesse, così come tutto ciò che ne muove la costruzione, è legato all’esaltazione della forza del contrasto.

La zona d'interesse

Talmente tanta è la volontà di mantenere questo estremo registro linguistico che il film rinuncia a raccontare una storia sua, di dare profondità al suo tracciato o di dare una rotondità, una completezza, una dimensione totale ai suoi personaggi. Quello che sceglie la pellicola è di rispettare questo ancoramento ad altro, questo suo essere vagone caldaie, il luogo dove meccanicamente avviene tutto il resto.

Ogni tanto capita però che la Storia scavalchi le mura di Auschwitz e si affacci, tramite il rosso vivo, le fiamme e le voci, quest’ultime testimonianza di un sonoro incredibilmente curato che riempie la scena al punto da non lasciare spazio a nient’altro che a loro. Gli echi riecheggiano all’interno dei corpi di qualcuno della famiglia del comandante, che rimane sveglio la notte o che scompare la mattina, o nei resti che si troveranno dopo l’apocalisse, quando ci sarà lo spazio per la memoria, che ci deve essere anche quando non è possibile vedere.

Un messaggio fondante per un film sull’Olocausto, che, come tale, è sempre un film sulla memoria. La zona di interesse ci ricorda come quello che è successo è talmente forte che basta un’evocazione, ecco perché è dovere ricordarlo anche per coloro che non lo hanno visto.

La zona d’interesse arriva in sala il 22 febbraio 2024 con I Wonder Pictures.

80
La zona d'interesse
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

La zona di interesse, vincitore del Grand Prix Speciale della Giura a Cannes 76 e presentato in anteprima alla 18esima Festa del Cinema di Roma nella sezione Best Of, è la nuova fatica di Jonathan Glazer. Il cineasta inglese si basa sull’omonimo romanzo di Martin Amis e mette in scena un geniale controcampo non solo dell’orrore dell’Olocausto, ma anche del cinema che lo ha rappresentato nel corso degli anni. Una trovata veramente straordinaria che gli permette di creare una dimensione parossistica in cui la realtà mostrata appare aliena, non credibile, straniante, irricevibile allo spettatore. La rigidità, il credo e la devozione a questo registro lo portano a sacrificare scientemente la parte legata alla creazione di una propria compiutezza, decidendo di concedere allo spettatore solamente ciò che è altrove dalla Storia, che si affaccia tramite un meraviglioso sonoro e l’evocazione tramite la memoria. Perché ogni film sull’Olocausto è anche un film sulla memoria.

ME GUSTA
  • La trovata del controcampo è geniale.
  • La metodologia di ripresa è straordinariamente funzionale all'intento.
  • La capacità di tenere sempre lontano lo spettatore.
  • L'uso del sonoro è fantastico.
  • La devozione al registro linguistico è totale...
FAIL
  • ... ma porta ad una rigidità che può non piacere a tutti.
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