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Recentemente si è parlato molto della nota marca di abiti di moda Abercrombie & Fitch.

 

fino a che punto può spingersi una azienda che punta a generare del buzz intorno al suo marchio?

Da quella che sembrava essere la solita provocazione volta a far parlare di sé, si è generata una reazione da parte del web che mi ha portato a fare una riflessione riguardo a quanto possa sopportare la rete; fino a che punto può spingersi una azienda che punta a generare del buzz intorno al suo marchio?

 Coloro che indossano la sua moda devono sentirsi come se appartenessero ai “ragazzi fighi

Quanto riportato da Robin Lewis e Michael Dart nel libro The new rules of retail è che Mike Jeffries, amministratore delegato della compagnia americana, abbia una filosofia quantomai definita rispetto al target della propria azienda: questi «vuole vedere solo persone magre e belle nei suoi negozi […] Coloro che indossano la sua moda devono sentirsi come se appartenessero ai “ragazzi fighi”».
Questa visione aziendale è stata oggetto di critiche già in passato, in quanto fortemente discriminatoria.

Lo stesso Jeffries ha rilasciato una intervista in cui conferma questa cosa, dichiarando:

In ogni scuola ci sono i ragazzi fighi e popolari, e poi ci sono i bambini non così “cool”. E, dovendo essere sinceri, noi ci occupiamo dei ragazzi fighi, quei ragazzi attraenti che hanno un certo tipo di atteggiamento e con un sacco di amici. Molte persone, semplicemente, non entrano nei nostri vestiti e non ci entreranno mai. Escludiamo della gente? Certamente.

 

 

La reazione del web #Fitchthehomeless

E’ di questi giorni la notizia di una campagna nata sul web per un rebranding di A&F avviata da Greg Karber. Sotto il vessillo dell’hashtag #fitchthehomeless, il filmmaker invita tutti a regalare i propri abiti firmati A&F ai senzatetto e a documentare la cosa sui social network.

L’obiettivo è  quello di far diventare Abercrombie & Fitch “The World’s Number One Brand of Homeless Apparel“

 

 

ll limite di sopportazione della rete

è più che evidente che ancora una volta i social media stanno dando dimostrazione di una forza e di una coscienza critica che le aziende farebbero bene a non sottovalutare.

Si tratta di una azione di quello che potremmo definire karma rebranding, che dal web potrebbe ipoteticamente generare una concreta azione di distruzione del posizionamento del brand.
Dubito sinceramente che la cosa avrà un seguito così affiatato da arrivare al raggiungimento dell’obiettivo di Karber, ma è più che evidente che ancora una volta i social media stanno dando dimostrazione di una forza e di una coscienza critica che le aziende farebbero bene a non sottovalutare.

La domanda che tutto questo mi ha portato a sollevare è proprio se esista e quale sia il punto di non-ritorno, oltre il quale quella che sia effettivamente una provocazione ben riuscita, che porti a far parlare molto del brand e a aiutare a raggiungere il posizionamento auspicato (come nel caso di quanto stava accadendo a mio avviso con successo per A&F), e che porti ad  indignare la rete al punto da generare un’azione virale, che finisca per danneggiare concretamente il brand.

Fino ad oggi mi sono schierato dalla parte di A&F, da un punto di vista professionale, trovando che quanto dichiarato dall’AD fosse coerente con gli obiettivi aziendali e che stesse portando grande notorietà alla azienda, benché eticamente discutibile, ma oggi mi trovo a passare dalla parte opposta della tifoseria, trovando ancora più entusiasmante la battaglia del ragazzo di Los Angeles. Sono davvero curioso di vedere fino a che punto riuscirà una idea portata avanti con un video ed un hashtag ad incidere su di un brand di quelle dimensioni.