Non esiste onore senza una coscienza immacolata, bisogna essere belli, alti, svegli e sempre coraggiosi. In un certo senso, il mondo ti fotte.

“Oh… Chiara! Accidenti se ne è passato di tempo, ti trovo benissimo…” azzardai stralunato e molto sorpreso.

Sbrigammo la burocrazia dei convenevoli in una dozzina di secondi, entrambi molto occupati a far finta di ascoltare; era diventata davvero splendida, la ragazza.

Non potei fare a meno di sbirciare ripetutamente il seno che sbocciava dal suo piumino beige, più e più volte, e lei doveva essersene accorta perché sorrideva molto e distoglieva gli occhi dalla mia persona, con quel modo garbato di parlare e di muovere le mani proprio delle vere, autentiche mignotte.

Di solito non mi piacevano sorprese di questo genere, non sopportavo l’idea che gli altri andassero avanti e vivessero la loro vita per poi sbattermi in faccia i loro successi. I muscoli, le lauree, le donne o gli uomini, la macchina, la moto, i soldi. Ero fregato senza via d’uscita, tanto che ben presto trovai la cosa irritante e provai il forte desiderio di scappare e di odiare di nuovo.

Chiara parlava e parlava e io non riuscivo a memorizzare quasi nulla; credevo già di potermela sbrigare con un “allora alla prossima” quando la vita mi colpì ancora una volta sotto la cintura. Un invito a cena, così, senza preavviso. Tu, con quel seno. La sera stessa. Inammissibile. Accettai.

Accettai col timore del misogino e la tracotanza del segaiolo. Via CentoTrecento, numero Cento, ore 21. Improvvisamente tutto il mio castello di certezze crollò; avrei dovuto comprare del vino, sfoderare il mio fascino e ripulirlo dalla naftalina, cambiare le mutande, fare una doccia, ripassare a memoria le cose da non fare e da non dire mai davanti ad una ragazza. D’un tratto ebbi come l’impressione che dieci ore non mi sarebbero bastate per migliorare in modo significativo; con le ultime forze riuscii a sillabare un

“A stasera allora”

proprio mentre perdevo l’ultima occasione di dire qualcosa di audace e singolare. Chiara sorrise lo stesso e si girò sui tacchi.

La Feltrinelli mi aveva giocato un brutto tiro, e non gliel’avrei perdonata; ero stato condannato una volta ancora ad avere una vita sociale che non m’interessava assolutamente. Alle 11 del mattino la mia tana preferita era esplosa, divelta senza preavviso da una bionda tinta che mi feriva con lo sguardo e con il corpo; io, novello Lacoonte, mi ritrovavo nuovamente avvolto dalle sinuose spire di quella perfetta macchina infernale che è la donna.

Comunque, inspirai coraggio ed iniziai a darmi da fare. Ingoiai una lacrima dal sapore freddo di un addio, un ultimo sguardo alla cassiera e all’insegna ed ero già fuori, all’aperto, che pioveva ancora. Più forte di prima. Dove erano finiti i miei compagni, dove le mie speranze e i miei anni, questo adesso non m’importava. Dovevo pensare a qualcosa di unico per uscire trionfante dall’ennesima sfida emotiva cui ero stato sottoposto.

Prima d’ogni altra cosa avrei dovuto ritrovare la mia sicurezza; l’avevo smarrita pochi mesi prima frequentando gentaglia della mia stessa risma, persone con cui era inutile fingere di fare il duro: il fallimento veniva accettato senza bisogno di inutili scuse, senza dover dare per forza una spiegazione, senza dover fumare, bere o leggere qualcosa per sembrare meno stupido.

Non sarebbe stata un’impresa facile, quella notte avevo dormito poco, la vita mi aveva appena beffato di nuovo ed inoltre piovevano secchiate di anidride liquida. Ma in ogni modo avrei dovuto farcela, senza se e senza ma. Qualcosa sul genere “respirare adesso o non poterlo fare mai più”, non era facile ma l’alternativa era di gran lunga peggiore.

Ripresi così il mio cammino tra i vicoli bolognesi. Il ghetto ebraico mi parve meno familiare ed accondiscendente del solito, forse il Golem era stato assunto come buttafuori al Transilvania e non aveva più tempo per certe cose. Forse l’Armageddon era più vicina di quanto pensassi, ed era solo venerdì mattina. D’un tratto mi prese una voglia improvvisa di mangiare qualcosa dal take away palestinese lì intorno; sapori particolari, forti e piccanti, specie se ti distraevi quando il tizio dietro al bancone chiedeva

“…piccanDé??”

Sapori in grado di destare, oltre al mio intestino, anche quella parte di me compresa tra le palpebre e gli occhi, quella dove nascono i sogni per intenderci. Mi venne in mente che in tutto quel tempo io ero rimasto uguale, identico a prima, forse solo un po’ più rintronato; Chiara nel frattempo si era laureata, aveva messo qualche chilo nei punti giusti, si era tinta di biondo e si era tolta l’apparecchio. Io non ce l’avevo mai avuto un apparecchio: la vita non dava le stesse possibilità di partenza a tutti, e questo mi sembrò profondamente ingiusto. Con un apparecchio sui denti gliel’avrei fatta vedere a tutti.

Finii il kebab e feci per tornare verso casa, laddove – pensai – i miei coinquilini mi avrebbero accolto col sorriso aggraziato di chi ha appena schiacciato uno spicchio d’aglio con i molari; cambiai subito idea e mi diressi in zona Montagnola.

Ci avrebbero pensato i portici a ripararmi dalla pioggia e dal mondo; sì, mi avrebbero accolto come una madre di pietra, protettiva e testarda, in un’estasi grottesca di amore incondizionato e mattoni a vista.

Una volta al coperto mi accorsi subito che un alone di mistica disarmonia mi placcava da vicino. La mia vita era un mucchio di tappi di birra scadente su cui era inciso “non hai vinto ritenta”, le mie ex si erano convertite al sesso orale un paio di mesi dopo avermi mollato. Però tutto sommato non avevo mai comprato roba tipo “Il corriere dello Sport” ed ero riuscito a stare abbastanza lontano dalle droghe ed erano ottimi risultati, da un punto di vista strettamente personale.

L’orologio a cipolla regalatomi da mio nonno materno segnava le 2 del pomeriggio mentre mi alzavo dai gradini di San Petronio, intontito come fosse domenica mattina dopo i postumi di un sabato che c’era andato giù duro. I minuti a mia disposizione si scioglievano uno dopo l’altro come ghiaccio all’equatore e non avevo ancora iniziato neanche una sola delle cento cose che avrei dovuto fare prima delle nove di sera. Continuavo ad applicare la filosofia di vita che mi aveva portato all’abbandono quasi definitivo degli studi: temporeggiavo.

Una tecnica che fino al liceo può funzionare egregiamente, ma che un giorno ti abbandona come il motore di una Panda Fiat in autostrada: ti lascia in un mare di liquami fisiologici mentre gli altri, quelli che si sono sempre fatti un mazzo tanto, quelli che ci hanno creduto fin dall’inizio, quelli della prima fila, sfrecciano veloci sull’asfalto.

Decisi in quell’istante di cambiare pagina, di dare finalmente una svolta alla mia vita. Mi guardai attorno e stilai mentalmente una prima lista di operazioni da eseguire in sequenza:

  1. tornare a casa e farsi una doccia;
  2. cambiarsi;
  3. pagare l’affitto;
  4. restituire il libro “American Psycho” in biblioteca;
  5. comprare del vino decente;
  6. autoconvincermi di essere un uomo (ma solo se mi fosse avanzato del tempo);
  7. cenare a casa di Chiara.

 

 

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