Un’analisi della New York University ha rivelato che alcuni inserzionisti su Facebook Ads ancora mentono sulle loro identità per le pubblicità politiche.
Tra maggio 2018 e giugno 2019, alcuni ricercatori della New York University hanno trovato 37 milioni di dollari di pubblicità pagate da inserzionisti sconosciuti o con pochi dettagli per capire bene chi sono. Dopo un anno, nonostante molti problemi siano stati risolti, alcuni inserzionisti ancora mentono sulla loro identità.
I ricercatori Laura Edelson, Tobias Lauringer e Damon McCoy hanno trovato 86.000 pagine di Facebook che fanno pubblicità politiche ma che mantengono celati alcuni dettagli necessari per trasparenza. Di queste, inoltre, circa 19.000 pubblicità risultano pagate da gruppi “non autentici” e posizionati su pagine diverse ma con stesso testo e stessa immagine.
Queste pubblicità, definite inautentiche, sembrano utilizzare tattiche di disinformazione simili a quelle adoperate durante il Russiagate. Non è arrivata tardi la risposta di Facebook, che tramite un portavoce ha affermato:
Le nostre misure di trasparenza sono cambiate molto dopo la conclusione della ricerca. Ad oggi, offriamo più trasparenza sulle pubblicità politiche di qualsiasi TV, radio o piattaforma digitale.
Il processo di rilancio delle pubblicità politiche di Facebook è avvenuto a maggio 2019: l’azienda ha creato nuove linee guida per garantire autenticità e trasparenza alle pubblicità. Tutto questo è stato anche reso disponibile a giornalisti e ricercatori per analizzare i vari dati.
Quando un inserzionista nasconde la sua identità, Facebook richiede informazioni aggiuntive e attiva un processo di verifica: se non superato, l’account viene disattivato. A conferma di questo sistema, davvero buono ma non perfetto, ci sono le parole dei ricercatori della New York University, che dicono:
Sebbene dovrebbero fare un ulteriore passo in avanti per ottimizzare questa sicurezza, Facebook ha l’unica libreria di pubblicità che da abbastanza dati per studi significativi. Google non copre le pubblicità legate alle attività politiche, mentre Twitter controlla solo un centinaio di inserzionisti, contro i 126.000 di Facebook.
Lo scandalo gira, più che sulle pubblicità dirette che vanno a suggerire di votare uno o l’altro candidato, sulle pubblicità delle attività: queste infatti sono più sfuggevoli da trovare, in quanto vanno solo ad evidenziare attività, scelte e idee di alcuni candidati, senza consigliare esplicitamente una votazione ma facendo comunque propaganda.