I denti bianchi (2 di 3)


Prima parte

Tzia Cesara aveva i grossi seni penzolanti e morbidi come sacche cariche di panna, ed Efisieddu li vedeva ondeggiare ad ogni colpo dell’uomo. La porta della piccola casa non era al livello della strada, come molte in quel periodo, e permetteva al bambino di vedere attraverso un’apertura nella parte alta della porta, chiusa solamente da due grosse sbarre di metallo incrociate. Sugli scalini che permettevano a chi usciva dalla casa di arrivare sulla strada, il piccolo quindi arrivava a vedere senza neppure doversi alzare sulle punte dei piedi, dove un adulto invece si sarebbe dovuto inchinare e incassare nello spazio del muro.
La stanza era poco illuminata, e altro non vedeva che ogni tanto le mammelle della Tzia ed il culo dell’uomo che in quel momento se la montava non come facevano gli altri, che si buttavano tra is coscias aperte della Tzia immobile, ma come le pecore o i cani, attaccandosi alle grosse tette e sbavando, mordendo e ringhiando assieme alla donna.
L’uomo non era un militare americano, ne era sicuro. Non c’era nessuna divisa a terra, e nonostante gli abiti a terra fossero quelli del pastore (a differenza dell’odore, che non era di prebei e merda) era uno di fuori.
La Tzia non si muoveva. Da quando l’uomo si era scaricato, e pure molto a sentirne i versi, non si era mossa, e stava riversa sul letto, poggiata sulle mammelle, i capelli sul volto con una ciocca che spariva tra i denti bianchi.

[more]Tzia Cesara era una puttana, ma questo l’interlocutore lo sapeva già. Lo stupiva il fatto che lo sapesse anche un bambino di quell’età, e domandò chi glielo aveva detto. Nessuno, ovviamente. Funta coddenti commenti is canisi quando li aveva visti. Scopando come i cani. Efisieddu non si vergognava della Tzia come la mamma ed il babbo, che non la invitavano la domenica al pranzo e diventavano rossi quando il prete venuto a mangiare tirava fuori l’argomento e non gli dicevano neppure della coscia di maialetto appena svezzato, o mezzo polletto, qualche uovo, che le mandavano a casa ogni settimana, per aiutarla perché a fare la bagassa non è che ci si guadagni poi molto, soprattutto in paese, dove a pagare in soldi non sono in tanti, e a volte per una coddata ci guadagnava solo un po’ di pomodori.
Gli portava il cibo Efisieddu, correndo dalla zona alta vicino alle rovine della chiesetta di San Sebastiano per la strada sterrata che porta a Santa Barbara, tra le querce e i cinghiali, fino al limite dove c’erano le ultime case. Bussava urlando alla Tzia e lei, dopo aver aperto la porta, amorevolmente gli mostrava le grosse mammelle pendenti e scure con i capezzoli, mai ciucciati da un bambino ma solo da adulti, ancora più scuri. E lui, che non si era mai coddato una pecora ma non era mica caghino si sentiva eccitato, e prima di tornare a casa si infilava dentro al bosco con i pantaloncini corti calati fino alle caviglie ed il culo all’aria poggiato al tronco del quercio, e si metteva le mani là sotto, che mentre Don Giulio diceva che era peccato, Tziu Mauriziu lo faceva anche dieci volte al giorno perché a Milano le ragazze c’avevano la gonna che arriva fino all’albicocca e non c’erano prebeisi – non c’erano pecore.

Tzia Cesara non era l’unica puttana del paese. Ma tutti, tranne quelli a cui piacevano le pecore, le vecchie o le grasse come SciùSciù, andavano da lei.
Perché aveva i denti. Tutti. E non aveva nessuna malattia strana, non le mancava nessun braccio, nessuna gamba. Ma i denti erano più importanti, perché erano bianchi, forti, quando molti non solo non li possedevano chiari e sani, ma neppure li avevano.
Spesso i militari della base la pagavano in spazzolini e dentifrici, ma fin da bambina la Tzia si sfregava i denti, piccoli ed eburnei chicchi di melograno, con la parte opaca e morbida delle foglie di salvia, per rinfrescarsi poi con mentuccia da masticare.
Ora, stesa sul letto con una ciocca persa tra le labbra schiuse, Efisieddu pensava che la Tzia fosse morta. Non vedeva che qualcosa nasceva tra le sue palpebre chiuse, come non si vede la goccia di pioggia scivolare tra gli spacchi della corteccia ruvida del sughero.
Era invece distratto dal forestiero, perché aveva una mincia come quella del muenti – come quella dell’asino. Spiando la Tzia aveva visto tante mince, e spesso quando guardava dalle sbarre incrociate con gli amici facevano poi che se le misuravano uno di fronte all’altro per vedere chi lo aveva lungo come quello dei clienti, e facevano poi la lista.
Tori, il figlio del calzolaio ad esempio ce l’aveva come un mezzo cavallino; Sattori, quello che risparmiava tutto il mese le monete per una coddata con la Tzia, invece quando era duro ce lo aveva come loro.
Ma a quello gli penzolava giù come una salsiccia.

Tzia Cesara, coperta solo da stracci, era circondata da sei persone. La parte del gruppo più vicina al letto era composta dal fratello Antonio, sua moglie e dal prete don Giulio che tentava di calmare un fremente Efisieddu, mentre poco più indietro, poggiati al piccolo tavolo in castagno, osservavano il medico militare della base – l’Ufficiale Biaso Cioffi, un napoletano ormai da quasi quindici anni in paese – e un giovane. Tutti guardavano la donna come si può guardare una vacca gravida, come messi davanti ad un dolore animale, non umano, e quindi impossibile da comprendere.
Il giovane aveva appena finito di interrogare uno ad uno i parenti della donna nel privato silenzio dell’aura della chiesa di San Pietro, seduti sui lavatoi all’ombra degli alti eucalipti, e ormai tornato nel calore della casa si poté togliere la lunga sciarpa di lana, lasciando scoperto il candido collare romano.
Il ragazzo era stato inviato da Cagliari direttamente dal Vescovo per controllare. Don Francesco aveva taciuto a tante domande dell’anziano prete, consegnandogli unicamente una lettera dove il Vescovo in persona gli raccomandava il ragazzo. Così giovane, il prete di Cagliari gli incuteva timore, e don Giulio era risaputo fosse velenoso quasi più del serpente che la Madonna schiacciava col piede nella statua dentro la chiesa.
Mentre quindi l’anziano parroco e Antioca pregavano, il giovane inviato discuteva in italiano con l’ufficiale che gli mostrava un barattolo pieno di un liquido trasparente in cui galleggiava qualcosa.
Poi, facendosi strada tra i due che pregavano, il medico alzò il vestito della Tzia addormentata fino a scoprirle il ventre oltre la topa riccia e gonfia, e mostrò all’inviato la cicatrice che attraversava il ventre della donna da parte a parte.
Non le ha toccato altro diceva il medico, che altrimenti si poteva usare giusto per farci la cordula.

Tzia Cesara aveva il ventre gonfio. Insomma, era gravida come una pecora.
Efisieddu sapeva chi aveva ingravidato la Tzia, perché negli ultimi mesi aveva avuto sempre lo stesso cliente, quello con la mincia a salsiccia. Quello che invece il piccolo non sapeva era che la Tzia non poteva avere figli.
Quando ancora era una ragazza, Cesara aveva preso a lavorare a casa di una delle famiglie più ricche del paese, tali Corrolu, con un figlio di nome Gavino che era risaputo volesse coddarsi Cesara.
Quello che la ragazza non poteva immaginare è che tentasse di farlo senza il matrimonio, e soprattutto senza il suo consenso, un giorno che lei stava facendo i panni nel lavatoio della casa. Il giovane si era avvicinato, e aveva iniziato a strisciarsi la mincia sul didietro di Cesara, che era piegata sul lavabo mentre risciacquava i vestiti appena insaponati. La ragazza più di ajò ajò non diceva, che tanto Gavino di solito si finiva tutto nei calzoni da solo senza neppure toccarsi, ma quella volta, chinatosi pesantemente sopra la sua schiena, prese a strizzarle le mammelle, tanto che lei non riuscì a trattenere una smorfia di dolore e rovesciò tutto il catino col sapone e i vestiti puliti per terra.
Come si era inginocchiata singhiozzante per il dolore e il lavoro sprecato, Gavino l’aveva buttata a terra, e tirando fuori dai calzoni la tozza mincia dura, cercava di farsi strada tra gli strati di vestiti per coddarsela. Mica voleva accoltellarla, è che Cesara con quelle mammelle cascanti lo faceva sempre scaricare dentro i calzoni e quella volta invece voleva farlo dentro la sua topa, una sola volta. Aveva però cambiato idea quando un dolore aveva preso tutta la mincia, e abbassato lo sguardo al posto del membro c’erano solo le unghie sporche e scheggiate di Cesara che stringevano con forza un pezzo di carne insanguinato, e così la accoltellò, da parte a parte, solo per farle mollare la mincia.
Disse poi in giro che quella bagassa se l’era coddata e voleva sempre mincia, ma il giorno l’aveva minacciato di ucciderlo se non l’avesse sposata e lui si era solo difeso.
Quando due mesi dopo Cesara tornò in piedi, decise di fare l’unica cosa che una bella donna non in grado di figliare potesse fare. [/more]

Note
[more]Bagassa: puttana
Coddata: scopata
Cordula: tipico piatto sardo dove gli organi interni dell’animale, tagliati e infilzati in uno spiedo, vengono coperti con le interiora arrotolate e cotte poi alla brace[/more]

[CoolStoryBro] è la rubrica di Lega Nerd dedicata alla letteratura amatoriale

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